Vacue riforme
di Ernesto Galli della Loggia
La buona scuola non è solo quella degli edifici che non cascano a pezzi, degli insegnanti assunti e progredenti nella carriera per merito, o delle decine di migliaia di precari (tutti bravi? Siamo certi?) immessi finalmente nei ruoli: obiettivi ovviamente giusti, e sempre ammesso che il governo Renzi riesca a centrarli, visto che specie sui mezzi e i modi per conseguire gli ultimi due è lecito avere molti dubbi. Ma la buona scuola non è questo. La buona scuola non sono le lavagne interattive e non è neppure l’introduzione del coding, la formazione dei programmi telematici; non sono le attrezzature, e al limite - esagero - neppure gli insegnanti. La buona scuola è innanzi tutto un’idea. Un’idea forte di partenza circa ciò a cui la scuola deve servire: cioè del tipo di cittadino - e vorrei dire di più, di persona - che si vuole formare, e dunque del Paese che si vuole così contribuire a costruire.
In questo senso, lungi dal poter essere affidata a un manipolo sia pur eccellente di specialisti di qualche disciplina o di burocrati, ogni decisione non di routine in merito alla scuola è la decisione più politica che ci sia. È il cuore della politica. Né è il caso di avere paura delle parole: fatta salva l’inviolabilità delle coscienze negli ambiti in cui è materia di coscienza, la collettività ha ben il diritto di rivendicare per il tramite della politica una funzione educativa.
La scuola - è giunto il momento di ribadirlo - o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non è. Solo a questa condizione essa è ciò che deve essere: non solo un luogo in cui si apprendono nozioni, bensì dove intorno ad alcuni orientamenti culturali di base si formano dei caratteri, delle personalità; dove si costruisce un atteggiamento complessivo nei confronti del mondo, che attraverso il prisma di una miriade di soggettività costituirà poi il volto futuro della società.
La scuola, infatti, è ciò che dopo un paio di decenni sarà il Paese: non il suo Prodotto interno lordo, il suo mercato del lavoro: o meglio, anche queste cose ma soprattutto i suoi valori, la sua antropologia, il suo ordito morale, la sua tenuta.
Che cosa è diventata negli anni la scuola italiana lo si capisce dunque guardando all’Italia di oggi. Un Paese che non legge un libro ma ha il record dei cellulari, con troppi parlamentari semianalfabeti e perfino incapaci di parlare la lingua nazionale, dove prosperano illegalità e corruzione, dove sono prassi abituale tutti i comportamenti che denotano mancanza di spirito civico (dal non pagare sui mezzi pubblici a lordare qualunque ambiente in comune). Un Paese di cui vedi i giovani dediti solo a compulsare ossessivamente i loro smartphone come membri di fantomatiche gang di «amici» e di follower; le cui energie, allorché si trovano in pubblico, sono perlopiù impiegate in un gridio ininterrotto, nel turpiloquio, nel fumo, nella guida omicida-suicida di motorini e macchinette varie; di cui uno su mille, se vede un novantenne barcollante su un autobus, gli cede il posto. Essendo tutti, come si capisce, adeguatamente e regolarmente scolarizzati. È così o no?
Si illude chi crede - come almeno una decina di ministri dell’Istruzione hanno fin qui beatamente creduto - che a tutto ciò si rimedi con «l’educazione civica», «l’educazione alla Costituzione», «l’educazione alla legalità» o cose simili. A ciò si rimedia con la cultura, con un progetto educativo articolato in contenuti culturali mirati a valori etico-politici di cui l’intero ciclo scolastico sappia farsi carico. Un progetto educativo che perciò, a differenza di quanto fa da tempo il ministero dell’Istruzione, non idoleggi ciecamente i «valori dell’impresa» e il «rapporto scuola-lavoro», non consideri l’inglese la pietra filosofale dell’insegnamento, non si faccia sedurre, come invece avviene da anni, da qualunque materia abbia il sapore della modernità, inzeppandone i curriculum scolastici a continuo discapito di materie fondamentali come la letteratura, le scienze, la storia, la matematica. Con il bel risultato finale, lo può testimoniare chiunque, che oggi giungono in gran numero all’Università (all’università!) studenti incapaci di scrivere in italiano senza errori di ortografia o di riassumere correttamente la pagina di un testo: lo sanno il ministro e il suo entourage?
