di Paola Mastrocola
Leggo che il mondo intero sta cercando di imitare il metodo di Singapore di insegnare la matematica; in particolare nel Regno Unito metà delle scuole elementari lo adotterà e, grazie a un ricco finanziamento, nei prossimi quattro anni si addestreranno gli insegnanti a usarlo.
Stupisco, innanzi tutto, di questo particolare, in effetti un po’ a latere: che si addestrino gli insegnanti. Cioè che negli ultimi anni si sia convintissimi che gli insegnanti debbano essere formati e riformati, secondo modelli, schemi e teorie che di volta in volta paiono innovativi e irresistibilmente da imitare. Può darsi che sia giusto, ed encomiabile. Sicuramente, in ogni ambito lavorativo, è bene rinnovarsi. Io per parte mia resto convinta che ci sia un fondo immutabile, un basamento granitico, nell’arte dell’insegnare, che travalica i tempi e mai per nessuna ragione dovrebbe essere intaccato. C’è qualcosa che resiste ed è bene che resista in noi, quel quid di non-nuovo che fa sì che la nostra civiltà millenaria non si estingua, per dire. Gli scogli resistono ai venti, semmai si levigano e si smussano un po’: ma non per l’azione volontaristica e testarda di qualcuno di noi, bensì per il lentissimo e naturalissimo (inesorabile) scorrere del tempo.
A parte ciò, molto mi rallegro che si sia trovato un metodo risolutivo e credo meraviglioso, visto che gli studenti di Singapore risultano i primi al mondo nelle classifiche Ocse. Dunque, qual è il mistero? Per scoprirlo, leggo con avidità l’articolo, apparso a fine luglio su un quotidiano nazionale, e di nuovo, più che mai, stupisco: non trovo esplicitato nessun metodo, nessuna teoria strabiliante. Nulla di didattico, voglio dire. Trovo invece parole chiave tipo: disciplina, addestramento, grandi aspettative dei genitori, ambizione, orgoglio e desiderio di eccellere negli studenti. Leggo anche che chi sbaglia in classe viene deriso dai compagni, e penso: qui da noi invece viene applaudito, e subito inglobato nei gruppi in quanto simpatico e “figo”. Chi invece dice giusto, dimostra di aver studiato molto e magari anche di avere qualche capacità aggiuntiva, a Singapore viene applaudito. E penso: qui da noi invece è dileggiato, escluso da ogni congrega coetanea, evitato come la peste. Forse viene anche messo su facebook perché si sprigioni un’energia derisoria il più possibile cosmica. Infine, leggo che, sempre a Singapore, si parla anche di punizioni corporali. Oibò.
Dunque, il metodo, direi, è squisitamente educativo, non certo didattico in senso tecnico? Che si tratti, in definitiva e con parole grezze, semplicemente di studiare secco, con rigore, la matematica (e magari anche le altre materie)? Davvero l’idea rivoluzionaria e innovativa, almeno nel Regno Unito, sarebbe quella di importare la disciplina?
E chissà se anche noi in Italia, per amore delle classifiche, troveremo mai la forza e l’ardire di spingerci a tanto?
Una mia nuova amica, giorni fa, parlando del più e del meno, fa scivolare tra le tante la seguente frase: Io non do consigli, io giudico.
Resto lì. Sulle prime non capisco, ma colgo che c’è un’antitesi, un aut aut, che potrebbe rivelarsi interessante. Come se fossimo divisi in due: o diamo consigli, o giudichiamo.
Ricordo anni fa che amici carissimi affermavano con grande decisione e perentorietà che non dovevamo giudicare mai, né le persone né i loro comportamenti o atti o discorsi. Pensavo, allora, che si trattasse di una particolare area di esseri umani ancora irretiti nell’onda post-sessantottina (erano solo gli anni ’90…). Ora penserei che si tratta di un tratto distintivo delle civiltà occidentali, irretite in un mix ben più ampio in cui di sicuro predomina l’aspetto religioso, direi neocattolico. Mi viene in mente papa Francesco che a un certo punto disse la ormai famosa frase: Chi sono io per giudicare?
