di Massimo Gramellini
Un avventore del Caffè si domanda perché influencer e intellettuali nostrani non aprano bocca su quanto sta accadendo a Cuba. E aggiunge, non a torto, che se gli assalti ai forni e gli arresti di massa avessero la Budapest di Orbán come teatro, qui sarebbe tutto un fiorire di petizioni & indignazioni. Invece per chi detta l’agenda universale del bene e del male la dittatura cubana resta sempre un po’ meno dittatoriale delle altre, persino adesso che è passata dalla morsa inflessibile ma professionale dei fratelli Castro a quella di un certo Diaz Canel, a cui Che Guevara non avrebbe neanche lasciato spolverare il sellino della moto.
La tesi difensiva del regime è che al popolo non manca la libertà ma il pane, e il pane manca per colpa dell’embargo americano che Biden si guarda bene dall’ammorbidire. In realtà la libertà manca eccome: è che a pancia vuota la sua assenza si avverte ancora di più. Ma di tutto ciò non c’è traccia nel dibattito. Anzi, non c’è proprio il dibattito. La ragione ideologica del silenzio degli «impegnati»è nota, ma è possibile azzardarne anche una psicologica. Per i più giovani Cuba non significa nulla, mentre per i più anziani tutto. Significa la difesa dell’utopia della loro giovinezza: che il comunismo al potere sarebbe riuscito a cambiare la natura individualista dell’essere umano. La dolce nebbia dei ricordi continua ad avvolgere i contorni di un’isola che è sempre stato più rassicurante immaginarsi che vedere per com’era davvero.
«Corriere della sera» del 15 luglio 2021