Rinascita di una nazione
di Claudio Magris
I tedeschi hanno costruito uno dei Paesi europei più saldi e vivibili e non si profilano forze estremiste che possano minacciare l’equilibrio del Continente
Non è sempre facile, alla fine di una guerra, dire, passato il primo momento, chi l’ha vinta. La Germania è stata disastrosamente sconfitta in due guerre mondiali. La prima l’ha ridotta — anche a causa delle inique, vendicative e idiote condizioni del trattato di pace di Versailles, duramente criticate dal grande lord Keynes — a una devastante miseria e a disordini che hanno contribuito all’ascesa del nazismo. Ma non molti anni dopo la Germania nata dalle rovine era una potenza più grande degli Stati che nel 1918 l’avevano vinta e che poco più tardi avrebbero avuto difficoltà, tutti insieme, a fronteggiare il suo micidiale attacco sferrato su tutti i fronti.
Lanciata alla conquista del mondo e all’esecuzione del progetto criminoso più efferato della Storia, lo sterminio del popolo ebraico, la Germania alla fine della Seconda Guerra Mondiale era rasa al suolo, aveva perduto vasti territori a Est ed era divisa in due Stati contrapposti, uno dei quali sotto la tirannica tutela sovietica. In pochi anni e soprattutto a partire dal cosiddetto miracolo economico, la Repubblica Federale era un Paese florido e sostanzialmente tranquillo; l’Inghilterra — che aveva contribuito a salvare il mondo dal nazismo resistendo per un certo periodo da sola, con indomita forza d’animo, al Terzo Reich che appariva vittorioso su ogni fronte — alla fine della guerra si era trovata ad aver perduto l’Impero britannico ossia il suo ruolo mondiale e a vivere un periodo di dure ristrettezze economiche, affrontate peraltro con grande sapienza dal Welfare ma difficili.
La Terza Guerra Mondiale — la cosiddetta guerra fredda, ma calda e rovente per i 45 milioni di morti fra il 1945 e il 1989 nei vari teatri extraeuropei dello scontro, mediato ma sanguinoso — si è conclusa non solo con la sconfitta, ma con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e dell’universo politico sovietico. Ma a vincerla è stata in fondo la Russia, che in pochi anni è divenuta la potenza mondiale più determinata e a poco a poco determinante nel complesso gioco internazionale di forze, mentre gli Stati Uniti, che dal collasso sovietico sembrava dovessero uscire come il Paese destinato a dominare il mondo per chissà quanto tempo, sono indubbiamente una formidabile potenza, ma spesso incerta e malaccorta nei propri passi. In Cina il comunismo — con l’eroica Lunga Marcia e con la guerra che ha dissolto il regime di Chiang Kai-shek come un castello di burro — ha vinto ma ha creato un sistema di capitalismo selvaggio e sfruttatore, in cui il comunismo, eroico vincitore nelle guerre e disastroso perdente nelle paci, è il duro potere che controlla il funzionamento di un mercato spietato.
La Germania, la sconfitta per antonomasia nell’ultimo classico conflitto mondiale, è oggi uno dei Paesi più saldi e vivibili dell’Europa. La stagione del terrorismo rosso è ormai lontana e scomparsa; vi sono sacche di povertà, abilmente occultate ma limitate; non si profilano forze estremiste che possano minacciare l’equilibrio del Paese e dell’Europa. A differenza di molte altre scadenze elettorali europee – come quelle recenti in Austria, Olanda, Francia, che hanno rischiato di far traballare o peggio l’Ue – in Germania l’eventuale alternanza al governo, la continuazione della coalizione e la vittoria dell’uno o dell’altro partito hanno i loro pregi e difetti, ma nessun carattere che metta in pericolo l’ordine e l’equilibrio del Paese e del continente.