Ecco perché quel che dice la mia nuova amica mi colpisce, e così favorevolmente. Le chiedo di spiegarsi meglio. E lei mi dice che chi dà consigli agli altri giudica più che mai, semplicemente non lo dà a vedere: maschera il giudizio sotto forma di consiglio. Geniale! I consigli sarebbero dunque giudizi mascherati, espressione di una viltà subdola e strisciante di chi non ha il coraggio di esprimere giudizi, perché la morale dominante vuole che non si faccia, però si permette di dire la sua sotto la forma serpentina strisciante del distribuir paternamente consigli. Io farei così e cosà, io fossi in te, se tu volessi darmi retta, accettare il mio modesto parere, ecc. ecc….
Io invece do giudizi, dice l’amica. Mi accollo l’onere, mi prendo il peso, mi arrogo il diritto di esprimere giudizi su quel che vedo intorno a me. E mai darei consigli: ognuno faccia quel che crede, ma sappia come io lo giudico; può farsene due baffi, o tenerne conto.
Ho la sensazione che il mondo migliorerebbe, se tutti facessimo così, se ci riprendessimo il sacrosanto diritto di dire come la pensiamo, visto che, bene o male, qualcosa pensiamo: dunque perché nascondere il nostro pensiero? Perché questa viltà di tacere o, peggio, fingere di non pensare? Tutti quanti e sempre, in ogni momento del nostro vivere quotidiano, diamo normalmente giudizi sulle cose e sulle persone, nel bene e nel male. Quel che siamo invitati a fare, oggi più che mai, è di non esprimerli. Viviamo immersi in questa coazione a reprimerci e nasconderci, a cui, credo, sarebbe bene ribellarci: il mondo ha bisogno del personale giudizio di ogni singolo, con cui ognuno ha il diritto e il dovere di fare i conti.
Ma, naturalmente, è solo un mio personale giudizio.
Conosco persone che sanno svolgere mirabilmente una certa attività artistica, come dipingere, scrivere, recitare. A tutti capita di incontrare o frequentare gente così. Sono amici, conoscenti, vicini di casa, o anche estranei con cui veniamo casualmente a contatto nella vita di ogni giorno. Vediamo o leggiamo le loro produzioni, e possono essere quadri molto originali, racconti da far invidia a Henry James o a Carver, performances degne dei più grandi attori.
Ma gli autori di queste opere non sono nessuno. Non sono riconosciuti, noti per quel che fanno. Agiscono nell’ombra, in un anonimato impenetrabile. Il mondo non li conosce, se non una ristretta cerchia di persone che sono perlopiù amici e parenti. In una parola, artisti sconosciuti. Che perlopiù si autodefiniscono dilettanti.
Ho riflettuto sulla parola dilettante. In genere è dispregiativa, la appioppiamo a persone che pensiamo non sappiano fare il loro mestiere, o con non sufficiente tecnica, mestiere, professionalità. Volonterosi incapaci, incompetenti spesso arroganti. E certamente è così, nella maggior parte dei casi. Il dilettantismo è una piaga che infesta il mondo di velleitarismo e pressapochismo, lo popola di gente che s’improvvisa falegname, massaggiatore, poeta, estetista, imbianchino… Dilettanti allo sbaraglio, non solo in tivù.
Ma trascuriamo qualcosa d’importante, secondo me, in questa accezione negativa che facciamo prevalere. In «dilettantismo» c’è la parola diletto: piacere. Così come nell’aggettivo amatoriale con cui definiamo, per esempio, il teatro di chi lo fa per diletto, c’è la parola amore. Dunque dilettante è per prima cosa colui che fa una cosa per puro diletto. Per amore di quel che fa e basta, senza fini: di lucro, di prestigio o altro.
Cosa potremmo desiderare di meglio? E cosa di più vicino al senso sublime dell’arte? Il piacere in sé, che si prova nel momento in cui ci dedichiamo a un’attività che ci soddisfa e riempie totalmente di senso il nostro esistere, sia dipingere o scrivere o armeggiare con martello e chiodi per costruire uno sgabello. In quel momento, che è veramente solo un momento, uno spillo puntiforme di tempo, non importa più niente, ogni criterio di utilità e di vantaggio personale salta.
