18 agosto 2020

Liberiamo i nostri ragazzi dalla «dittatura della felicità»

Un modello indotto
di Daniele Mencarelli
Con il rispetto di tutte le regole del caso, dal distanziamento alla mascherina, la meravigliosa tradizione degli incontri pubblici sta lentamente ricominciando, complice la bella stagione al suo apice.
Ho potuto riprendere, quindi, il dialogo che amo di più: con i ragazzi. Con chi vive oggi quella fase della vita, per tanti ineguagliabile, che si chiama giovinezza. Il mio desiderio di confrontarmi con i nati dopo il 2000, la cosiddetta net generation, alfabetizzati dal primo giorno di vita al mondo digitale, è stato esaltato anche dal Premio Strega giovani, che mi ha permesso di entrare in contatto con tanti, tantissimi di loro. Durante questi dialoghi, spesso entusiasmanti, c’è un dato che mi colpisce più di tutti. A ogni incontro, spesso con parole tremendamente uguali, c’è sempre qualcuno di questi giovani che testimonia la sua profonda infelicità. Non solo a parole, non per modo di dire, lo sguardo, l’intera postura del corpo, tutto testimonia uno stato di prostrazione reale, profonda.
La prima domanda che gli faccio è sempre la stessa, la più stupida, sommaria, ma anche naturale. Chiedo conto della loro infelicità, gli chiedo il perché. Anche la loro risposta sembra seguire un canovaccio prestabilito. Più o meno con queste parole, tanti giovani si professano 'Infelici perché non sono felici'. Può sembrare un gioco di parole, un pasticcio linguistico, in realtà ci stanno comunicando uno dei mali con cui si ritrovano oggi a battagliare i nostri figli. In molti, moltissimi, vivono la felicità come un dovere da compiere, qualcosa che ci viene richiesto dal mondo, dai nostri simili. Gli infelici sono reietti, fastidiosi, ingombranti, soprattutto, non riescono ad adempiere al loro compito. Essere felici. Perché esistono gli strumenti per esserlo.
Con molti di questi ragazzi ho dato vita a confronti che non dimenticherò mai, ho tentato di capire da loro quel che intendono per 'felicità'. Il risultato, almeno per me, ha le fattezze di un allarme sociale, che riguarda tutti, soprattutto chi si ritrova oggi nei panni dell’educatore, genitori in primis.
Per i nostri figli la felicità è qualcosa di statico e concreto, che si può raggiungere né più né meno di una meta turistica, o un luna park. Non solo, tanti dei ragazzi che ho incontrato la immaginano come qualcosa di perenne: una volta raggiunta, agguantata, varrà per sempre. Come il traguardo di una corsa. Come una vittoria definitiva. Un possesso stabilito. Va da sé che attribuire alla felicità queste fattezze genera l’esatto opposto. Il pasticcio linguistico 'sono infelice perché non riesco a essere felice' assume ben altro valore, drammatico. Perché chi ragiona, chi vive in questi termini è destinato al fallimento.
Di questo se ne devono rendere conto, e prendersi la proprie responsabilità morali, tutti quelli che hanno sfruttato la ricerca di felicità facendola diventare un bene alienabile. I comunicatori, i pubblicitari, chi ha colmato il vuoto esistenziale dell’uomo con oggetti da comprare, costruendoci sopra bisogni inesistenti. Il meccanismo è semplice: acquista e diventerai felice, per sempre. Ecco la ricetta magica. Ecco le sirene che cantano nelle orecchie di questi ragazzi. Ed ecco, anche, la grande delusione che si ritrovano a vivere. Perché quell’oggetto, quel bisogno falso, renderà la tua vita felice per un manciata di ore, dopo tornerai quel che eri, un infelice pronto a credere a un altro oggetto da comprare. Un nuovo talismano, ugualmente inutile.
I nostri giovani vanno rieducati all’infelicità, perché è nella nostra natura sentirci incompleti, smaniosi di un bene che sentiamo esistere, ma che non riusciamo a vivere. È questa la condizione umana. Di ricerca, di interrogativi piantati nel petto, domande rivolte al cielo. La felicità arriverà come lampi meravigliosi lungo il cammino, attimi di gioia da serbare per i momenti più duri, ma non sarà questo il luogo, il mondo, della gioia senza fine.
«Avvenire» del 15 agosto 2020

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