14 novembre 2019

In difesa dell’infinito

di Alessandro D’Avenia
«Quando guardo il cielo stellato sembra che tutto si cristallizzi e sia in armonia e che io sia perfettamente in armonia con il tutto. Ma poi torno in me, e torna l’inferno. Non so cosa fare, come potere finalmente accettarmi come sono». Così mi scrive una ventenne studentessa di astronomia dopo la lettura del mio libro su Leopardi che, quindicenne, aveva già scritto una Storia dell’astronomia, rimasta incompiuta perché, per raggiungere l’infinito, non bastava l’erudizione ma ci voleva la poesia. E così nel 1819 generò l’Infinito, che i recenti rumorosi festeggiamenti per il 200° anniversario segnalano all’ufficio Oggetti Smarriti del nostro tempo «sfinito»: tanto scettico sul dolce naufragare che salva la vita dal non senso, da averlo ridotto all’emozione passeggera di un ragazzo triste del XIX secolo.
Ma Leopardi scrisse quei 15 versi proprio all’età della ragazza della lettera, grazie a una scoperta che, due anni prima, descriveva così: «Ho cominciato a conoscere un poco il bello, facendomi quasi ingigantire l’anima in tutte le sue parti, e dire fra me: questa è poesia, e per esprimere quello che io sento ci vogliono versi». L’origine della gioia di vivere, percepita come dilatazione dell’anima, è la bellezza, da lui trovata nei libri della biblioteca paterna e nel paesaggio circostante: «Quando vedo la natura in questi luoghi mi sento così trasportare fuor di me stesso, che mi parrebbe di far peccato mortale a non curarmene, e a lasciar passare questo ardore di gioventù e a voler divenire buon prosatore e aspettare una ventina d’anni per darmi alla poesia». Non è l’artista a fare la bellezza ma la bellezza a fare l’artista e la bellezza raggiunse Leopardi nel suo angolo di mondo. E questo può valere per tutti, non solo per chi ha doti artistiche: solo la bellezza fa scaturire il «sempre nuovo» dal e nel «sempre uguale». Senza bellezza il «sempre uguale» quotidiano perde senso, ci soffoca e diventa l’inferno di cui scrive la ragazza. La bellezza, manifestazione del legame che unisce tutte le cose, ci mostra, per bagliori, la verità che manca alla realtà: chi ne fa esperienza non smette di cercarla, come Giacomo che trova l’in-finito nei con-fini del suo paesino, e vuole prendersene cura con la penna, ferito dalla «scontentezza nel provare le sensazioni destatemi dalla vista della campagna, come per non poter andare piùaddentro, non parendomi mai quello il fondo, oltre a non saperlo esprimere». Leopardi voleva «toccare il fondo» delle cose e dire com’è: ci riuscì in 15 versi.
L’infinito, quando non lo troviamo, è perché non lo (ri)conosciamo. Infatti l’ultimo «memorizzatissimo» verso, quello del dolce naufragio, è impossibile senza il primo che si apre con: «sempre». Il «sempre nuovo» dell’infinito è nel «sempre uguale» del finito. Sempre cari sono «quest’ermo colle» e «questa siepe», proprio «questi» qui. «Ermo» (parola poetica che ne ricorda una più nota: eremo, dal greco eremos, deserto) è aggettivo che qualifica un luogo solitario. Il colle recanatese è luogo di solitaria e silenziosa contemplazione della campagna che digrada dolcemente verso il mare: chi non sa stare con se stesso e con le cose della natura, diremmo oggi in «modalità aereo», non troverà mai l’infinito. Sempre cara è poi la siepe, un limite che ostacola lo sguardo. Quindi di «sempre caro» nell’Infinito c'è il finito, in cui Giacomo è collocato dalla vita: senza l’accettazione del destino è impossibile aprirsi a una destinazione, perché si è impegnati a provar a fuggire dai limiti della realtà. Per lui la bellezza esce come acqua dalla fontana delle cose «care», e l’infinita sete interiore trova momentanea pace «sedendo e mirando»: attraverso un silenzio paziente e contemplativo, che risveglia la vita assopita dentro di noi.
A metà poesia infatti entrano in scena il cuore e la mente, sollecitati proprio dai limiti: «nel pensier mi fingo» significa che l’immaginazione, spinta dalla bellezza indefinita («vaghezza» direbbe Leopardi) delle cose, risveglia le energie della vita. «Fingo» non è usato in negativo ma nell’accezione creativa che aveva in latino: gli artisti «fingono» le cose, cioè le immaginano e danno loro forma. Per creare la vita come opera d’arte bisogna attingere alle energie interiori che spesso restano inerti, invece Leopardi dice che «per poco il cor non si spaura». Sperimentando il senso del tutto, il cuore trema di gioia e paura: «spaurirsi» è un misto di estasi e terrore, le due reazioni umane, secondo gli studiosi delle religioni, al manifestarsi del sacro. L’infinito buono che ci portiamo dentro è consapevolezza che la nostra vita non è inutile e insensata, ma ha il valore di ciò che non solo non può essere rovinato, ma che anzi è chiamato a un