Dilettantismo, nella sua accezione più alta, è questo esistere avulsi dal resto, paghi di sé, liberi. È creare qualcosa senza farne un mestiere, senza curarsi dei modi, della tecnica, del complicato sistema di valori. È fermarsi prima del mestiere, in una zona ingenua e superficiale (di pura, intatta superficie), dove regna sovrano il caso, l’intuito, l’arbitrio fanciullesco senza freni. Certo, è non essere capaci fino in fondo, non aver studiato abbastanza, o non avere un talento sufficiente. Ma prima di tutto è fare qualcosa per puro diletto, senza patire le catene di un fine.
E qui si apre, semmai, un altro problema, che riguarda l’essere conosciuti o meno. Non parlo di quel valore indiscutibile di un’opera, che comunque prima o poi, magari postumo, è inevitabile che emerga e s’imponga nel mondo. (Il genio è sempre riconoscibile? Forse sì. Pensiamo a tutti i grandi artisti che sono morti senza il barlume di un riconoscimento, e che oggi però universalmente riconosciamo e osanniamo). Parlo di tutti coloro che mai, passassero anche mille secoli, arriveranno a una seppur tardiva notorietà. Le loro opere, anche splendide, moriranno con loro, non saranno conosciute da nessuno, affonderanno nel buio da cui sono venute e dove hanno sempre albergato. Per sempre dilettanti. O geni misconosciuti, che per qualche misterioso movimento dei congegni della sorte, così, casualmente, non sono mai emersi. O sono emersi e sono stati subito dimenticati.
Mi dispiace. Penso alla messe di capolavori che ci perdiamo, e a quel profluvio di prodotti che oggi c’invadono e chiamiamo capolavori e invece, spesso, non sono altro che relitti che hanno avuto la fortuna di affiorare. Ma mi dispiaccio ancor di più per il talento non riconosciuto, per i tesori inabissati, per le porte che, chissà perché, non si sono aperte.
Spero che il diletto e l’amore riempiano comunque, o abbiano riempito, la vita di questi autori nascosti, sommersi. E che magari un giorno un’esplosione, o un sovvertimento di un qualche tipo, faccia come per incanto venire a galla proprio le loro opere. E siano a quel punto i capolavori riconosciuti, i soli destinati a sopravvivere in eterno.
Stupisco, innanzi tutto, di questo particolare, in effetti un po’ a latere: che si addestrino gli insegnanti. Cioè che negli ultimi anni si sia convintissimi che gli insegnanti debbano essere formati e riformati, secondo modelli, schemi e teorie che di volta in volta paiono innovativi e irresistibilmente da imitare. Può darsi che sia giusto, ed encomiabile. Sicuramente, in ogni ambito lavorativo, è bene rinnovarsi. Io per parte mia resto convinta che ci sia un fondo immutabile, un basamento granitico, nell’arte dell’insegnare, che travalica i tempi e mai per nessuna ragione dovrebbe essere intaccato. C’è qualcosa che resiste ed è bene che resista in noi, quel quid di non-nuovo che fa sì che la nostra civiltà millenaria non si estingua, per dire. Gli scogli resistono ai venti, semmai si levigano e si smussano un po’: ma non per l’azione volontaristica e testarda di qualcuno di noi, bensì per il lentissimo e naturalissimo (inesorabile) scorrere del tempo.
A parte ciò, molto mi rallegro che si sia trovato un metodo risolutivo e credo meraviglioso, visto che gli studenti di Singapore risultano i primi al mondo nelle classifiche Ocse. Dunque, qual è il mistero? Per scoprirlo, leggo con avidità l’articolo, apparso a fine luglio su un quotidiano nazionale, e di nuovo, più che mai, stupisco: non trovo esplicitato nessun metodo, nessuna teoria strabiliante. Nulla di didattico, voglio dire. Trovo invece parole chiave tipo: disciplina, addestramento, grandi aspettative dei genitori, ambizione, orgoglio e desiderio di eccellere negli studenti. Leggo anche che chi sbaglia in classe viene deriso dai compagni, e penso: qui da noi invece viene applaudito, e subito inglobato nei gruppi in quanto simpatico e “figo”. Chi invece dice giusto, dimostra di aver studiato molto e magari anche di avere qualche capacità aggiuntiva, a Singapore viene applaudito. E penso: qui da noi invece è dileggiato, escluso da ogni congrega coetanea, evitato come la peste. Forse viene anche messo su facebook perché si sprigioni un’energia derisoria il più possibile cosmica. Infine, leggo che, sempre a Singapore, si parla anche di punizioni corporali. Oibò.