All’imbarbarimento che incombe sulle giovani generazioni si rimedia altresì creando nelle scuole un’atmosfera diversa da quella che vi regna ormai da anni. In troppe scuole italiane infatti - complici quasi sempre le famiglie e nel vagheggiamento di un impossibile rapporto paritario tra chi insegna e chi apprende - domina un permissivismo sciatto, un’indulgenza rassegnata. Troppo spesso è consentito fare il comodo proprio o quasi, si può tranquillamente uscire ed entrare dall’aula praticamente quando si vuole, usare a proprio piacere il cellulare, interloquire da pari a pari con l’insegnante. Ogni obbligo disciplinare è divenuto opzionale o quanto meno negoziabile, e l’autorità di chi si siede dietro la cattedra un puro orpello. Mentre su ogni scrutinio pende sempre la minaccia di un ricorso al Tar.
Quando ho sentito il presidente Renzi e il ministro Giannini annunciare una svolta, parlare di riforma, di «buona scuola», ho pensato che in qualche modo si sarebbe trattato di questi argomenti, si sarebbe affrontato almeno in parte questi problemi. E finalmente, magari, con uno spirito nuovo di concretezza, con una visione spregiudicata. In fondo il primo ha una moglie insegnante, mi sono detto, la seconda ha passato la sua vita nell’Università: qualcosa dovrebbero saperne. Invece niente. Prima di tutto e soprattutto i soldi e le assunzioni (bene), ma poi per il resto il solito chiudere gli occhi di fronte alla realtà, i soliti miraggi illusori per cui tutto è compatibile con tutto, per cui l’«autonomia» degli istituti invece di essere quella catastrofe che si è rivelata viene ancora creduta la panacea universale, la solita melassa di frasi fatte e mai verificate. E naturalmente mai uno scatto di coraggio intellettuale e politico, mai una vera volontà di cambiare, mai quell’idea alta e forte del Paese e della sua vicenda di cui la scuola dovrebbe rappresentare una parte decisiva, invece della disperata cenerentola che essa è, e che - ci si può scommettere - continuerà a essere.
In questo senso, lungi dal poter essere affidata a un manipolo sia pur eccellente di specialisti di qualche disciplina o di burocrati, ogni decisione non di routine in merito alla scuola è la decisione più politica che ci sia. È il cuore della politica. Né è il caso di avere paura delle parole: fatta salva l’inviolabilità delle coscienze negli ambiti in cui è materia di coscienza, la collettività ha ben il diritto di rivendicare per il tramite della politica una funzione educativa.
La scuola - è giunto il momento di ribadirlo - o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non è. Solo a questa condizione essa è ciò che deve essere: non solo un luogo in cui si apprendono nozioni, bensì dove intorno ad alcuni orientamenti culturali di base si formano dei caratteri, delle personalità; dove si costruisce un atteggiamento complessivo nei confronti del mondo, che attraverso il prisma di una miriade di soggettività costituirà poi il volto futuro della società.
La scuola, infatti, è ciò che dopo un paio di decenni sarà il Paese: non il suo Prodotto interno lordo, il suo mercato del lavoro: o meglio, anche queste cose ma soprattutto i suoi valori, la sua antropologia, il suo ordito morale, la sua tenuta.
