Come mostra Vittorio Possenti, la cultura occidentale non riconosce che la stagione dei diritti umani è alla fine, distrutta dai suoi stessi beneficiari
di Carlo Cardia
Il dibattito sul relativismo, che ha finito con il coinvolgere i diritti umani, muove sempre dai grandi principi, ma le ricadute negative sulla persona si sono di recente moltiplicate in modo impressionante. Per due momenti essenziali del cammino percorso si possono citare la posizione di Norberto Bobbio sulla storicità dei diritti, in opposizione alla loro naturalità, e l’approdo del filosofo americano Charles E. Larmore, che decreta la radicale scissione tra etica e diritto. Sono posizioni diverse, non sovrapponibili, perché per Bobbio i diritti nascono nella storia, e «il problema di fondo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli», tuttavia per lui l’ispirazione etica del diritto rimane forte. Con Larmore siamo alla pienezza del relativismo, visto che con serenità cancella ogni base morale delle leggi dal concetto aristotelico di vita buona. Infatti, non c’è gerarchia tra tipi di vita che possono scegliersi: «Lo Stato dovrebbe rimanere neutrale, e non dovrebbe promuovere alcuna concezione particolare della vita buona per via della sua presunta superiorità». Quasi avvertendo l’assurdità proposta, Larmore ammette che esistano scelte più agevoli, «quantomeno, chi desidera fare una vita da ladro, non avrà vita facile». Ma la conclusione produce angoscia: «Se i liberali devono rispettare lo spirito del liberalismo, devono anche escogitare una giustificazione neutrale della neutralità politica», cioè elaborare «principi politici che siano essi stessi neutrali » senza dover tutelare alcun bene. Una legge ridotta a procedura, una vita da condurre come piace a ciascuno. Tra questi poli si compie il cammino che allontana l’uomo da una visione forte dei diritti, provoca la loro dissoluzione attraverso diverse tappe, alcune proposte con levità da intellettuali di varia estrazione.
Conviene richiamarne una che, con la fine della vita buona, prefigura la distruzione della famiglia e il trionfo di un edonismo prossimo al libertinismo d’altre epoche. È quella di Jacques Attali, per il quale la famiglia monogamica «è solo un’utile convenzione sociale». Secondo l’economista francese, andiamo «verso una concezione radicalmente nuova di relazione sentimentale e amorosa. Nulla ci impedisce di innamorarci di più di una persona contemporaneamente. Il fatto di avere più partner e vite multiformi renderà palese l’ipocrisia della società. Ciò non avverrà senza conflitti. Tutte le Chiese cercheranno di impedire una cosa del genere, soprattutto alle donne. Per un po’ resisteranno, ma alla fine trionferà la libertà individuale». Il pensiero di Attali è come il trait-d’union tra l’esaltazione teorica della libertà di fare ciò che si vuole e la sua traduzione pratica, che porterà al deserto dei valori etici e dei diritti umani. Colpisce il fatto, nella sua riflessione, che i figli scompaiano, come scompare la figura femminile, senza che si parli dei loro diritti, dei doveri nei loro confronti, della dimensione affettiva della persona. Venuto meno il carattere teleologico dell’agire umano, la deriva relativistica prosegue e ferisce l’intima natura relazionale dei rapporti tra persone.
Questo cammino teorico e pratico è oggetto del recente libro di Vittorio Possenti (Diritti umani. L’età delle pretese, Rubbettino 2017) di cui Avvenire ha già fornito ampia anticipazione, e che ha, tra i suoi pregi, quello di introdurci dentro l’opera di dissolvimento della stagione dei diritti, iniziata per dare all’umanità un nuovo Decalogo, e che tende invece verso i predominio dei più forti, con l’asservimento dei più deboli. Possenti ripercorre l’itinerario che ha portato filosofia e diritto ad abbandonare i valori fondanti e approdare alla mutazione dei diritti in realtà contingenti, frutto di leggi posi- tive mutevoli, espressione della volontà individuale, chiusi in una gerarchia presieduta dall’io sovrano, l’arbitrio del singolo. Dentro ci sono tante cose che conosciamo ormai per esperienza diretta: i diritti si moltiplicano, i fondamentali non si distinguono più dai secondari, i doveri si dissolvono e si spezza il rapporto con l’umanesimo occidentale, da Aristotele a san Tommaso, da Montesquieu a Maritain, al diritto si sostituisce il desiderio, poi la «pretesa», fino a sfociare nella guerra tra diritti a tutto danno dei soggetti che ancora non sanno e non possono difendersi. Tre movimenti meritano un’attenzione speciale. L’abbandono del concetto di natura umana, confusa con la fisicità, porta alla «rinuncia aprioristica degli impegni ontologici», soprattutto del valore assoluto della persona che, secondo il pensiero di Jeanne Hersch, sente di avere diritto a qualcosa proprio e solo in quanto è persona, mentre per Giuseppe Capograssi «parlare di diritti dell’uomo significa che esistono diritti che appartengono all’essenza dell’uomo e che sono a lui connaturali, e quindi inalienabili».
