Incontri (e scontri) tra culture
di Luca Ricolfi
La sentenza del Consiglio di Stato francese che, di fatto, autorizza l’uso del burqini sulle spiagge ha presto disinnescato una polemica che stava sconfinando nel ridicolo. E tuttavia, a ben pensarci, questa tempesta estiva in un bicchier d’acqua qualche utilità potrebbe anche averla. Il dibattito-lampo sul burqini, infatti, ha portato allo scoperto una debolezza fondamentale del nostro modo di rapportarci alle altre culture, che pure pretendiamo di rispettare.
Questa debolezza ha due facce, opposte e complementari, come quelle di una moneta. La prima faccia, la faccia relativista, o del rispetto fra culture, dice: non ci sono valori assoluti, nessuna cultura è superiore a un’altra, non possiamo giudicare una cultura con i nostri parametri occidentali, l’incontro con altre culture è arricchimento reciproco, ogni cultura (e ogni religione) merita rispetto, dobbiamo essere aperti verso l’altro e il diverso.
Ma la seconda faccia della moneta, la faccia illuminista, recita: i nostri principi di libertà e tolleranza hanno valore universale; la democrazia è il migliore dei sistemi di governo; libertà religiosa e di espressione non possono subire restrizioni; uomini e donne sono eguali; la sessualità deve essere libera; i diritti dell’uomo sono inviolabili e dobbiamo adoperarci per assicurare il loro rispetto su tutto il pianeta.
Curiosamente, l’incongruenza fra le due facce della moneta non disturba quasi nessuno. Ci piace pensarci così: rispettosi degli altri, ma al tempo stesso consapevoli di essere i migliori.
Per accorgerci che nel nostro modo di vedere le cose qualcosa non funziona abbiamo bisogno di eventi esterni, grandi e piccoli. Forse più piccoli che grandi. Certo le guerre umanitarie, o le democrazie imposte dall’alto, qualche interrogativo lo sollevano. Ma dove casca l’asino è sulle piccole cose, quelle su cui chiunque si sente autorizzato a dire la sua.
Uno dei primi casi, come ricorderanno molti, fu quello dell’infibulazione e più in generale delle mutilazioni del corpo femminile, che suscitò molte controversie in Francia fin dagli anni ’80: la faccia relativista, o del rispetto, imponeva di accettare i costumi delle culture “altre”; la faccia illuminista imponeva di combattere quei medesimi costumi a causa del loro carattere barbaro. Alla fine la vinse la faccia illuminista, e l’infibulazione è rimasta una pratica illecita.
Il dilemma fra le due facce della moneta si è riproposto innumerevoli volte, spesso mettendo in imbarazzo la cultura liberal che da qualche decennio è egemone in Occidente. Specie quando di mezzo vi sono le donne, non necessariamente islamiche, invariabilmente va in scena il medesimo canovaccio, e si ripresenta la medesima contraddizione. Se una donna islamica va in spiaggia in burqini, la faccia del rispetto invoca il sacrosanto diritto di ogni donna di vestirsi secondo i precetti della sua religione, ma la faccia illuminista (e femminista, in questo caso) prontamente obietta che il burqini è imposto da mariti e fratelli, e vietarlo aiuta le donne islamiche a emanciparsi, a liberarsi da ogni tutela. In questo caso a prevalere pare essere la faccia del rispetto, che rinuncia a imporre alle donne islamiche i nostri costumi (da bagno), a costo di consegnarle all’arbitrio dei loro uomini e al cupo oscurantismo del loro mondo.
Ma il dilemma fra il principio del rispetto e la fede assoluta nei valori della civiltà occidentale non si presenta solo quando di mezzo ci sono le donne. Sovente esso fa la sua comparsa anche in altri ambiti, ad esempio, in materia di libertà di espressione, e di satira in particolare.
Quando, il 7 gennaio 2015, un commando terrorista islamico uccide 12 persone in un assalto alla sede di Charlie Hebdo, colpevole di avere pubblicato vignette satiriche derisorie su Maometto, quasi tutti gli intellettuali (e i mass media) illuminati reagiscono difendendo il diritto incondizionato degli autori di satira di prendere in giro chiunque. Ma quando, come in questi giorni, oggetto della satira sono gli italiani vittime del terremoto di Amatrice, rappresentati come maccheroni insanguinati di pomodoro, il credo nel diritto di satira vacilla. Ed ecco che il pendolo, che ai tempi di Charlie Hebdo aveva risolutamente oscillato a favore della libertà di satira, riscopre improvvisamente le ragioni del rispetto: forse la liberà di satira non dovrebbe essere illimitata e incondizionata, come perentoriamente si era affermato ai tempi di Charlie Hebdo.
