Né glorificare, né ripudiare. O distinguere i buoni dai cattivi. Invece, come nei casi di Lutero contro gli ebrei e del “Sillabo”, si può creare uno spazio per storie diverse e per il dibattito
di Pierre Gisel
Anticipiamo alcuni stralci del dossier «La trappola del nuovo inizio», contenuto nel primo numero del 2024 del quindicinale “Il Regno-Attualità”. In esso il teologo Pierre Gisel, docente emerito della Facoltà di Teologia dell’Università di Losanna, mette in guardia dal desiderio di purificazione della storia e di “nuovo inizio” portato avanti da cancel culture e wokismo.
La cancel culture – «cultura dell’annullamento» o «della cancellazione» – ha invaso la scena pubblica. Si tratta di cancellare quel passato che non possiamo più riconoscere come nostro o che non vogliamo più che torni alla ribalta. Questo perché il passato è troppo pieno di colpe o di crimini, di violenza, schiavitù e repressione delle differenze, siano esse di genere, razza o cultura. Colpe e crimini che una storia costruita – quella dei vincitori – ha rimosso e ricoperto di una visione ideale, ma ingannevole e distorta. Questa cancel culture viene ora rafforzata dal woke, il «risveglio» che le minoranze hanno avuto nell’ultimo decennio, soprattutto negli Stati Uniti. Un movimento di base che mira a portare davanti ai nostri occhi e alle nostre responsabilità la realtà della schiavitù (e oltre a ciò, d’ogni oppressione e servitù), la realtà delle donne, tra seduttrici fatali e streghe (e oltre a ciò, d’ogni dominazione binaria), la realtà delle culture disprezzate (e oltre a ciò, di tutte le differenze nei modi di vivere lo spazio e il tempo, e le relazioni con il mondo e con gli altri esseri umani), la realtà degli eretici (e oltre a ciò, di tutti i dissidenti o semplici minoranze). Si chiede giustizia, giustamente, e uguaglianza, altrettanto giustamente, ma ciò può aprire la porta a un egualitarismo sul quale è bene interrogarsi.
Di conseguenza, sono state smantellate figure di riferimento, abbattute statue, bruciati libri, distrutti fumetti, cancellate storie, espulsi dallo spazio pubblico dipinti e altre opere d’arte, così come film e altro ancora. Le biblioteche universitarie sono state colpite (decine di migliaia di libri sono stati ridotti in cenere). Anche i programmi di formazione. È il momento della vendetta. E perché no!? Ma sui punti in questione, tale vendetta si dispiega e si impone al di fuori di ogni reale spazio di discussione, anche se necessariamente, o addirittura inevitabilmente, conflittuale. Cancelliamo, sostituiamo. In breve, annientiamo. O purifichiamo. E lo facciamo in direzione di uno spazio sociale omogeneizzato (quale tipo di resistenza potrebbe essere qui riconosciuta come anche solo parzialmente legittima?) e neutralizzato (quale diritto potrebbe essere concesso qui a una posizione diversa?), quello del politicamente corretto.
Tutto sommato, stiamo di fatto aprendo la porta al presentismo, all’indifferenziato, anche se alla base del movimento in corso l’intento era di ripristinare il diritto delle differenze escluse o non riconosciute. Ma forse questo è dovuto al fatto che, consapevolmente o meno, crediamo che ogni differenza non possa che portare alla discriminazione... Il quadro complessivo così delineato solleva in sottofondo domande insistenti: che tipo di rapporto possiamo avere con il passato, un rapporto che non sia una venerazione ingannevole o una cancellazione irriflessiva? Si possono ancora fare riferimenti alle cose antiche – positivi o negativi che siano – e se sì, come, a che titolo e per che cosa? (...)
La sfera religiosa è chiaramente colpita, o comunque è coinvolta nel tumulto. Il cristianesimo in particolare, non solo perché fa parte di questo tessuto sociale, ma anche perché è stato teatro della cristallizzazione delle memorie in questione, nonché delle narrazioni – o addirittura della «grande narrazione», come direbbe Jean-François Lyotard, (...)
