di Alessandro D'Avenia
«O mio fratello fuoco, l’Altissimo ti ha creato splendido fra tutte le creature, forte, bello e utile. Sii buono con me e gentile. Io prego il Signore che t’ha creato, perché moderi il tuo calore. Così tu brucerai dolcemente e io potrò sopportarti». Sono le parole di Francesco d’Assisi quando il medico, con un ferro arroventato, sta per cauterizzargli la tempia come rimedio per curare la sua malattia agli occhi. Francesco dava del tu a ogni cosa, per lui non esisteva la «natura» come entità astratta ma quest’albero, non l'«umanità» ma quest’uomo, non si prendeva cura del mondo ma delle circo-stanze (ciò che sta attorno), perché in ogni cosa vedeva la luce dell’esserci: il fuoco è questo fuoco, figlio dello stesso Padre, e quindi fratello. Grazie a questo guardare negli occhi ogni cosa e ogni persona, nel 1224 comincia la nostra letteratura con il Cantico delle creature. Ridotto spesso a ode sentimental-panteistico-ambientalista, è invece un inno scritto in un nascente italiano letterario dopo una notte di tormento, proprio a causa del dolore agli occhi, e infatti, nella (spesso dimenticata) seconda parte, Francesco loda Dio per coloro che «sostengono infirmitate e tribulatione in pace», cioè chi vive crisi e difficoltà in una misteriosa pace con se stesso: qualcosa che tutti noi vorremmo saper fare. Ma come possono mai il dolore e le crisi trasformarsi in canto e bellezza?
L’alba portò, insieme alla luce, i 33 versi (gli anni di Cristo) del Cantico, scritto sul modello dei salmi biblici. Poesia è dire-bene le cose, e Francesco le bene-dice tutte: come un cieco che torna a vedere, egli è così felice della loro ritrovata compagnia, dopo quella notte di dolore, che vuole ringraziare Dio con e per «tutte le creature» (v.5). La nostra letteratura comincia bene-dicendo, all’opposto del cieco quotidiano dire-male di cose e persone, a male-dirle di continuo. Per Francesco tutte le cose, essendo create da Dio, sono consanguinee: da fratello sole a sorella terra, passando per luna, stelle, vento, aria, cielo, acqua e fuoco. In questi elementi, nella prima parte, e nell’uomo, nella seconda, egli riconosce i tratti di un Creatore che è tale perché è Padre. Per lui ogni cosa è creatura, parola composta da creo (da cui cresco) e un suffisso latino che indica un’azione che sta per accadere: la creatura non è «creata» una volta per tutte, ma «sta per esserlo», continuamente e in ogni istante. Francesco vede la continua creazione-crescita operata da Dio in ogni cosa e prende parte allo spettacolo. A me succede con l’appello, il mio cantico delle creature: imparo a dare del tu a nomi e volti, e a gioirne. Dal Cantico ho imparato che chi loda non odia, chi stima ama. Quand’è l’ultima volta che avete detto «grazie perché ci sei» con tre aggettivi, come fa Francesco: l’acqua è preziosa, umile e casta; le stelle luminose, preziose e belle? Non è un esercizio facile, richiede coraggio: ha il coraggio di bene-dire cose e persone solo chi ha il coraggio di riceverle come sono e di impegnarsi per come saranno. Quest’apertura a ogni cosa significa soprattutto disponibilità a fare la propria parte nella loro creazione-crescita, cioè ad amare. Francesco riesce così a trasformare tutto, persino il dolore, perché ne accetta il potenziale creativo-accrescitivo: alla sofferenza cerchiamo sempre una causa, un colpevole, per diminuirne il morso. Eppure il segreto (cioè ciò che secerne, il succo) del dolore non è nel passato ma nel futuro, è una storia ancora da scrivere, che «in-vita», spinge ad aprirsi alla vita con occhi nuovi. Francesco chiama «sorella» persino la morte: voglio conoscere il segreto di chi è così libero da bene-dire anche la male-detta per eccellenza, di chi nell’estremo limite non vede il muro ma una soglia, non il capolinea ma un transito. Il Cantico muta la ferita in feritoia per far entrare più vita: quella che sgorga proprio dalle crisi, quando, con le mani aperte della resa, riceviamo ciò che a pugni chiusi non riuscivamo ad afferrare da soli.