Ma torniamo al burqini. Chi ha ragione?
Dico subito che il mio istinto è tutto pro-burqini. Fatto salvo il principio che, per elementari ragioni di sicurezza, nessuno deve poter girare in pubblico a volto coperto, e che il principio vale erga omnes, dalla donna in burqa al malvivente con passamontagna che dà l’assalto a una banca, trovo abbastanza irragionevole che noi occidentali assumiamo verso l’Islam (o verso qualsiasi altra cultura diversa dalla nostra) un atteggiamento paternalista in materia di stili di vita. Questo per due distinte ragioni.
La prima, e la meno importante perché alquanto soggettiva, è che provo sempre un certo imbarazzo quando vedo qualcuno che spiega a qualcun altro quali sono i suoi veri interessi, o pretende di conoscerne la volontà autentica. Il fatto che non pochi di noi (islamici e non) agiscano sotto ricatto, pressioni di gruppo, ingerenze familiari – una circostanza che fa purtroppo parte della fisiologia sociale – non autorizza nessun Ente superiore, sia esso lo Stato, la Giustizia o altro, a farsi interprete delle nostre vere preferenze e della nostra vera volontà. Nessuno può obbligarci ad essere liberi contro la nostra volontà dichiarata.
Ma c’è una ragione più importante per cui ritengo che dovremmo andarci piano con i nostri giudizi sulle culture che ci appaiono diverse dalla nostra. Ed è che tali culture spesso non sono affatto diverse, bensì situate in un altro tempo. Per diversi aspetti sono la nostra stessa cultura, com’era 100, 50, o anche solo 30 anni fa. E qui non mi riferisco tanto o solo al modo di vestire, in chiesa come in spiaggia, un punto su cui basterebbero poche foto d’epoca per mostrarci quanto il pudore islamico di oggi somigli a quello occidentale di due generazioni fa. Quello che ho in mente sono i più alti valori di cui la nostra civiltà, specie europea, si fa spesso vanto, ad esempio la democrazia e il ripudio della pena di morte.
Troppo spesso ci dimentichiamo che le conquiste che a molti di noi oggi paiono naturali e irrinunciabili, in quanto condizioni minime di civiltà, sono frutto di un percorso durato secoli e che in molti paesi “civili” si è concluso da poco, o deve tuttora concludersi. Ancora alla fine della seconda guerra mondiale, il suffragio universale non esisteva in Francia, Italia, Belgio, Svizzera, Stati Uniti, Giappone. Quanto alla pena di morte, essa resiste tuttora negli Stati Uniti, ed è scomparsa dagli ordinamenti dei principali paesi europei solo in tempi recenti. Nel Regno Unito, in Belgio e in Spagna era ancora in vigore all’inizio degli anni ’90; in Francia, Olanda, Norvegia, Danimarca alla fine degli anni ’70 o nei primi anni ’80. In Francia l’ultima esecuzione capitale, mediante ghigliottina, avviene nel 1977, quasi dieci anni dopo le due grandi rivoluzioni del costume del sessantotto e del femminismo. Per non parlare del Vaticano, che ora invoca la sospensione di tutte le esecuzioni capitali, ma ha aspettato fino al 2001 (con Wojtyla) per decidersi ad eliminare la pena di morte dalla Legge fondamentale dello Stato Pontificio.