Un altro passaggio sta nell’azzeramento del concetto di «dignità umana », che pure è a base delle prime Dichiarazioni e Convenzioni internazionali. All’universalità della dignità umana si sostituisce un nuovo paradigma: l’autodeterminazione assoluta dell’uomo che segna, con le parole di Felice Balbo, «l’ora di Barabba» nella storia, «intimamente connessa con la superba deificazione dell’immanenza».
Oggi, l’immanenza deificata ha un altro nome, si chiama «la divina autonomia dell’uomo», tutti i diritti si riducono ad uno solo, «quello dell’autodeterminazione », che non conosce confini, perché la trascendenza è stracciata dai secolarismi, né esistono più doveri verso gli altri, anzi non esistono più gli altri: ognuno vuole realizzarsi appieno, come un «uomo aumentato» che innesta nel paniere dei diritti ogni desiderio, ambizione, pretesa. L’ultimo passaggio segna il movimento dalla teoria alla pratica, investe una serie amplissima di eventi e situazioni, nonché il complesso delle relazioni sociali. Si adattano con disinvoltura svolte storiche decisive all’odierno nichilismo, e si sostiene che il politeismo etico avrebbe oggi lo stesso fondamento del politeismo religioso introdotto dalla Riforma. Di qui, la conseguenza che ne trae Uberto Scarpelli, per il quale «nell’etica non c’è verità», anzi «l’etica è nei suoi principi arbitraria». Si converrà allora con H. Tristram Engelhardt, per il quale «non resta che derivare l’autorità (morale) dagli individui». Le conseguenze sono inevitabili.
Aveva ragione ad es. Danilo Zolo, secondo cui «la tesi del fondamento filosofico e della universalità normativa dei diritti dell’uomo è un postulato dogmatico (…) che manca di conferma sul piano teorico», e il consenso che i diritti umani ottengono nel mondo «non giustifica alcuna pretesa universalistica e alcune intrusività missionaria». Ridotti a merce dell’Occidente, i diritti umani subiscono un’ulteriore relativizzazione interna ai nostri territori, che falcidia i valori più alti costruiti dall’umanesimo, il rispetto degli altri, la solidarietà, la difesa dei più deboli, a cominciare da chi nasce e non può difendersi dal dominio degli adulti e delle loro pretese. Si legittima così l’eterologa, senza mai chiedersi se per il donatore non viga più alcun principio di responsabilità, se il figlio non abbia il diritto di conoscere il genitore naturale, che invece rimane nascosto per il resto dei giorni. Si ammette la filiazione per due persone che abbiano lo stesso sesso, senza chiedersi se il figlio non abbia il diritto naturale di avere un padre e la madre per ragioni morali, fisiche, psicologiche, sociali, conosciute da tutti. Si accetta perfino il ricorso alla maternità surrogata per dare dei figli a chi non può averne, anche se dello stesso sesso, perché se nell’etica non c’è verità si può cancellare il cammino moderno di emancipazione della donna: si può sfruttare il suo corpo, farne commercio secondo convenienza, e strumento per soddisfare desideri altrui, nasconderla al figlio che partorisce e nascondere lei al figlio nato. La guerra dei diritti assume forme impensabili, proprie del multiculturalismo senza cuore, come quando un intellettuale dichiarò che per la difesa dei diritti delle donne (musulmane o d’altra religione) sui nostri territori noi non possiamo intervenire, dobbiamo lasciare che siano esse a organizzarsi per rivendicare le proprie esigenze. S’è provocata così la risposta, tagliente e insuperabile, di Luigi Ferrajoli per il quale «sarebbe un segno di eurocentrismo» negare i diritti umani «a quanti hanno la ventura di appartenere a popoli che non hanno compiuto il nostro percorso storico»; ad esempio, «le donne afghane dovrebbero attendere, per la liberazione, che padri e mariti compiano la loro “rivoluzione francese”».