Le elezioni, in Germania, non pongono davanti alle alternative drammatiche che talora si presentano in altri Paesi. La scelta fra Angela Merkel e Martin Schulz non è sconcertante come quella fra Donald Trump e Hillary Clinton, in cui era comprensibilmente difficile, anche e forse soprattutto per un autentico democratico, decidersi tra l’aggressivo, rozzo e regressivo populismo di una parte e l’ipocrita, pseudoliberal superficialità dell’altra, assai poco attenta ai reali e pericolosi disagi di alcuni settori del paese, disagi responsabili della stessa crescita del populismo.
Nella sostanziale stabilità tedesca gioca forse un ruolo la particolare tradizione del capitalismo tedesco, quel «capitalismo renano» legato alla produzione più che alla speculazione finanziaria, alla continuità della produzione e delle imprese, al dialogo fra impresa e sindacato. Qualità che tendono a rendere meno selvaggio e feroce l’anarchico dominio del mercato. Qualità ovunque sempre più desuete e che vacillano pure in Germania, anche se lo si maschera furbescamente con abili maquillages — ad esempio i dati sulla disoccupazione, talora sostanzialmente falsati dai casi di lavoro sottopagato, che andrebbe considerato nella voce «disoccupazione», o come il gioco a proprio favore con l’euro.
E’ stato giustamente osservato che la Germania, con la sua solidità, potrebbe dimostrarsi più sensibile ai problemi e alle necessità comuni dell’Unione Europea — anche se dovunque l’egoismo dei singoli Stati rilutta a una solidarietà veramente europea, a risolversi in patriottismo europeo. Può anche darsi che l’ombra del passato nazista induca la Germania a non mostrarsi troppo interventista e autorevole. Ma deve pur venire, e anzi dovrebbe essere già venuto il momento in cui, se necessario, possano essere utilizzate, insieme alle altre, pure forze militari tedesche. Comunque nel complesso il Paese «cattivo» per eccellenza appare più umano di molti altri.
Se è difficile stabilire chi ha vinto e chi ha perso le guerre passate, è ancor più difficile capire — nell’attuale vera e propria quarta guerra mondiale che divampa in tutto il globo - chi combatte contro chi,sia l’alleato e chi il nemico, con tanti alleati amici dei nemici dei loro alleati. Forse mai come oggi emerge la verità di quel pensiero che Joseph Roth, nella Marcia di Radetzky, attribuisce a Francesco Giuseppe, il quale - egli scrive — non amava le guerre, «perché sapeva che si perdono».
Lanciata alla conquista del mondo e all’esecuzione del progetto criminoso più efferato della Storia, lo sterminio del popolo ebraico, la Germania alla fine della Seconda Guerra Mondiale era rasa al suolo, aveva perduto vasti territori a Est ed era divisa in due Stati contrapposti, uno dei quali sotto la tirannica tutela sovietica. In pochi anni e soprattutto a partire dal cosiddetto miracolo economico, la Repubblica Federale era un Paese florido e sostanzialmente tranquillo; l’Inghilterra — che aveva contribuito a salvare il mondo dal nazismo resistendo per un certo periodo da sola, con indomita forza d’animo, al Terzo Reich che appariva vittorioso su ogni fronte — alla fine della guerra si era trovata ad aver perduto l’Impero britannico ossia il suo ruolo mondiale e a vivere un periodo di dure ristrettezze economiche, affrontate peraltro con grande sapienza dal Welfare ma difficili.
La Terza Guerra Mondiale — la cosiddetta guerra fredda, ma calda e rovente per i 45 milioni di morti fra il 1945 e il 1989 nei vari teatri extraeuropei dello scontro, mediato ma sanguinoso — si è conclusa non solo con la sconfitta, ma con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e dell’universo politico sovietico. Ma a vincerla è stata in fondo la Russia, che in pochi anni è divenuta la potenza mondiale più determinata e a poco a poco determinante nel complesso gioco internazionale di forze, mentre gli Stati Uniti, che dal collasso sovietico sembrava dovessero uscire come il Paese destinato a dominare il mondo per chissà quanto tempo, sono indubbiamente una formidabile potenza, ma spesso incerta e malaccorta nei propri passi. In Cina il comunismo — con l’eroica Lunga Marcia e con la guerra che ha dissolto il regime di Chiang Kai-shek come un castello di burro — ha vinto ma ha creato un sistema di capitalismo selvaggio e sfruttatore, in cui il comunismo, eroico vincitore nelle guerre e disastroso perdente nelle paci, è il duro potere che controlla il funzionamento di un mercato spietato.