Come controesempio di quello che la cancel culture comporta, prendo le mosse da due momenti storici. Prima Martin Lutero e gli ebrei, poi il Sillabo romano del 1864, uno protestante e uno cattolico. Per delineare che cosa si dovrebbe fare di fronte a questo o quel disastro storico, e con quali benefici. Partiamo da Lutero e dal suo testo De Judaeis et eorum mendaciis (Degli ebrei e delle loro menzogne) del 1543, in cui sostiene 8 misure contro gli ebrei. (...) In un discorso tenuto nel novembre 1938, al tempo della “Notte dei cristalli”, un vescovo protestante celebrò Lutero come «il più grande antisemita del suo tempo, colui che mise in guardia il suo popolo dagli ebrei». Il testo di Lutero è abominevole. Alcuni cercano di trovare delle giustificazioni inserendolo in un contesto, o storico o psicologico. Altri condannano Lutero, e non solo questo testo e pochi altri simili, ma tutto ciò che ha scritto e fatto.
Insomma, l’apologetica da una parte, la cancel culture dall’altra. Io sostengo una terza via. Né glorificare né ripudiare. Non si tratta nemmeno di distinguere i buoni dai cattivi, che è quello che facciamo la maggior parte delle volte. La cernita cancella le ambivalenze che attraversano sia ciò che intendiamo conservare sia ciò che rifiutiamo, e va inconsciamente di pari passo con l’idea che possiamo relazionarci con immediatezza con ciò che consideriamo buono, e che possiamo rifiutare senza ulteriori indugi ciò che consideriamo riprovevole o malvagio. Questa terza via presuppone, innanzitutto, che ci si allontani dalle espressioni di primo livello – affermazioni, cifre o altro – e si concentri l’attenzione sulle reali e diversificate collocazioni delle due parti in questione, quella ritenuta positiva e quella riconosciuta negativa. Più precisamente, propongo di considerarle ogni volta come parte di una costellazione di modi diversi di dare corpo a questioni umane e sociali più ampie. In questo modo, il passato sarà istruttivo, nella sua articolazione differenziata con un presente che ha le sue ambivalenze e tentazioni. Questa terza via mostrerà poi gli impulsi legati a un particolare motivo e la gamma di cose che ne possono emergere. Avremo quindi tagliato i ponti con ciò che ci porterebbe a pensare che tale forma da ripudiare sia solo un incidente da correggere o di cui sbarazzarsi, per mostrare come essa riveli questioni fondamentali e modi di rispondere. (...)
Il Sillabo tratta del nostro rapporto con il mondo, civile o non religioso, e dunque fa parte di una serie di posizioni, ognuna delle quali va riletta e considerata. Le troviamo in quel testo, ma possono sempre riproporsi: un’indifferenza che si tiene a distanza, una fede che proviene da un altro ordine e che può abitare qualsiasi tipo di città (come nella Lettera a Diogneto della fine del II secolo d.C,), un’apologia dell’Impero come compimento del disegno di salvezza di Dio (come nel caso di Eusebio di Cesarea, vescovo vicino a Costantino), una dialettica tra un momento di ultima istanza e il qui e ora (Agostino d’Ippona che pensa a una «città di Dio» diversa dalla «città terrena» e che a modo suo la attraversa), varie ricorrenze apocalittiche (Gioacchino da Fiore, ma anche, prima ancora, molti dissensi e proteste e, più tardi, movimenti utopici che intersecano tutto il tardo Medioevo e gli inizi dell’età moderna), vari modi di distinguere tra i due ordini (nelle sintesi medievali o tra i riformatori protestanti), l’opposizione tra «visione del mondo» e «umanesimo secolare» (in un filone dell’evangelicalismo del XX secolo che continua nel XXI, ma questa opposizione può assumere forme meno nette), la visione di un’analogia tra finalità ecclesiali e finalità sociali, sovradeterminate da un obiettivo comune (penso a un notevole testo di Karl Barth del 1946), le valorizzazioni della secolarizzazione (Friedrich Gogarten, Harvey Cox, Gianni Vattimo), una coesistenza pacifica che opera affinché il mondo incarni gradualmente i valori cristiani (posizioni liberali o certa teologia della liberazione). Ricostruendo questa costellazione di posizioni, non rimarrà una condanna, ma, come nel primo esempio riportato – Lutero e gli ebrei – avremo tematizzato un insieme problematico i cui termini sono ancora presenti. (...). All’inizio del mio testo ho accennato a una risposta diversa dalla cancellazione (ciò che è ritenuto riprovevole deve essere lasciato al suo posto, altrimenti non saremo nemmeno in grado di spiegare criticamente ciò che è stato fatto...), quella d’innalzare, a contrasto con i monumenti che commemorano figure screditate, testimoni di un’altra parte della storia, in modo che si apra uno spazio di dibattito su uno sfondo di differenze su cui riflettere.