La riflessione di Possenti s’inserisce, così, in un dibattito che sta investendo la cultura occidentale ed europea, ancora restia a riconoscere che la stagione dei diritti umani può volgere al termine, distrutta dai loro stessi beneficiari, nonostante sia inscritta nelle più belle Carte Internazionali prodotte dall’epoca delle prime rivoluzioni democratiche della modernità.
Conviene richiamarne una che, con la fine della vita buona, prefigura la distruzione della famiglia e il trionfo di un edonismo prossimo al libertinismo d’altre epoche. È quella di Jacques Attali, per il quale la famiglia monogamica «è solo un’utile convenzione sociale». Secondo l’economista francese, andiamo «verso una concezione radicalmente nuova di relazione sentimentale e amorosa. Nulla ci impedisce di innamorarci di più di una persona contemporaneamente. Il fatto di avere più partner e vite multiformi renderà palese l’ipocrisia della società. Ciò non avverrà senza conflitti. Tutte le Chiese cercheranno di impedire una cosa del genere, soprattutto alle donne. Per un po’ resisteranno, ma alla fine trionferà la libertà individuale». Il pensiero di Attali è come il trait-d’union tra l’esaltazione teorica della libertà di fare ciò che si vuole e la sua traduzione pratica, che porterà al deserto dei valori etici e dei diritti umani. Colpisce il fatto, nella sua riflessione, che i figli scompaiano, come scompare la figura femminile, senza che si parli dei loro diritti, dei doveri nei loro confronti, della dimensione affettiva della persona. Venuto meno il carattere teleologico dell’agire umano, la deriva relativistica prosegue e ferisce l’intima natura relazionale dei rapporti tra persone.
Questo cammino teorico e pratico è oggetto del recente libro di Vittorio Possenti (Diritti umani. L’età delle pretese, Rubbettino 2017) di cui Avvenire ha già fornito ampia anticipazione, e che ha, tra i suoi pregi, quello di introdurci dentro l’opera di dissolvimento della stagione dei diritti, iniziata per dare all’umanità un nuovo Decalogo, e che tende invece verso i predominio dei più forti, con l’asservimento dei più deboli. Possenti ripercorre l’itinerario che ha portato filosofia e diritto ad abbandonare i valori fondanti e approdare alla mutazione dei diritti in realtà contingenti, frutto di leggi posi- tive mutevoli, espressione della volontà individuale, chiusi in una gerarchia presieduta dall’io sovrano, l’arbitrio del singolo. Dentro ci sono tante cose che conosciamo ormai per esperienza diretta: i diritti si moltiplicano, i fondamentali non si distinguono più dai secondari, i doveri si dissolvono e si spezza il rapporto con l’umanesimo occidentale, da Aristotele a san Tommaso, da Montesquieu a Maritain, al diritto si sostituisce il desiderio, poi la «pretesa», fino a sfociare nella guerra tra diritti a tutto danno dei soggetti che ancora non sanno e non possono difendersi. Tre movimenti meritano un’attenzione speciale. L’abbandono del concetto di natura umana, confusa con la fisicità, porta alla «rinuncia aprioristica degli impegni ontologici», soprattutto del valore assoluto della persona che, secondo il pensiero di Jeanne Hersch, sente di avere diritto a qualcosa proprio e solo in quanto è persona, mentre per Giuseppe Capograssi «parlare di diritti dell’uomo significa che esistono diritti che appartengono all’essenza dell’uomo e che sono a lui connaturali, e quindi inalienabili».