Naturalmente può ben darsi che molte culture non occidentali evolvano, in definitiva, verso costumi diversi dai nostri. E tuttavia non dovremmo trascurare un’altra possibilità, o meglio un'altra ricostruzione di come siano andate le cose nell’era delle frontiere aperte. L’incontro-scontro fra modelli culturali oggi in atto fra l’Occidente consumista ed iper-emancipato e i molti popoli che, con comprensibile sbalordimento, ne osservano costumi e modi di vita, sarebbe potuto essere meno traumatico, e forse anche meno violento, se l’Occidente, e in particolare l’Europa, fossero stati meno immemori del proprio recente passato, e più consapevoli della lentezza con cui evolvono le culture. L’ingenuo (o fin troppo cinico) entusiasmo con cui i paesi leader del mondo hanno aperto le loro economie e le loro frontiere sembra aver fatto perdere di vista una distinzione essenziale: il trasferimento tecnologico, tanto più nell'era di internet, può anche essere molto rapido, ma la comunicazione e l’integrazione reciproca fra culture richiedono molto più tempo. È come se i vantaggi dell’arretratezza economica, magistralmente descritti da Gerschenkron negli anni ’60 del secolo scorso, ovvero l'idea che un paese arretrato possa bruciare le tappe della modernizzazione facendo tesoro delle conquiste economiche e tecnologiche dei paesi avanzati, fossero stati attribuiti anche all'evoluzione delle culture. Pensare che miliardi di uomini, nel giro di pochissimi decenni, potessero superare differenze e barriere formatesi nei secoli o nei millenni, è stato probabilmente il più grave errore di valutazione che le élites economiche e culturali del mondo avanzato abbiano commesso dopo la seconda guerra mondiale. Globalizzazione degli scambi, allargamento a Est, apertura ai migranti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente, non erano di per sé scelte sbagliate, ma assai imprudente è stato non considerare il fattore tempo: tre decenni sono più che sufficienti per modernizzare un’economia, ma possono essere davvero pochi per mettere in comunicazione due culture.
Guardando al futuro, se davvero vogliamo attenerci al rispetto delle altre culture e delle altre civiltà, dovremmo essere preparati ad accogliere tutte le eventualità. Può darsi che i modelli occidentali, con le loro promesse di benessere e di libertà, finiscano per imporsi nella maggior parte dei Paesi del mondo, e che sia solo questione di tempo: prima o poi vedremo le donne islamiche in bikini. Ma può anche darsi che, specie in campo etico e nel costume, la civiltà libertaria e un po’ esibizionista dell’Occidente non attecchisca ovunque: in quel caso vedremo diversi burqini anche quando padri-padroni e mariti-signori saranno stati costretti a fare un passo indietro.
E poi c’è una terza possibilità, ignorata dalla sociologia ma non dalla letteratura. Può anche darsi che, a fare un piccolo passo verso il passato, siano i costumi dell'Occidente, una possibilità chiaramente adombrata nell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq (Sottomissione, Bompiani 2015): in quel caso vedremo le donne occidentali gareggiare a chi sfoggia il burqini più bello.
Questa debolezza ha due facce, opposte e complementari, come quelle di una moneta. La prima faccia, la faccia relativista, o del rispetto fra culture, dice: non ci sono valori assoluti, nessuna cultura è superiore a un’altra, non possiamo giudicare una cultura con i nostri parametri occidentali, l’incontro con altre culture è arricchimento reciproco, ogni cultura (e ogni religione) merita rispetto, dobbiamo essere aperti verso l’altro e il diverso.
Ma la seconda faccia della moneta, la faccia illuminista, recita: i nostri principi di libertà e tolleranza hanno valore universale; la democrazia è il migliore dei sistemi di governo; libertà religiosa e di espressione non possono subire restrizioni; uomini e donne sono eguali; la sessualità deve essere libera; i diritti dell’uomo sono inviolabili e dobbiamo adoperarci per assicurare il loro rispetto su tutto il pianeta.
Curiosamente, l’incongruenza fra le due facce della moneta non disturba quasi nessuno. Ci piace pensarci così: rispettosi degli altri, ma al tempo stesso consapevoli di essere i migliori.
Per accorgerci che nel nostro modo di vedere le cose qualcosa non funziona abbiamo bisogno di eventi esterni, grandi e piccoli. Forse più piccoli che grandi. Certo le guerre umanitarie, o le democrazie imposte dall’alto, qualche interrogativo lo sollevano. Ma dove casca l’asino è sulle piccole cose, quelle su cui chiunque si sente autorizzato a dire la sua.
Uno dei primi casi, come ricorderanno molti, fu quello dell’infibulazione e più in generale delle mutilazioni del corpo femminile, che suscitò molte controversie in Francia fin dagli anni ’80: la faccia relativista, o del rispetto, imponeva di accettare i costumi delle culture “altre”; la faccia illuminista imponeva di combattere quei medesimi costumi a causa del loro carattere barbaro. Alla fine la vinse la faccia illuminista, e l’infibulazione è rimasta una pratica illecita.
