di Paola Mastrocola
Un mio maestro sostiene che i ragazzi dovrebbero cambiare insegnanti ogni anno, perché solo così, posti ogni volta difronte al nuovo, proverebbero le loro capacità effettive, senza rete, senza più contare sugli ormeggi della familiarità e dell'abitudine: via, una barca in mare aperto, mai un porto. Visione eroica e avventurosa della scuola. Agli antipodi sta l'immagine della scuola-famiglia, dell'insegnante amico che conosce ogni spillo dell'allievo, sa tutto dei suoi problemi familiar-sentimental-psico-socio-somatici… Io penso che le barche, almeno ogni tanto, debbano lasciare il porto. Se no, che barche sono? Va bene curarle, accarezzarle, cullarle, ma vuoi toglier loro l'ebbrezza del mare aperto per cui in fondo sono nate? Una prova da superare vuol dire essenzialmente due cose. Primo, che hai poco tempo a disposizione: in un pugno di minuti o di ore devi dimostrare chi sei, e non ti basterà l'impegno pregresso, i meriti conquistati nel passato, nulla, azzerato tutto (o quasi), devi giocare con l'attimo e con quel che l'attimo comporta di estremamente rischioso: l'imprevisto. Secondo, che in quel poco tempo ti trovi davanti qualcuno che è lì per giudicarti. Una prova da superare deve essere difficile, se no, non c'è gusto a superarla; e per essere difficile, deve avere a che fare con ingredienti che pertengono a concetti un po' metafisici, quali la sorte, il destino individuale, il caso; e a concetti un po' etici quali il coraggio, la volontà, la fatica, il rischio. Regola basilare, dunque: che il giudicato non conosca il giudicante. Se no, se per caso mai lo conoscesse o fosse addirittura suo amico, che gioco sarebbe? Colui che ti giudica è, per definizione, l'altro: l'estraneo, lo sconosciuto. L'alieno. Viene da un altro pianeta. Se fosse possibile, non dovrebbe nemmeno avere un volto e un nome: pura entità astratta che non esiste di per sé, ma solo in quanto è chiamato a giudicarti, e solo in quel preciso e piccolo istante della tua vita. Poi sparirà nel nulla, tornerà nella sua perfetta inesistenza. Bellissimo.
Ma veniamo alla sostanza dell'esame che una volta si chiamava «di maturità». Si tratta di una prova per metà scritta e per metà orale: dunque, fondata sull'uso della parola nelle sue diverse due varianti. Si tratta dunque ancora oggi, se Dio vuole, nonostante i tempi siano così cambiati, di una prova di schietta eloquentia: l'allievo deve oggi incredibilmente ancora dar prova delle sue abilità retoriche. Ora, tal genere di abilità, ovvero la nostra arte di persuadere, emozionare, convincere, sedurre attraverso la parola, crescono enormemente se siamo posti difronte a qualcuno che non conosciamo. Per una sorta di miracolo, di colpo avvertiamo un potenziamento delle nostre facoltà espressive e relazionali: l'altro, colui che abbiamo difronte, ci appare, in quanto sconosciuto, come una sorta di terra da conquistare. Al contrario, come possiamo imprimere al nostro linguaggio una forza emotiva nuova e dirompente, se dobbiamo rivolgerci a persone che vediamo da anni, e con cui abbiamo stabilito rapporti di serena abitudinarietà? Sarebbe come dare l'esame con il vicino di casa che da vent'anni incontriamo in ascensore tutte le mattine: quali mirabolanti parole ci verrebbero mai alle labbra? Come potremmo mai sedurlo, stupirlo, persuaderlo del nostro valore? Ogni volta che la vita scolastica gli offre interlocutori nuovi, l'allievo ha dunque la felice opportunità di essere un altro, di diventare anche lui nuovo, reinventarsi, provare quel che vale come se fosse la prima volta, scrollandosi di dosso le innumerevoli etichette, a volte posticce, che anni di scuola gli hanno appioppato. L'esame di maturità con insegnanti che vengono da fuori - la cosiddetta commissione esterna - era una di queste fortunate chances che la sorte ti offriva. Certo, poteva andarti bene o male (a me ad esempio capitò una commissaria di non so quale paese del sud con cui non mi sentii per niente in sintonia, e presi cinque di italiano). Ma ne uscivi fortificato, avevi il senso di aver aver compiuto un vero viaggio: avevi comunque levato l'àncora e provavi la stupenda sensazione di avere il mare davanti a te…
« La Stampa » del 21 giugno 2006
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