Dunque, il metodo, direi, è squisitamente educativo, non certo didattico in senso tecnico? Che si tratti, in definitiva e con parole grezze, semplicemente di studiare secco, con rigore, la matematica (e magari anche le altre materie)? Davvero l’idea rivoluzionaria e innovativa, almeno nel Regno Unito, sarebbe quella di importare la disciplina?
E chissà se anche noi in Italia, per amore delle classifiche, troveremo mai la forza e l’ardire di spingerci a tanto?
Una mia nuova amica, giorni fa, parlando del più e del meno, fa scivolare tra le tante la seguente frase: Io non do consigli, io giudico.
Resto lì. Sulle prime non capisco, ma colgo che c’è un’antitesi, un aut aut, che potrebbe rivelarsi interessante. Come se fossimo divisi in due: o diamo consigli, o giudichiamo.
Ricordo anni fa che amici carissimi affermavano con grande decisione e perentorietà che non dovevamo giudicare mai, né le persone né i loro comportamenti o atti o discorsi. Pensavo, allora, che si trattasse di una particolare area di esseri umani ancora irretiti nell’onda post-sessantottina (erano solo gli anni ’90…). Ora penserei che si tratta di un tratto distintivo delle civiltà occidentali, irretite in un mix ben più ampio in cui di sicuro predomina l’aspetto religioso, direi neocattolico. Mi viene in mente papa Francesco che a un certo punto disse la ormai famosa frase: Chi sono io per giudicare?
Ecco perché quel che dice la mia nuova amica mi colpisce, e così favorevolmente. Le chiedo di spiegarsi meglio. E lei mi dice che chi dà consigli agli altri giudica più che mai, semplicemente non lo dà a vedere: maschera il giudizio sotto forma di consiglio. Geniale! I consigli sarebbero dunque giudizi mascherati, espressione di una viltà subdola e strisciante di chi non ha il coraggio di esprimere giudizi, perché la morale dominante vuole che non si faccia, però si permette di dire la sua sotto la forma serpentina strisciante del distribuir paternamente consigli. Io farei così e cosà, io fossi in te, se tu volessi darmi retta, accettare il mio modesto parere, ecc. ecc….
Io invece do giudizi, dice l’amica. Mi accollo l’onere, mi prendo il peso, mi arrogo il diritto di esprimere giudizi su quel che vedo intorno a me. E mai darei consigli: ognuno faccia quel che crede, ma sappia come io lo giudico; può farsene due baffi, o tenerne conto.
Ho la sensazione che il mondo migliorerebbe, se tutti facessimo così, se ci riprendessimo il sacrosanto diritto di dire come la pensiamo, visto che, bene o male, qualcosa pensiamo: dunque perché nascondere il nostro pensiero? Perché questa viltà di tacere o, peggio, fingere di non pensare? Tutti quanti e sempre, in ogni momento del nostro vivere quotidiano, diamo normalmente giudizi sulle cose e sulle persone, nel bene e nel male. Quel che siamo invitati a fare, oggi più che mai, è di non esprimerli. Viviamo immersi in questa coazione a reprimerci e nasconderci, a cui, credo, sarebbe bene ribellarci: il mondo ha bisogno del personale giudizio di ogni singolo, con cui ognuno ha il diritto e il dovere di fare i conti.
Ma, naturalmente, è solo un mio personale giudizio.
Conosco persone che sanno svolgere mirabilmente una certa attività artistica, come dipingere, scrivere, recitare. A tutti capita di incontrare o frequentare gente così. Sono amici, conoscenti, vicini di casa, o anche estranei con cui veniamo casualmente a contatto nella vita di ogni giorno. Vediamo o leggiamo le loro produzioni, e possono essere quadri molto originali, racconti da far invidia a Henry James o a Carver, performances degne dei più grandi attori.