Il dilemma fra le due facce della moneta si è riproposto innumerevoli volte, spesso mettendo in imbarazzo la cultura liberal che da qualche decennio è egemone in Occidente. Specie quando di mezzo vi sono le donne, non necessariamente islamiche, invariabilmente va in scena il medesimo canovaccio, e si ripresenta la medesima contraddizione. Se una donna islamica va in spiaggia in burqini, la faccia del rispetto invoca il sacrosanto diritto di ogni donna di vestirsi secondo i precetti della sua religione, ma la faccia illuminista (e femminista, in questo caso) prontamente obietta che il burqini è imposto da mariti e fratelli, e vietarlo aiuta le donne islamiche a emanciparsi, a liberarsi da ogni tutela. In questo caso a prevalere pare essere la faccia del rispetto, che rinuncia a imporre alle donne islamiche i nostri costumi (da bagno), a costo di consegnarle all’arbitrio dei loro uomini e al cupo oscurantismo del loro mondo.
Ma il dilemma fra il principio del rispetto e la fede assoluta nei valori della civiltà occidentale non si presenta solo quando di mezzo ci sono le donne. Sovente esso fa la sua comparsa anche in altri ambiti, ad esempio, in materia di libertà di espressione, e di satira in particolare.
Quando, il 7 gennaio 2015, un commando terrorista islamico uccide 12 persone in un assalto alla sede di Charlie Hebdo, colpevole di avere pubblicato vignette satiriche derisorie su Maometto, quasi tutti gli intellettuali (e i mass media) illuminati reagiscono difendendo il diritto incondizionato degli autori di satira di prendere in giro chiunque. Ma quando, come in questi giorni, oggetto della satira sono gli italiani vittime del terremoto di Amatrice, rappresentati come maccheroni insanguinati di pomodoro, il credo nel diritto di satira vacilla. Ed ecco che il pendolo, che ai tempi di Charlie Hebdo aveva risolutamente oscillato a favore della libertà di satira, riscopre improvvisamente le ragioni del rispetto: forse la liberà di satira non dovrebbe essere illimitata e incondizionata, come perentoriamente si era affermato ai tempi di Charlie Hebdo.
Ma torniamo al burqini. Chi ha ragione?
Dico subito che il mio istinto è tutto pro-burqini. Fatto salvo il principio che, per elementari ragioni di sicurezza, nessuno deve poter girare in pubblico a volto coperto, e che il principio vale erga omnes, dalla donna in burqa al malvivente con passamontagna che dà l’assalto a una banca, trovo abbastanza irragionevole che noi occidentali assumiamo verso l’Islam (o verso qualsiasi altra cultura diversa dalla nostra) un atteggiamento paternalista in materia di stili di vita. Questo per due distinte ragioni.
La prima, e la meno importante perché alquanto soggettiva, è che provo sempre un certo imbarazzo quando vedo qualcuno che spiega a qualcun altro quali sono i suoi veri interessi, o pretende di conoscerne la volontà autentica. Il fatto che non pochi di noi (islamici e non) agiscano sotto ricatto, pressioni di gruppo, ingerenze familiari – una circostanza che fa purtroppo parte della fisiologia sociale – non autorizza nessun Ente superiore, sia esso lo Stato, la Giustizia o altro, a farsi interprete delle nostre vere preferenze e della nostra vera volontà. Nessuno può obbligarci ad essere liberi contro la nostra volontà dichiarata.
Ma c’è una ragione più importante per cui ritengo che dovremmo andarci piano con i nostri giudizi sulle culture che ci appaiono diverse dalla nostra. Ed è che tali culture spesso non sono affatto diverse, bensì situate in un altro tempo. Per diversi aspetti sono la nostra stessa cultura, com’era 100, 50, o anche solo 30 anni fa. E qui non mi riferisco tanto o solo al modo di vestire, in chiesa come in spiaggia, un punto su cui basterebbero poche foto d’epoca per mostrarci quanto il pudore islamico di oggi somigli a quello occidentale di due generazioni fa. Quello che ho in mente sono i più alti valori di cui la nostra civiltà, specie europea, si fa spesso vanto, ad esempio la democrazia e il ripudio della pena di morte.
