di Alessandro D'Avenia
«Non leggevo, ma dopo quel libro non ho più smesso», è un messaggio che ricevo spesso da ragazzi che mi chiedono nuovi titoli, dopo essersi imbattuti nel libro «apri-porta», quello a cui tutti dobbiamo il nostro primo indimenticabile atto di «libridine», l’eros per la vita scatenato dalla parole: «quella viva ed ansiosa speranza di cose spirituali» con cui Cesare Pavese indicava la sua giovanile fame di leggere. Mi scrivono infatti «l’ho divorato», senza sapere che leggere ha origine da un verbo greco che indicava la raccolta dei frutti. Leggere permette di far raccolto di sé: raccogliersi. Colto non è chi legge, ma chi si è raccolto. Chi non ha divorato un libro non ha ancora provato la fame di cui parla Pavese o non ha trovato il libro capace di soddisfarla? Faccio rispondere Leopardi: «Mi sono avveduto che la lettura non ha veramente prodotto in me né affetti o sentimenti che non avessi, che senza quelle letture non sarebbero nati da sé: ma li ha accelerati e fatti sviluppare più presto. Trovando la strada come aperta, correvo per quella più speditamente». L’autore dello Zibaldone non scambia il fine (la vita) con il mezzo (il libro): un buon libro apre la via al possibile, lo sviluppa, accelerando pensieri e sentimenti già presenti in noi, ma ancora inespressi e inattivi. La lettura dissoda il nostro campo interiore, rivoltando strati dell’io induriti da luoghi comuni e impermeabili alla verità. Leggere permette di raccogliere (che è anche ri-accogliere) il meglio di noi stessi.
Bisogna però saper scegliere letture capaci di far maturare ciò che in noi attende compimento. Come fare? Risponde Marcel Proust: «Una delle meravigliose caratteristiche dei bei libri (che fa comprendere la funzione a un tempo essenziale e limitata che la lettura può avere nella nostra vita spirituale) è questa: che per l’autore essi potrebbero chiamarsi “conclusioni” e per il lettore “incitamenti”. Noi sentiamo benissimo che la nostra saggezza comincia là dove finisce quella dello scrittore; e vorremmo che egli ci desse delle risposte, mentre tutto quanto egli può fare è solo d’ispirarci dei desideri. Tale è il valore della lettura, e tale è anche la sua insufficienza. La lettura si arresta alle soglie della vita spirituale: può introdurci in essa, ma non la costituisce. Finché la lettura resta per noi la iniziatrice le cui chiavi magiche ci aprono, nel profondo di noi, la porta delle dimore in cui non avremmo saputo penetrare da soli, la sua funzione nella nostra vita è salutare. Diventa invece pericolosa quando, in luogo di destarci alla vita personale dello spirito, tende a sostituirsi a questa». La lettura ci mette in contatto con le fonti della vita, che sono spirituali, aggettivo a volte ridotto al significato di «mentale» o «astratto», ma lo spirito sta alla nostra anima come il respiro al nostro corpo: è la vita che ci attraversa, che non ci siamo dati e non possiamo aumentare da soli. I bei libri aumentano proprio quella vita, come tutte le relazioni ri-generanti. Per questo Proust dice che hanno un ruolo essenziale: risvegliano il desiderio, che è il motore della vita spirituale e fisica. Noi vogliamo una vita infinita e la lettura ci permette di attivarne e accelerarne la possibilità. Ma allo stesso tempo lo scrittore ci avverte: i libri non bastano. Un bel libro è il testimone della staffetta tra scrittore e lettore: la ricerca dell’uno dà il via a quella dell’altro. Un libro dà vita se ha vita: se diciamo che ce l’ha cambiata stiamo dicendo che ha liberato energie imprigionate da schemi inadeguati, se diciamo che ce l’ha salvata stiamo dicendo che ci ha, in qualche modo, guarito: ma poi sta a noi continuare. Leggere non è un passa-tempo ma un apri-tempo. Io non leggo per «far passare» il tempo (è così poco quello di una vita), ma per dargli senso, intensificarlo e moltiplicarlo: dei libri belli, infatti, diventiamo la carne, come gli uomini-libro di Fahrenheit 451.
Per questo arriva un momento della vita in cui rileggere può avere risultati sorprendenti: se un libro ha fatto maturare la nostra vita interiore, la sua rilettura potrebbe salvarci dai momenti di carestia e aridità. Quando non riusciamo a dar frutto, non abbiamo bisogno di continue novità, ma di ripetute profondità, come chi non si stanca di osservare i tramonti dalla stessa spiaggia o di fare l’amore con la stessa persona. Da anni, soprattutto in tempi magri, raccolgo più dalla rilettura di Omero, di alcuni libri della Bibbia, di Dante e Dostoevskij ... che da tanti libri nuovi definiti «necessari». Questa estate, tra gli altri, risceglietene uno veramente necessario, un acceleratore d’anima, un detonatore di desideri, rileggete (o ascoltate) un libro che abbia già fatto questo con voi: lo rifarà. Bisogna liberarsi dal pregiudizio che «nuovo» significhi solo «recente», e non «ciò che dà qualcosa di inatteso a ogni incontro», come chi ci ama. Io ho cominciato a rileggere il Gattopardo. E voi?
«Il Corriere della sera» del 29 giugno 2020
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