Che cosa è diventata negli anni la scuola italiana lo si capisce dunque guardando all’Italia di oggi. Un Paese che non legge un libro ma ha il record dei cellulari, con troppi parlamentari semianalfabeti e perfino incapaci di parlare la lingua nazionale, dove prosperano illegalità e corruzione, dove sono prassi abituale tutti i comportamenti che denotano mancanza di spirito civico (dal non pagare sui mezzi pubblici a lordare qualunque ambiente in comune). Un Paese di cui vedi i giovani dediti solo a compulsare ossessivamente i loro smartphone come membri di fantomatiche gang di «amici» e di follower; le cui energie, allorché si trovano in pubblico, sono perlopiù impiegate in un gridio ininterrotto, nel turpiloquio, nel fumo, nella guida omicida-suicida di motorini e macchinette varie; di cui uno su mille, se vede un novantenne barcollante su un autobus, gli cede il posto. Essendo tutti, come si capisce, adeguatamente e regolarmente scolarizzati. È così o no?
Si illude chi crede - come almeno una decina di ministri dell’Istruzione hanno fin qui beatamente creduto - che a tutto ciò si rimedi con «l’educazione civica», «l’educazione alla Costituzione», «l’educazione alla legalità» o cose simili. A ciò si rimedia con la cultura, con un progetto educativo articolato in contenuti culturali mirati a valori etico-politici di cui l’intero ciclo scolastico sappia farsi carico. Un progetto educativo che perciò, a differenza di quanto fa da tempo il ministero dell’Istruzione, non idoleggi ciecamente i «valori dell’impresa» e il «rapporto scuola-lavoro», non consideri l’inglese la pietra filosofale dell’insegnamento, non si faccia sedurre, come invece avviene da anni, da qualunque materia abbia il sapore della modernità, inzeppandone i curriculum scolastici a continuo discapito di materie fondamentali come la letteratura, le scienze, la storia, la matematica. Con il bel risultato finale, lo può testimoniare chiunque, che oggi giungono in gran numero all’Università (all’università!) studenti incapaci di scrivere in italiano senza errori di ortografia o di riassumere correttamente la pagina di un testo: lo sanno il ministro e il suo entourage?
All’imbarbarimento che incombe sulle giovani generazioni si rimedia altresì creando nelle scuole un’atmosfera diversa da quella che vi regna ormai da anni. In troppe scuole italiane infatti - complici quasi sempre le famiglie e nel vagheggiamento di un impossibile rapporto paritario tra chi insegna e chi apprende - domina un permissivismo sciatto, un’indulgenza rassegnata. Troppo spesso è consentito fare il comodo proprio o quasi, si può tranquillamente uscire ed entrare dall’aula praticamente quando si vuole, usare a proprio piacere il cellulare, interloquire da pari a pari con l’insegnante. Ogni obbligo disciplinare è divenuto opzionale o quanto meno negoziabile, e l’autorità di chi si siede dietro la cattedra un puro orpello. Mentre su ogni scrutinio pende sempre la minaccia di un ricorso al Tar.
Quando ho sentito il presidente Renzi e il ministro Giannini annunciare una svolta, parlare di riforma, di «buona scuola», ho pensato che in qualche modo si sarebbe trattato di questi argomenti, si sarebbe affrontato almeno in parte questi problemi. E finalmente, magari, con uno spirito nuovo di concretezza, con una visione spregiudicata. In fondo il primo ha una moglie insegnante, mi sono detto, la seconda ha passato la sua vita nell’Università: qualcosa dovrebbero saperne. Invece niente. Prima di tutto e soprattutto i soldi e le assunzioni (bene), ma poi per il resto il solito chiudere gli occhi di fronte alla realtà, i soliti miraggi illusori per cui tutto è compatibile con tutto, per cui l’«autonomia» degli istituti invece di essere quella catastrofe che si è rivelata viene ancora creduta la panacea universale, la solita melassa di frasi fatte e mai verificate. E naturalmente mai uno scatto di coraggio intellettuale e politico, mai una vera volontà di cambiare, mai quell’idea alta e forte del Paese e della sua vicenda di cui la scuola dovrebbe rappresentare una parte decisiva, invece della disperata cenerentola che essa è, e che - ci si può scommettere - continuerà a essere.
«Corriere della sera» dell'8 marzo 2015