Troppo spesso ci dimentichiamo che le conquiste che a molti di noi oggi paiono naturali e irrinunciabili, in quanto condizioni minime di civiltà, sono frutto di un percorso durato secoli e che in molti paesi “civili” si è concluso da poco, o deve tuttora concludersi. Ancora alla fine della seconda guerra mondiale, il suffragio universale non esisteva in Francia, Italia, Belgio, Svizzera, Stati Uniti, Giappone. Quanto alla pena di morte, essa resiste tuttora negli Stati Uniti, ed è scomparsa dagli ordinamenti dei principali paesi europei solo in tempi recenti. Nel Regno Unito, in Belgio e in Spagna era ancora in vigore all’inizio degli anni ’90; in Francia, Olanda, Norvegia, Danimarca alla fine degli anni ’70 o nei primi anni ’80. In Francia l’ultima esecuzione capitale, mediante ghigliottina, avviene nel 1977, quasi dieci anni dopo le due grandi rivoluzioni del costume del sessantotto e del femminismo. Per non parlare del Vaticano, che ora invoca la sospensione di tutte le esecuzioni capitali, ma ha aspettato fino al 2001 (con Wojtyla) per decidersi ad eliminare la pena di morte dalla Legge fondamentale dello Stato Pontificio.
Naturalmente può ben darsi che molte culture non occidentali evolvano, in definitiva, verso costumi diversi dai nostri. E tuttavia non dovremmo trascurare un’altra possibilità, o meglio un'altra ricostruzione di come siano andate le cose nell’era delle frontiere aperte. L’incontro-scontro fra modelli culturali oggi in atto fra l’Occidente consumista ed iper-emancipato e i molti popoli che, con comprensibile sbalordimento, ne osservano costumi e modi di vita, sarebbe potuto essere meno traumatico, e forse anche meno violento, se l’Occidente, e in particolare l’Europa, fossero stati meno immemori del proprio recente passato, e più consapevoli della lentezza con cui evolvono le culture. L’ingenuo (o fin troppo cinico) entusiasmo con cui i paesi leader del mondo hanno aperto le loro economie e le loro frontiere sembra aver fatto perdere di vista una distinzione essenziale: il trasferimento tecnologico, tanto più nell'era di internet, può anche essere molto rapido, ma la comunicazione e l’integrazione reciproca fra culture richiedono molto più tempo. È come se i vantaggi dell’arretratezza economica, magistralmente descritti da Gerschenkron negli anni ’60 del secolo scorso, ovvero l'idea che un paese arretrato possa bruciare le tappe della modernizzazione facendo tesoro delle conquiste economiche e tecnologiche dei paesi avanzati, fossero stati attribuiti anche all'evoluzione delle culture. Pensare che miliardi di uomini, nel giro di pochissimi decenni, potessero superare differenze e barriere formatesi nei secoli o nei millenni, è stato probabilmente il più grave errore di valutazione che le élites economiche e culturali del mondo avanzato abbiano commesso dopo la seconda guerra mondiale. Globalizzazione degli scambi, allargamento a Est, apertura ai migranti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente, non erano di per sé scelte sbagliate, ma assai imprudente è stato non considerare il fattore tempo: tre decenni sono più che sufficienti per modernizzare un’economia, ma possono essere davvero pochi per mettere in comunicazione due culture.
Guardando al futuro, se davvero vogliamo attenerci al rispetto delle altre culture e delle altre civiltà, dovremmo essere preparati ad accogliere tutte le eventualità. Può darsi che i modelli occidentali, con le loro promesse di benessere e di libertà, finiscano per imporsi nella maggior parte dei Paesi del mondo, e che sia solo questione di tempo: prima o poi vedremo le donne islamiche in bikini. Ma può anche darsi che, specie in campo etico e nel costume, la civiltà libertaria e un po’ esibizionista dell’Occidente non attecchisca ovunque: in quel caso vedremo diversi burqini anche quando padri-padroni e mariti-signori saranno stati costretti a fare un passo indietro.
E poi c’è una terza possibilità, ignorata dalla sociologia ma non dalla letteratura. Può anche darsi che, a fare un piccolo passo verso il passato, siano i costumi dell'Occidente, una possibilità chiaramente adombrata nell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq (Sottomissione, Bompiani 2015): in quel caso vedremo le donne occidentali gareggiare a chi sfoggia il burqini più bello.
«Il Sole 24 ore» del 4 settembre 2016
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