Ma gli autori di queste opere non sono nessuno. Non sono riconosciuti, noti per quel che fanno. Agiscono nell’ombra, in un anonimato impenetrabile. Il mondo non li conosce, se non una ristretta cerchia di persone che sono perlopiù amici e parenti. In una parola, artisti sconosciuti. Che perlopiù si autodefiniscono dilettanti.
Ho riflettuto sulla parola dilettante. In genere è dispregiativa, la appioppiamo a persone che pensiamo non sappiano fare il loro mestiere, o con non sufficiente tecnica, mestiere, professionalità. Volonterosi incapaci, incompetenti spesso arroganti. E certamente è così, nella maggior parte dei casi. Il dilettantismo è una piaga che infesta il mondo di velleitarismo e pressapochismo, lo popola di gente che s’improvvisa falegname, massaggiatore, poeta, estetista, imbianchino… Dilettanti allo sbaraglio, non solo in tivù.
Ma trascuriamo qualcosa d’importante, secondo me, in questa accezione negativa che facciamo prevalere. In «dilettantismo» c’è la parola diletto: piacere. Così come nell’aggettivo amatoriale con cui definiamo, per esempio, il teatro di chi lo fa per diletto, c’è la parola amore. Dunque dilettante è per prima cosa colui che fa una cosa per puro diletto. Per amore di quel che fa e basta, senza fini: di lucro, di prestigio o altro.
Cosa potremmo desiderare di meglio? E cosa di più vicino al senso sublime dell’arte? Il piacere in sé, che si prova nel momento in cui ci dedichiamo a un’attività che ci soddisfa e riempie totalmente di senso il nostro esistere, sia dipingere o scrivere o armeggiare con martello e chiodi per costruire uno sgabello. In quel momento, che è veramente solo un momento, uno spillo puntiforme di tempo, non importa più niente, ogni criterio di utilità e di vantaggio personale salta.
Dilettantismo, nella sua accezione più alta, è questo esistere avulsi dal resto, paghi di sé, liberi. È creare qualcosa senza farne un mestiere, senza curarsi dei modi, della tecnica, del complicato sistema di valori. È fermarsi prima del mestiere, in una zona ingenua e superficiale (di pura, intatta superficie), dove regna sovrano il caso, l’intuito, l’arbitrio fanciullesco senza freni. Certo, è non essere capaci fino in fondo, non aver studiato abbastanza, o non avere un talento sufficiente. Ma prima di tutto è fare qualcosa per puro diletto, senza patire le catene di un fine.
E qui si apre, semmai, un altro problema, che riguarda l’essere conosciuti o meno. Non parlo di quel valore indiscutibile di un’opera, che comunque prima o poi, magari postumo, è inevitabile che emerga e s’imponga nel mondo. (Il genio è sempre riconoscibile? Forse sì. Pensiamo a tutti i grandi artisti che sono morti senza il barlume di un riconoscimento, e che oggi però universalmente riconosciamo e osanniamo). Parlo di tutti coloro che mai, passassero anche mille secoli, arriveranno a una seppur tardiva notorietà. Le loro opere, anche splendide, moriranno con loro, non saranno conosciute da nessuno, affonderanno nel buio da cui sono venute e dove hanno sempre albergato. Per sempre dilettanti. O geni misconosciuti, che per qualche misterioso movimento dei congegni della sorte, così, casualmente, non sono mai emersi. O sono emersi e sono stati subito dimenticati.
Mi dispiace. Penso alla messe di capolavori che ci perdiamo, e a quel profluvio di prodotti che oggi c’invadono e chiamiamo capolavori e invece, spesso, non sono altro che relitti che hanno avuto la fortuna di affiorare. Ma mi dispiaccio ancor di più per il talento non riconosciuto, per i tesori inabissati, per le porte che, chissà perché, non si sono aperte.
Spero che il diletto e l’amore riempiano comunque, o abbiano riempito, la vita di questi autori nascosti, sommersi. E che magari un giorno un’esplosione, o un sovvertimento di un qualche tipo, faccia come per incanto venire a galla proprio le loro opere. E siano a quel punto i capolavori riconosciuti, i soli destinati a sopravvivere in eterno.
«Il Sole 24 Ore» del 28 agosto 2016
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