di Massimo Gramellini
Giornali e commentatori di destra hanno avviato un dibattito sulla legittimità delle intercettazioni telefoniche, come un tempo intorno al ruolo dei pentìti. L'effetto è abbastanza lunare. Davanti ai nostri occhi scorre uno spaccato di società volgare e meschina, che anche quando non è penalmente rilevante appare moralmente disgustoso. Ma ai garantisti di parte toglie il sonno una preoccupazione sola: sarà lecito ficcare il naso nella vita degli indagati? E' una gran bella domanda. Però in una ideale hit parade delle emergenze, andrebbe posta fra l'ottantesimo e il novantesimo posto. Prima sarebbe più impellente discutere se sia lecito rubare, condurre affari loschi, disprezzare le donne, comportarsi con l'arroganza che deriva da una presunzione di impunità e ridurre il proprio orizzonte di vita a una pratica squallida di vizi mediocri e mediocremente esercitati, trincerandosi dietro il padre di tutti i pensieri deboli: «così fan tutti».
E' un'idea infantile e comoda di libertà che porta i suoi cantori a farla coincidere con la salvaguardia della privacy invece che con la responsabilità dei propri atti. La libertà è parola adulta e bisogna meritarsela. A furia di condannare come intrusivo ogni intervento dello Stato sui comportamenti individuali, abbiamo costruito una società in cui nessuno crede più a niente, tanto meno allo Stato, e tutti sono liberi solo di essere infelici. Educare i propri membri a non viver come bruti è un dovere della comunità, non un'imposizione autoritaria. E se la paura di veder spiattellati i propri abissi sul giornale può servire allo scopo, un liberale accetta, sia pur a malincuore, che la privacy retroceda di un passo: ne farà uno avanti quando potrà poggiarsi su gambe meno flaccide.
« La Stampa » del 21 giugno 2006
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