Lo studio Eurostat
di Antonella De Gregorio
Italia al top per numero di lingue insegnate alle medie: 98% degli adolescenti ne studia due, ma solo 16 su 100 poi le sanno usare. I pedagogisti: «Non vanno abbandonate alle superiori». E per impararle bene, video e testi in originale
Ci dev’essere un buco, nella scuola, dove finiscono le lingue straniere. Si legge nei numeri, che vedono la totalità dei nostri adolescenti impegnati nello studio non solo della seconda (inglese, per tutti), ma di una terza lingua (che più frequentemente è il francese): il 98,4% contro una media europea del 60, dice l’Eurostat. E però solo il 16% degli italiani parla due lingue, a fronte del 21% dei cittadini Ue, e il 40% non ne parla nessuna. Del dato statistico si rallegra Gisella Langè, ispettore tecnico del Miur, consulente per le lingue straniere e l’internazionalizzazione: «È il segno che si stanno muovendo molte cose e che sta aumentando l’esposizione degli studenti alle lingue straniere, come dimostra il successo dei partenariati, dei programmi di scambio e dei gemellaggi», sostiene.
Investimento a fondo perduto
L’Italia è tra i 14 paesi europei che hanno imposto l’inglese come lingua obbligatoria a partire dai 6 anni (tra i 6 ed i 9 anni in Ue, e in alcuni Stati europei già nel periodo prescolare); un secondo idioma straniero è stato introdotto, con la riforma del 2010, a partire dagli 11 anni e sino al termine della scuola secondaria inferiore. Alle superiori, però, meno del 50% dei percorsi di studio prevede la seconda lingua, comunitaria o extra Ue. L’investimento fatto alle medie - circa duecento ore nei tre anni - è dunque a fondo perduto?
A scuola
Qualche anno fa le lingue straniere si studiavano quasi esclusivamente nei licei linguistici. Poche ore nelle altre scuole, assenti alla primaria, di poco conto all’università. Oggi si sperimenta alla materna, sono stati avviati interi corsi universitari in inglese, alle superiori c’è il Clil (una materia insegnata in lingua) e dal 2010 alle medie è obbligatoria una seconda lingua straniera. Poi, però, proseguendo gli studi, meno del 50% dei percorsi la prevede. E anche se ci dedichiamo di più alle lingue, non le «mastichiamo» ancora.
«Programmi per settori»
«Spesso nella scuola si ragiona per settori e si perde quel che viene prima e dopo», commenta Raffaele Mantegazza, docente di Pedagogia generale alla Bicocca di Milano. «Alle superiori la seconda lingua straniera non va abbandonata», dice. La si studia «a intermittenza», mentre se ne dovrebbero «padroneggiare due allo stesso modo». Il dislivello tra investimento e mancato utilizzo è significativo. Colpa della superficialità con cui si insegna: alla primaria salgono in cattedra maestri che han frequentato solo le vecchie magistrali; e la maggior parte dei docenti non fa aggiornamento da una decina d’anni. Ma con la riforma della scuola finalmente si investe molto sulla formazione, dice Gisella Langè: «40 milioni di euro all’anno, per tre anni, con priorità a lingue e digitale». Il nuovo bando di concorso per i prof, inoltre, prevede una parte in inglese (livello B2).
Ripensare la didattica
Ci vorranno anni per vederne gli esiti sulla maggior parte della popolazione adulta. Intanto «bisogna ripensare a come si insegna», dice Mantegazza: «Le lingue dovrebbero essere strumento per apprendere, prima che oggetto di studio, utilizzando brevi testi, adatti all’età: un fumetto, una recensione, un brano critico nell’idioma originale». E vanno pensate come veicolo delle nazioni, e come strumento di relazioni, a prescindere da un loro utilizzo professionale. Con questo obiettivo - dice - sarebbe importante portarne avanti due anche al liceo Scientifico e al Classico. «Tenendo però ben presente l’equilibrio globale dei curricoli. Non si può solo aggiungere ore di lingua, a scapito di materie “povere” e fondamentali come geografia, laboratorio, educazione civica. Occorre uno sforzo per ripensare i programmi. Servono copresenza e, certo, investimenti».
Film in lingua e canzoni
Studiare, poi, non basta: per imparare una lingua straniera, bisogna viverla. Masticarla, cantarla, lasciarsene conquistare. E invece. Se confrontiamo il nostro Paese con Svezia, Danimarca, Olanda – le regine della classifica Ef Epi, che da dieci anni misura la competenza dell’inglese degli adulti nel mondo - , usciamo dal confronto appiattiti nella mediocrità: 28esimi su 70, dal Cile alla Libia, e tra i più scarsi del Continente. Le ore scolastiche dedicate all’insegnamento delle lingue straniere sono simili, ma i paesi nordici eccellono perché l’immersione nell’idioma inizia fin da piccoli, con i cartoni animati non doppiati. Poi arrivano i film in lingua originale, i siti web consultati in inglese, i viaggi. Anche il contesto familiare fa la sua parte: se sono papà e mamma a dare l’esempio, ascoltando in originale tutto ciò che si può, leggendo libri in inglese, nei piccoli si sviluppa una sensibilità diversa alle lingue. «I ragazzi italiani brillano tutt’al più per la grammatica, ma sono indietro nell’orale: conversazione e ascolto», dice Natalia Anguas, amministratore delegato di Ef Italia. Il metodo pedagogico incide: i danesi, per dire, imparano soprattutto a parlare, applicando la lingua a situazioni reali. Da noia scuola le lezioni sono frontali, con al centro grammatica e scrittura. Apprendimento spontaneo contro accademia. Bilingui si diventa forse solo facendo le valigie. Ma intanto si può lavorare sull’atteggiamento culturale: poco permeabili alla diversità, secondo Anguas gli italiani faticano a staccarsi dalla famiglia e dagli amici: «Possono vincere la gara dello spelling, ma sono troppo poco indipendenti».
