di Eraldo Affinati
Ogni bomba che esplode in Europa ci riporta indietro nei secoli, in un vortice di reciproche incomprensioni. Crollano i ponti. Si alzano i muri. Tornano i fantasmi del passato. Tutto il lavoro umano che è stato compiuto in questi anni difficili sembra vanificato nel sangue dei corpi dilaniati.
Eppure noi dobbiamo continuare a scommettere sul futuro: non abbiamo altra scelta.
Il tema resta sempre quello educativo: raccogliere il testimone da chi ci precede per consegnarlo a chi verrà dopo, nella speranza che non sia un tronco bruciato, ma una moneta d’oro. La scuola diventa il luogo elettivo del confronto antropologico, il campo operativo della sfida decisiva: nessuno deve rinunciare alla propria identità, ma tutti dovrebbero rispettare quella altrui. È necessario trovare delle piattaforme comuni d’intesa e la nostra Costituzione indica grandi ed essenziali princìpi. I linguaggi non devono essere specialistici: si tratta di un lusso che non possiamo più permetterci. Io credo di poter interpretare così l’umanesimo integrale di papa Francesco.
L’altra sera, all’indomani degli attentati in Belgio, ero a cena con Khaliq, originario della Sierra Leone, mio ex studente alla Città dei Ragazzi di Roma, riuscito a sopravvivere dopo aver perso i contatti con la famiglia originaria. Oggi ha un lavoro, una moglie e un bambino di pochi mesi. Ogni mattina, all’alba, prega in ginocchio sotto lo sguardo incantato di Sharif, il figlio piccolo. Cosa ne faremo dello stupore di questo nuovo italiano di fronte alla fede del padre? Quali scenari costruiremo intorno alla sua meraviglia?
Se pensassimo che basterà concedergli l’assistenza sanitaria e iscriverlo alle elementari, allora Molenbeek, il quartiere di Bruxelles che ha favorito e protetto prima la fuga, poi la latitanza di Salah Abdeslam, non ci avrà insegnato niente.
Il lavoro che ci aspetta è molto più profondo: pre-politico, pre-giuridico, pre-sociale, pre-religioso. Siamo chiamati ad assumerci la responsabilità dello sguardo altrui. Il che significa creare i presupposti per una relazione umana libera dal pregiudizio e dall’ideologia.
Faccio un solo esempio concreto. Da quest’anno la nuova riforma dell’istruzione italiana prevede che gli studenti delle medie superiori svolgano, nel quadro dell’alternanza scuola-lavoro, un periodo di tirocinio attivo presso aziende, enti o associazioni. Si tratta di una preziosa opportunità che non dovremmo sottovalutare. Nei mesi scorsi, grazie al sostegno attivo di molti volontari della Penny Wirton, una scuola di lingua italiana per immigrati, ho cercato di formare un gruppo di liceali romane a questo tipo di insegnamento. Vedere Chiara o Sonia, della terza C, impegnate di pomeriggio a scandire le sillabe con Mohamed e Ismail, analfabeti nella lingua madre, rafforza la nostra tensione partecipativa: in quale altro luogo gli adolescenti egiziani, appena arrivati dal Delta del Nilo, avrebbero potuto trovare una simile accoglienza?
«In Africa, in Asia, nell’America latina, nel mezzogiorno, in montagna, nei campi, perfino nelle grandi città, milioni di ragazzi aspettano d’esser fatti eguali», scriveva don Lorenzo Milani. Adesso, quasi cinquant’anni dopo, i ragazzi annunciati dal priore di Barbiana sono fra noi. E hanno il medesimo antico, identico problema dei piccoli mugellani: imparare la lingua. Che non significa solo saper coniugare il verbo essere e avere. Vuol dire crescere, diventare adulti, unire il pensiero e l’azione, dare senso all’esperienza, capire la preghiera del padre, prima ancora di accettarla o rifiutarla. Soltanto se loro, sparute avanguardie di popoli in movimento, avranno compiuto questo percorso interiore non da soli ma con noi, potremo dire, tutti insieme, di aver fatto terra bruciata intorno ai terroristi.