La Germania, la sconfitta per antonomasia nell’ultimo classico conflitto mondiale, è oggi uno dei Paesi più saldi e vivibili dell’Europa. La stagione del terrorismo rosso è ormai lontana e scomparsa; vi sono sacche di povertà, abilmente occultate ma limitate; non si profilano forze estremiste che possano minacciare l’equilibrio del Paese e dell’Europa. A differenza di molte altre scadenze elettorali europee – come quelle recenti in Austria, Olanda, Francia, che hanno rischiato di far traballare o peggio l’Ue – in Germania l’eventuale alternanza al governo, la continuazione della coalizione e la vittoria dell’uno o dell’altro partito hanno i loro pregi e difetti, ma nessun carattere che metta in pericolo l’ordine e l’equilibrio del Paese e del continente.
Le elezioni, in Germania, non pongono davanti alle alternative drammatiche che talora si presentano in altri Paesi. La scelta fra Angela Merkel e Martin Schulz non è sconcertante come quella fra Donald Trump e Hillary Clinton, in cui era comprensibilmente difficile, anche e forse soprattutto per un autentico democratico, decidersi tra l’aggressivo, rozzo e regressivo populismo di una parte e l’ipocrita, pseudoliberal superficialità dell’altra, assai poco attenta ai reali e pericolosi disagi di alcuni settori del paese, disagi responsabili della stessa crescita del populismo.
Nella sostanziale stabilità tedesca gioca forse un ruolo la particolare tradizione del capitalismo tedesco, quel «capitalismo renano» legato alla produzione più che alla speculazione finanziaria, alla continuità della produzione e delle imprese, al dialogo fra impresa e sindacato. Qualità che tendono a rendere meno selvaggio e feroce l’anarchico dominio del mercato. Qualità ovunque sempre più desuete e che vacillano pure in Germania, anche se lo si maschera furbescamente con abili maquillages — ad esempio i dati sulla disoccupazione, talora sostanzialmente falsati dai casi di lavoro sottopagato, che andrebbe considerato nella voce «disoccupazione», o come il gioco a proprio favore con l’euro.
E’ stato giustamente osservato che la Germania, con la sua solidità, potrebbe dimostrarsi più sensibile ai problemi e alle necessità comuni dell’Unione Europea — anche se dovunque l’egoismo dei singoli Stati rilutta a una solidarietà veramente europea, a risolversi in patriottismo europeo. Può anche darsi che l’ombra del passato nazista induca la Germania a non mostrarsi troppo interventista e autorevole. Ma deve pur venire, e anzi dovrebbe essere già venuto il momento in cui, se necessario, possano essere utilizzate, insieme alle altre, pure forze militari tedesche. Comunque nel complesso il Paese «cattivo» per eccellenza appare più umano di molti altri.
Se è difficile stabilire chi ha vinto e chi ha perso le guerre passate, è ancor più difficile capire — nell’attuale vera e propria quarta guerra mondiale che divampa in tutto il globo - chi combatte contro chi,sia l’alleato e chi il nemico, con tanti alleati amici dei nemici dei loro alleati. Forse mai come oggi emerge la verità di quel pensiero che Joseph Roth, nella Marcia di Radetzky, attribuisce a Francesco Giuseppe, il quale - egli scrive — non amava le guerre, «perché sapeva che si perdono».
«Corriere della sera» del 13 giugno 2017
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