11 giugno 2006

Sofri, Bompressi, D' Elia: quando anche la giustizia si inchina alle «lobby»

Il rischio è che resti in galera chi non ha santi nel Paradiso della politica
di Piero Ostellino

Non ci sarà pietas nella grazia a Bompressi e a Sofri. Sarà solo la messa cantata con la quale un' intera generazione celebrerà la propria auto-assoluzione. Tanto meno c' è redenzione nella nomina di D' Elia a segretario della Camera. E' solo la metafora attraverso la quale quella stessa generazione legittima il proprio potere. Negli anni Settanta ci fu un tentativo, dopo quello fascista del ' 22, di «marciare su Roma», di violenta conquista dello Stato. Il colore delle camicie era rosso, invece di nero. Ma la vocazione illiberale era la stessa. Fallita l'impresa, molti uomini che vi avevano partecipato hanno scalato ugualmente il potere sociale e politico, questa volta per via pacifica, grazie soprattutto al cinismo di un sistema economico corrotto e corruttore che se ne è servito. E, da quel momento, si sono posti il problema di rifarsi una «fedina morale» pulita. La grazia per Ovidio Bompressi, l'uomo che assassinò materialmente il commissario Luigi Calabresi; quella per Adriano Sofri, che tutta una serie di sentenze ha condannato come mandante dell' assassinio; la stessa nomina a segretario della Camera di Sergio D'Elia, che ha passato anni in galera per terrorismo, sono un rito politico, simbolico e propiziatorio, comprensibile solo all' interno di tale «contesto» storico e generazionale. Bompressi ha chiesto la grazia perché si è pentito ed è in cattive condizioni di salute. Gli è stata concessa perché questo prevede la legge e suggerisce una ragionevole prassi umanitaria. Tutto lascia intendere che sarà concessa anche a Sofri, anche se sarà difficile, per il presidente della Repubblica, motivare il provvedimento, essendosi l' interessato sempre rifiutato di chiederla. Sofri sarebbe stato coerente col proprio ravvedimento se avesse socraticamente bevuto la cicuta della domanda di grazia invece di chiudersi in un ostile e ambiguo rifiuto. Sarebbe stato un modo non tanto di ammettere la propria colpevolezza quanto di riconoscere legittimità alla Giustizia e, quindi, allo Stato che aveva combattuto; legittimità che, invece, ha continuato, coerentemente col proprio triste passato e con arroganza, a negare. D'Elia è stato nominato segretario della Camera perché è ora alla testa del movimento «Nessuno tocchi Caino», che si oppone alla pena di morte nel mondo. Sono tutti e tre, a quel che si dice, altri uomini rispetto a ciò che erano. Per me, lo scandalo non sta, dunque, né nella grazia a Bompressi e a Sofri, né nella nomina di D'Elia. Dopo un certo numero di anni, è giusto che la pena perda l' originaria funzione di punizione e chi l'ha scontata, anche se, per buona condotta, solo parzialmente, possa rifarsi una vita. Lo scandalo sta nella dimostrazione che, in Italia, anche per varcare la zona grigia fra giustizia e umanità, occorra essere protetti da una qualche lobby, in Parlamento e nell' establishment culturale, magari costituita dagli stessi sodali di un tempo. Ma degli altri reclusi, che non sono più gli stessi di quando commisero i loro reati, che ne facciamo? Li lasciamo in galera solo perché non hanno santi nel Paradiso della politica? Così, a presidio del Parlamento c' è ora un ex terrorista che lo voleva abbattere e a capo del governo c' è chi (Romano Prodi), facendo ballare un tavolino durante una seduta spiritica (?!), aveva indicato «in Gradoli» (via? città?) il luogo dove i terroristi tenevano Moro. Da noi, la storia trascolora volentieri dalla tragedia alla farsa.
« Corriere della sera » del 10 giugn0 2006

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