Il Cantico inaugura la letteratura italiana inventando e cucendo, nella lingua che ci fa da madre, parole che liberano cuore e mente dalla male-dizione, e rendono la vita più bene-detta. Lo sguardo di Francesco è poetico e profetico, crea e fa crescere: come accade in amore. Egli guarda ogni cosa negli occhi e gli riconosce la sua originaria e originale bellezza, perché lodare significa «ri-conoscere», conoscere qualcosa, ogni volta, «di nuovo» e «come nuovo»: chi loda è «in-novativo» e «ri-conoscente», ha e dà gioia. All’ultimo banco della vita non si guarda negli occhi e si male-dice tutto, al primo si dà invece del tu a ogni cosa, ricevendone il valore più o meno compiuto: anzi se è incompiuto ci si sente impegnati a portarlo verso il compimento, costi quel che costi. Rileggere il Cantico guarisce dalla cecità, facendo del semplice fatto di vivere un’arte e un’irripetibile avventura.
L’alba portò, insieme alla luce, i 33 versi (gli anni di Cristo) del Cantico, scritto sul modello dei salmi biblici. Poesia è dire-bene le cose, e Francesco le bene-dice tutte: come un cieco che torna a vedere, egli è così felice della loro ritrovata compagnia, dopo quella notte di dolore, che vuole ringraziare Dio con e per «tutte le creature» (v.5). La nostra letteratura comincia bene-dicendo, all’opposto del cieco quotidiano dire-male di cose e persone, a male-dirle di continuo. Per Francesco tutte le cose, essendo create da Dio, sono consanguinee: da fratello sole a sorella terra, passando per luna, stelle, vento, aria, cielo, acqua e fuoco. In questi elementi, nella prima parte, e nell’uomo, nella seconda, egli riconosce i tratti di un Creatore che è tale perché è Padre. Per lui ogni cosa è creatura, parola composta da creo (da cui cresco) e un suffisso latino che indica un’azione che sta per accadere: la creatura non è «creata» una volta per tutte, ma «sta per esserlo», continuamente e in ogni istante. Francesco vede la continua creazione-crescita operata da Dio in ogni cosa e prende parte allo spettacolo. A me succede con l’appello, il mio cantico delle creature: imparo a dare del tu a nomi e volti, e a gioirne. Dal Cantico ho imparato che chi loda non odia, chi stima ama. Quand’è l’ultima volta che avete detto «grazie perché ci sei» con tre aggettivi, come fa Francesco: l’acqua è preziosa, umile e casta; le stelle luminose, preziose e belle? Non è un esercizio facile, richiede coraggio: ha il coraggio di bene-dire cose e persone solo chi ha il coraggio di riceverle come sono e di impegnarsi per come saranno. Quest’apertura a ogni cosa significa soprattutto disponibilità a fare la propria parte nella loro creazione-crescita, cioè ad amare. Francesco riesce così a trasformare tutto, persino il dolore, perché ne accetta il potenziale creativo-accrescitivo: alla sofferenza cerchiamo sempre una causa, un colpevole, per diminuirne il morso. Eppure il segreto (cioè ciò che secerne, il succo) del dolore non è nel passato ma nel futuro, è una storia ancora da scrivere, che «in-vita», spinge ad aprirsi alla vita con occhi nuovi. Francesco chiama «sorella» persino la morte: voglio conoscere il segreto di chi è così libero da bene-dire anche la male-detta per eccellenza, di chi nell’estremo limite non vede il muro ma una soglia, non il capolinea ma un transito. Il Cantico muta la ferita in feritoia per far entrare più vita: quella che sgorga proprio dalle crisi, quando, con le mani aperte della resa, riceviamo ciò che a pugni chiusi non riuscivamo ad afferrare da soli.
Il Cantico inaugura la letteratura italiana inventando e cucendo, nella lingua che ci fa da madre, parole che liberano cuore e mente dalla male-dizione, e rendono la vita più bene-detta. Lo sguardo di Francesco è poetico e profetico, crea e fa crescere: come accade in amore. Egli guarda ogni cosa negli occhi e gli riconosce la sua originaria e originale bellezza, perché lodare significa «ri-conoscere», conoscere qualcosa, ogni volta, «di nuovo» e «come nuovo»: chi loda è «in-novativo» e «ri-conoscente», ha e dà gioia. All’ultimo banco della vita non si guarda negli occhi e si male-dice tutto, al primo si dà invece del tu a ogni cosa, ricevendone il valore più o meno compiuto: anzi se è incompiuto ci si sente impegnati a portarlo verso il compimento, costi quel che costi. Rileggere il Cantico guarisce dalla cecità, facendo del semplice fatto di vivere un’arte e un’irripetibile avventura.
«Corriere della sera» del 14 ottobre 2019
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