Un altro passaggio sta nell’azzeramento del concetto di «dignità umana », che pure è a base delle prime Dichiarazioni e Convenzioni internazionali. All’universalità della dignità umana si sostituisce un nuovo paradigma: l’autodeterminazione assoluta dell’uomo che segna, con le parole di Felice Balbo, «l’ora di Barabba» nella storia, «intimamente connessa con la superba deificazione dell’immanenza».
Oggi, l’immanenza deificata ha un altro nome, si chiama «la divina autonomia dell’uomo», tutti i diritti si riducono ad uno solo, «quello dell’autodeterminazione », che non conosce confini, perché la trascendenza è stracciata dai secolarismi, né esistono più doveri verso gli altri, anzi non esistono più gli altri: ognuno vuole realizzarsi appieno, come un «uomo aumentato» che innesta nel paniere dei diritti ogni desiderio, ambizione, pretesa. L’ultimo passaggio segna il movimento dalla teoria alla pratica, investe una serie amplissima di eventi e situazioni, nonché il complesso delle relazioni sociali. Si adattano con disinvoltura svolte storiche decisive all’odierno nichilismo, e si sostiene che il politeismo etico avrebbe oggi lo stesso fondamento del politeismo religioso introdotto dalla Riforma. Di qui, la conseguenza che ne trae Uberto Scarpelli, per il quale «nell’etica non c’è verità», anzi «l’etica è nei suoi principi arbitraria». Si converrà allora con H. Tristram Engelhardt, per il quale «non resta che derivare l’autorità (morale) dagli individui». Le conseguenze sono inevitabili.
Aveva ragione ad es. Danilo Zolo, secondo cui «la tesi del fondamento filosofico e della universalità normativa dei diritti dell’uomo è un postulato dogmatico (…) che manca di conferma sul piano teorico», e il consenso che i diritti umani ottengono nel mondo «non giustifica alcuna pretesa universalistica e alcune intrusività missionaria». Ridotti a merce dell’Occidente, i diritti umani subiscono un’ulteriore relativizzazione interna ai nostri territori, che falcidia i valori più alti costruiti dall’umanesimo, il rispetto degli altri, la solidarietà, la difesa dei più deboli, a cominciare da chi nasce e non può difendersi dal dominio degli adulti e delle loro pretese. Si legittima così l’eterologa, senza mai chiedersi se per il donatore non viga più alcun principio di responsabilità, se il figlio non abbia il diritto di conoscere il genitore naturale, che invece rimane nascosto per il resto dei giorni. Si ammette la filiazione per due persone che abbiano lo stesso sesso, senza chiedersi se il figlio non abbia il diritto naturale di avere un padre e la madre per ragioni morali, fisiche, psicologiche, sociali, conosciute da tutti. Si accetta perfino il ricorso alla maternità surrogata per dare dei figli a chi non può averne, anche se dello stesso sesso, perché se nell’etica non c’è verità si può cancellare il cammino moderno di emancipazione della donna: si può sfruttare il suo corpo, farne commercio secondo convenienza, e strumento per soddisfare desideri altrui, nasconderla al figlio che partorisce e nascondere lei al figlio nato. La guerra dei diritti assume forme impensabili, proprie del multiculturalismo senza cuore, come quando un intellettuale dichiarò che per la difesa dei diritti delle donne (musulmane o d’altra religione) sui nostri territori noi non possiamo intervenire, dobbiamo lasciare che siano esse a organizzarsi per rivendicare le proprie esigenze. S’è provocata così la risposta, tagliente e insuperabile, di Luigi Ferrajoli per il quale «sarebbe un segno di eurocentrismo» negare i diritti umani «a quanti hanno la ventura di appartenere a popoli che non hanno compiuto il nostro percorso storico»; ad esempio, «le donne afghane dovrebbero attendere, per la liberazione, che padri e mariti compiano la loro “rivoluzione francese”».
La riflessione di Possenti s’inserisce, così, in un dibattito che sta investendo la cultura occidentale ed europea, ancora restia a riconoscere che la stagione dei diritti umani può volgere al termine, distrutta dai loro stessi beneficiari, nonostante sia inscritta nelle più belle Carte Internazionali prodotte dall’epoca delle prime rivoluzioni democratiche della modernità.
«Avvenire» del 18 luglio 2017
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