Eppure noi dobbiamo continuare a scommettere sul futuro: non abbiamo altra scelta.
Il tema resta sempre quello educativo: raccogliere il testimone da chi ci precede per consegnarlo a chi verrà dopo, nella speranza che non sia un tronco bruciato, ma una moneta d’oro. La scuola diventa il luogo elettivo del confronto antropologico, il campo operativo della sfida decisiva: nessuno deve rinunciare alla propria identità, ma tutti dovrebbero rispettare quella altrui. È necessario trovare delle piattaforme comuni d’intesa e la nostra Costituzione indica grandi ed essenziali princìpi. I linguaggi non devono essere specialistici: si tratta di un lusso che non possiamo più permetterci. Io credo di poter interpretare così l’umanesimo integrale di papa Francesco.
L’altra sera, all’indomani degli attentati in Belgio, ero a cena con Khaliq, originario della Sierra Leone, mio ex studente alla Città dei Ragazzi di Roma, riuscito a sopravvivere dopo aver perso i contatti con la famiglia originaria. Oggi ha un lavoro, una moglie e un bambino di pochi mesi. Ogni mattina, all’alba, prega in ginocchio sotto lo sguardo incantato di Sharif, il figlio piccolo. Cosa ne faremo dello stupore di questo nuovo italiano di fronte alla fede del padre? Quali scenari costruiremo intorno alla sua meraviglia?
Se pensassimo che basterà concedergli l’assistenza sanitaria e iscriverlo alle elementari, allora Molenbeek, il quartiere di Bruxelles che ha favorito e protetto prima la fuga, poi la latitanza di Salah Abdeslam, non ci avrà insegnato niente.
Il lavoro che ci aspetta è molto più profondo: pre-politico, pre-giuridico, pre-sociale, pre-religioso. Siamo chiamati ad assumerci la responsabilità dello sguardo altrui. Il che significa creare i presupposti per una relazione umana libera dal pregiudizio e dall’ideologia.
Faccio un solo esempio concreto. Da quest’anno la nuova riforma dell’istruzione italiana prevede che gli studenti delle medie superiori svolgano, nel quadro dell’alternanza scuola-lavoro, un periodo di tirocinio attivo presso aziende, enti o associazioni. Si tratta di una preziosa opportunità che non dovremmo sottovalutare. Nei mesi scorsi, grazie al sostegno attivo di molti volontari della Penny Wirton, una scuola di lingua italiana per immigrati, ho cercato di formare un gruppo di liceali romane a questo tipo di insegnamento. Vedere Chiara o Sonia, della terza C, impegnate di pomeriggio a scandire le sillabe con Mohamed e Ismail, analfabeti nella lingua madre, rafforza la nostra tensione partecipativa: in quale altro luogo gli adolescenti egiziani, appena arrivati dal Delta del Nilo, avrebbero potuto trovare una simile accoglienza?
«In Africa, in Asia, nell’America latina, nel mezzogiorno, in montagna, nei campi, perfino nelle grandi città, milioni di ragazzi aspettano d’esser fatti eguali», scriveva don Lorenzo Milani. Adesso, quasi cinquant’anni dopo, i ragazzi annunciati dal priore di Barbiana sono fra noi. E hanno il medesimo antico, identico problema dei piccoli mugellani: imparare la lingua. Che non significa solo saper coniugare il verbo essere e avere. Vuol dire crescere, diventare adulti, unire il pensiero e l’azione, dare senso all’esperienza, capire la preghiera del padre, prima ancora di accettarla o rifiutarla. Soltanto se loro, sparute avanguardie di popoli in movimento, avranno compiuto questo percorso interiore non da soli ma con noi, potremo dire, tutti insieme, di aver fatto terra bruciata intorno ai terroristi.
«Avvenire» del 26 marzo 2016
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