pieno compimento. Leopardi riconosce il valore infinito della sua vita, guardando le cose che lottano per essere belle pur non essendo tenute a farlo. Sperimenta quello che Freud chiamerà «sentimento oceanico», un’intuizione dell’unità e del senso del tutto che perdiamo con l’infanzia. Il dolce naufragio leopardiano non è perdita di se stessi, ma ricerca del pieno possesso di sé nella relazione armonica con tutte le cose. La carezza («sempre caro») di alcune di esse è l’inizio della bellezza, perché, se è vero che le cose finite non possono soddisfare l’infinito, possono però evocarlo e invocarlo: solo il relativo scopre l’assoluto, nel cui mare non si può navigare, ma solo tuffarsi. La profondità del vivere, il suo senso pieno, non è in superficie, ma in fondo, è dentro, non fuori, come mostra l’uso degli aggettivi dimostrativi della poesia.
Le cose care sono indicate con «questo» (colle, siepe, piante, vento), aggettivo dimostrativo per ciò che è vicino a chi parla. L’infinito invece, segnalato all’inizio con «quello» («infinito silenzio»), alla fine diventa vicino («questa immensità» e «questo mare»). L’infinito, da lontano è diventato intimo, come le cose care, non è fuori, ma è qui e adesso, dentro l’anima. L’infinito che Leopardi è riuscito a nominare a 20 anni è il nostro cuore inquieto e spalancato verso qualcosa che ci supera, un abisso che ne cerca un altro: «e mi sovvien l’eterno», dice il poeta, per il quale la finitezza della vita non è una condanna, ma un infinito ancora incompiuto. È il contrario di quanto accade, quando, disprezzando i nostri limiti, cerchiamo consolazione in un cattivo infinito, che ci sfinisce perché è esteriore: l’infinito della perfezione, dell’apparenza, della prestazione, della sicurezza e tutti i falsi infiniti per i quali di «sempre caro» c’è solo il prezzo da pagare. Pretendendo l’infinito dal finito, che non può darcelo, finiamo con l’odiare anche il finito. L’infinito è invece dentro di noi, ci abita e trascende: non è semplicemente quantitativo, ma innanzitutto qualitativo, è l’eterno che inatteso «sovviene», facendoci sperimentare che la nostra vita non è un frammento insignificante del caos, ma tessera di un bellissimo mosaico.
Nel discusso e affascinante libro L’infinito: un equivoco millenario, Giovanni Semerano ridimensiona il «mito» dell’indeuropeo come lingua perduta delle origini ricostruita su base comparativa, e dimostra che «in principio» erano le lingue del vicino oriente antico, delle cui parole i Greci si nutrirono. L’infinito, apeiron nei filosofi presocratici, origine delle cose della natura, non è altro che «la terra» del semitico ’apar (polvere), il biblico ’afar: «la materia con cui il Creatore plasma il primo uomo» e in cui soffia la sua vita eterna. Nei secoli successivi il termine greco venne interpretato con «infinito», astrazione estranea ai filosofi-naturalisti in cerca del fondamento comune a tutte le cose. Vera o no l’ipotesi, Leopardi, poeta-filosofo, intuisce la polarità terra-infinito: quest’ultimo non è l’origine perduta per sempre, ma è il sempre qui e ora, siepe e mare, polvere e soffio (è proprio la voce del vento che egli «compara» all’infinito silenzio). I versi sembrano dirci sia «polvere sei e polvere ritornerai» sia «infinito sei e infinito ritornerai». Non si tratta di mera emozione/illusione dell’infinito suscitata dall’indefinito delle cose materiali, teorizzata per altro da Leopardi stesso nello Zibaldone, ma dell’intuizione vitale che il fondamento di tutto assomiglia a un abbraccio in cui naufragare. La poesia di Leopardi è lotta per dare un volto all’infinito intuito e desiderato in questi versi giovanili. Non smise mai di credere nella bellezza che illumina il finito e spinge a dar compimento a noi stessi e alle cose, e ne lasciò il testamento nella Ginestra che, per quanto fragile, profuma e consola il «deserto».
Il letto da rifare oggi è prenderci cura dell’infinito buono che Giacomo 200 anni fa ci ha messo a portata di anima. Come? Trovando ogni giorno il nostro «ermo colle» e la nostra «siepe», uno spazio/tempo di silenzio e solitudine in cui nutrire di bellezza i sensi e il cuore, per accettare chi e come siamo, e chiederci, come il pastore errante leopardiano: «ove tende questo vagar mio breve?». Solo in questo modo la vita si riempie di senso e la terra di cui siamo fatti, invece di «sfinirsi», si «infinita». Ripetete l’Infinito per difenderlo, come ha dovuto fare mio nipote di dieci anni che, faticando a memorizzare quei 15 versi, si lamentava del fatto che contenessero troppe «e». Ha ragione, l’infinito è tutta questione di congiunzioni: solo quando il finito si unisce all’eterno è dolce naufragare nella vita.
«Corriere della sera» del 3 giguno 2019

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