Investimento a fondo perduto
L’Italia è tra i 14 paesi europei che hanno imposto l’inglese come lingua obbligatoria a partire dai 6 anni (tra i 6 ed i 9 anni in Ue, e in alcuni Stati europei già nel periodo prescolare); un secondo idioma straniero è stato introdotto, con la riforma del 2010, a partire dagli 11 anni e sino al termine della scuola secondaria inferiore. Alle superiori, però, meno del 50% dei percorsi di studio prevede la seconda lingua, comunitaria o extra Ue. L’investimento fatto alle medie - circa duecento ore nei tre anni - è dunque a fondo perduto?
A scuola
Qualche anno fa le lingue straniere si studiavano quasi esclusivamente nei licei linguistici. Poche ore nelle altre scuole, assenti alla primaria, di poco conto all’università. Oggi si sperimenta alla materna, sono stati avviati interi corsi universitari in inglese, alle superiori c’è il Clil (una materia insegnata in lingua) e dal 2010 alle medie è obbligatoria una seconda lingua straniera. Poi, però, proseguendo gli studi, meno del 50% dei percorsi la prevede. E anche se ci dedichiamo di più alle lingue, non le «mastichiamo» ancora.
«Programmi per settori»
«Spesso nella scuola si ragiona per settori e si perde quel che viene prima e dopo», commenta Raffaele Mantegazza, docente di Pedagogia generale alla Bicocca di Milano. «Alle superiori la seconda lingua straniera non va abbandonata», dice. La si studia «a intermittenza», mentre se ne dovrebbero «padroneggiare due allo stesso modo». Il dislivello tra investimento e mancato utilizzo è significativo. Colpa della superficialità con cui si insegna: alla primaria salgono in cattedra maestri che han frequentato solo le vecchie magistrali; e la maggior parte dei docenti non fa aggiornamento da una decina d’anni. Ma con la riforma della scuola finalmente si investe molto sulla formazione, dice Gisella Langè: «40 milioni di euro all’anno, per tre anni, con priorità a lingue e digitale». Il nuovo bando di concorso per i prof, inoltre, prevede una parte in inglese (livello B2).
Ripensare la didattica
Ci vorranno anni per vederne gli esiti sulla maggior parte della popolazione adulta. Intanto «bisogna ripensare a come si insegna», dice Mantegazza: «Le lingue dovrebbero essere strumento per apprendere, prima che oggetto di studio, utilizzando brevi testi, adatti all’età: un fumetto, una recensione, un brano critico nell’idioma originale». E vanno pensate come veicolo delle nazioni, e come strumento di relazioni, a prescindere da un loro utilizzo professionale. Con questo obiettivo - dice - sarebbe importante portarne avanti due anche al liceo Scientifico e al Classico. «Tenendo però ben presente l’equilibrio globale dei curricoli. Non si può solo aggiungere ore di lingua, a scapito di materie “povere” e fondamentali come geografia, laboratorio, educazione civica. Occorre uno sforzo per ripensare i programmi. Servono copresenza e, certo, investimenti».
Film in lingua e canzoni
Studiare, poi, non basta: per imparare una lingua straniera, bisogna viverla. Masticarla, cantarla, lasciarsene conquistare. E invece. Se confrontiamo il nostro Paese con Svezia, Danimarca, Olanda – le regine della classifica Ef Epi, che da dieci anni misura la competenza dell’inglese degli adulti nel mondo - , usciamo dal confronto appiattiti nella mediocrità: 28esimi su 70, dal Cile alla Libia, e tra i più scarsi del Continente. Le ore scolastiche dedicate all’insegnamento delle lingue straniere sono simili, ma i paesi nordici eccellono perché l’immersione nell’idioma inizia fin da piccoli, con i cartoni animati non doppiati. Poi arrivano i film in lingua originale, i siti web consultati in inglese, i viaggi. Anche il contesto familiare fa la sua parte: se sono papà e mamma a dare l’esempio, ascoltando in originale tutto ciò che si può, leggendo libri in inglese, nei piccoli si sviluppa una sensibilità diversa alle lingue. «I ragazzi italiani brillano tutt’al più per la grammatica, ma sono indietro nell’orale: conversazione e ascolto», dice Natalia Anguas, amministratore delegato di Ef Italia. Il metodo pedagogico incide: i danesi, per dire, imparano soprattutto a parlare, applicando la lingua a situazioni reali. Da noia scuola le lezioni sono frontali, con al centro grammatica e scrittura. Apprendimento spontaneo contro accademia. Bilingui si diventa forse solo facendo le valigie. Ma intanto si può lavorare sull’atteggiamento culturale: poco permeabili alla diversità, secondo Anguas gli italiani faticano a staccarsi dalla famiglia e dagli amici: «Possono vincere la gara dello spelling, ma sono troppo poco indipendenti».
«Corriere della sera» dell'8 febbraio 2016
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