È una pista che, almeno, riconosce e accetta che il sociale e l’umano richiedono una raffigurazione, consacrando lo spazio differito del culturale, del politico e del religioso. Riconosce che il passato può essere solo raccontato, in una narrazione che sovverte il dato per portarlo oltre e secondo una propria prospettiva. Questo gesto deve essere ripreso, sapendo che può testimoniare il meglio o essere l’occasione del peggio, e non deve essere soppresso o neutralizzato. Ma prima deve essere restituito e deve essere valutato ciò che ha generato, intenzionalmente o meno. Senza questo lavoro, da svolgere sulla base delle nostre differenze, saremo lasciati alle nostre soggettività e ai loro effetti, senza alcuna mediazione.
Di conseguenza, sono state smantellate figure di riferimento, abbattute statue, bruciati libri, distrutti fumetti, cancellate storie, espulsi dallo spazio pubblico dipinti e altre opere d’arte, così come film e altro ancora. Le biblioteche universitarie sono state colpite (decine di migliaia di libri sono stati ridotti in cenere). Anche i programmi di formazione. È il momento della vendetta. E perché no!? Ma sui punti in questione, tale vendetta si dispiega e si impone al di fuori di ogni reale spazio di discussione, anche se necessariamente, o addirittura inevitabilmente, conflittuale. Cancelliamo, sostituiamo. In breve, annientiamo. O purifichiamo. E lo facciamo in direzione di uno spazio sociale omogeneizzato (quale tipo di resistenza potrebbe essere qui riconosciuta come anche solo parzialmente legittima?) e neutralizzato (quale diritto potrebbe essere concesso qui a una posizione diversa?), quello del politicamente corretto.
Tutto sommato, stiamo di fatto aprendo la porta al presentismo, all’indifferenziato, anche se alla base del movimento in corso l’intento era di ripristinare il diritto delle differenze escluse o non riconosciute. Ma forse questo è dovuto al fatto che, consapevolmente o meno, crediamo che ogni differenza non possa che portare alla discriminazione... Il quadro complessivo così delineato solleva in sottofondo domande insistenti: che tipo di rapporto possiamo avere con il passato, un rapporto che non sia una venerazione ingannevole o una cancellazione irriflessiva? Si possono ancora fare riferimenti alle cose antiche – positivi o negativi che siano – e se sì, come, a che titolo e per che cosa? (...)
La sfera religiosa è chiaramente colpita, o comunque è coinvolta nel tumulto. Il cristianesimo in particolare, non solo perché fa parte di questo tessuto sociale, ma anche perché è stato teatro della cristallizzazione delle memorie in questione, nonché delle narrazioni – o addirittura della «grande narrazione», come direbbe Jean-François Lyotard, (...)
Come controesempio di quello che la cancel culture comporta, prendo le mosse da due momenti storici. Prima Martin Lutero e gli ebrei, poi il Sillabo romano del 1864, uno protestante e uno cattolico. Per delineare che cosa si dovrebbe fare di fronte a questo o quel disastro storico, e con quali benefici. Partiamo da Lutero e dal suo testo De Judaeis et eorum mendaciis (Degli ebrei e delle loro menzogne) del 1543, in cui sostiene 8 misure contro gli ebrei. (...) In un discorso tenuto nel novembre 1938, al tempo della “Notte dei cristalli”, un vescovo protestante celebrò Lutero come «il più grande antisemita del suo tempo, colui che mise in guardia il suo popolo dagli ebrei». Il testo di Lutero è abominevole. Alcuni cercano di trovare delle giustificazioni inserendolo in un contesto, o storico o psicologico. Altri condannano Lutero, e non solo questo testo e pochi altri simili, ma tutto ciò che ha scritto e fatto.
Insomma, l’apologetica da una parte, la cancel culture dall’altra. Io sostengo una terza via. Né glorificare né ripudiare. Non si tratta nemmeno di distinguere i buoni dai cattivi, che è quello che facciamo la maggior parte delle volte. La cernita cancella le ambivalenze che attraversano sia ciò che intendiamo conservare sia ciò che rifiutiamo, e va inconsciamente di pari passo con l’idea che possiamo relazionarci con immediatezza con ciò che consideriamo buono, e che possiamo rifiutare senza ulteriori indugi ciò che consideriamo riprovevole o malvagio. Questa terza via presuppone, innanzitutto, che ci si allontani dalle espressioni di primo livello – affermazioni, cifre o altro – e si concentri l’attenzione sulle reali e diversificate collocazioni delle due parti in questione, quella ritenuta positiva e quella riconosciuta negativa. Più precisamente, propongo di considerarle ogni volta come parte di una costellazione di modi diversi di dare corpo a questioni umane e sociali più ampie. In questo modo, il passato sarà istruttivo, nella sua articolazione differenziata con un presente che ha le sue ambivalenze e tentazioni. Questa terza via mostrerà poi gli impulsi legati a un particolare motivo e la gamma di cose che ne possono emergere. Avremo quindi tagliato i ponti con ciò che ci porterebbe a pensare che tale forma da ripudiare sia solo un incidente da correggere o di cui sbarazzarsi, per mostrare come essa riveli questioni fondamentali e modi di rispondere. (...)
Il Sillabo tratta del nostro rapporto con il mondo, civile o non religioso, e dunque fa parte di una serie di posizioni, ognuna delle quali va riletta e considerata. Le troviamo in quel testo, ma possono sempre riproporsi: un’indifferenza che si tiene a distanza, una fede che proviene da un altro ordine e che può abitare qualsiasi tipo di città (come nella Lettera a Diogneto della fine del II secolo d.C,), un’apologia dell’Impero come compimento del disegno di salvezza di Dio (come nel caso di Eusebio di Cesarea, vescovo vicino a Costantino), una dialettica tra un momento di ultima istanza e il qui e ora (Agostino d’Ippona che pensa a una «città di Dio» diversa dalla «città terrena» e che a modo suo la attraversa), varie ricorrenze apocalittiche (Gioacchino da Fiore, ma anche, prima ancora, molti dissensi e proteste e, più tardi, movimenti utopici che intersecano tutto il tardo Medioevo e gli inizi dell’età moderna), vari modi di distinguere tra i due ordini (nelle sintesi medievali o tra i riformatori protestanti), l’opposizione tra «visione del mondo» e «umanesimo secolare» (in un filone dell’evangelicalismo del XX secolo che continua nel XXI, ma questa opposizione può assumere forme meno nette), la visione di un’analogia tra finalità ecclesiali e finalità sociali, sovradeterminate da un obiettivo comune (penso a un notevole testo di Karl Barth del 1946), le valorizzazioni della secolarizzazione (Friedrich Gogarten, Harvey Cox, Gianni Vattimo), una coesistenza pacifica che opera affinché il mondo incarni gradualmente i valori cristiani (posizioni liberali o certa teologia della liberazione). Ricostruendo questa costellazione di posizioni, non rimarrà una condanna, ma, come nel primo esempio riportato – Lutero e gli ebrei – avremo tematizzato un insieme problematico i cui termini sono ancora presenti. (...). All’inizio del mio testo ho accennato a una risposta diversa dalla cancellazione (ciò che è ritenuto riprovevole deve essere lasciato al suo posto, altrimenti non saremo nemmeno in grado di spiegare criticamente ciò che è stato fatto...), quella d’innalzare, a contrasto con i monumenti che commemorano figure screditate, testimoni di un’altra parte della storia, in modo che si apra uno spazio di dibattito su uno sfondo di differenze su cui riflettere.
È una pista che, almeno, riconosce e accetta che il sociale e l’umano richiedono una raffigurazione, consacrando lo spazio differito del culturale, del politico e del religioso. Riconosce che il passato può essere solo raccontato, in una narrazione che sovverte il dato per portarlo oltre e secondo una propria prospettiva. Questo gesto deve essere ripreso, sapendo che può testimoniare il meglio o essere l’occasione del peggio, e non deve essere soppresso o neutralizzato. Ma prima deve essere restituito e deve essere valutato ciò che ha generato, intenzionalmente o meno. Senza questo lavoro, da svolgere sulla base delle nostre differenze, saremo lasciati alle nostre soggettività e ai loro effetti, senza alcuna mediazione.
«Avvenire» di martedì 30 gennaio 2024