di Luigi Castagna
La casa editrice Castelvecchi di Roma pubblica ora nella collana «Ritratti» un vasto saggio (330 pagine) intitolato Augustus di John Buchan (noto qui che la stessa casa ha in catalogo un altro Augustus di tono più apertamente romanzesco di John Edward Williams). Ma torniamo a John Buchan. Scozzese di Perth (1875-1940), diplomatico e politico conservatore, avvocato, giornalista, storico, poeta e romanziere autore di spy-stories di grande successo. Forse potrebbe essere noto agli ammiratori del regista Hitchcock: questi nel 1935 traspose per il cinema il suo romanzo I 39 scalini, credo l’ultimo dei film del periodo inglese. Buchan fu uno straordinario poligrafo: autore di un centinaio di opere, fra cui trenta romanzi, sette raccolte di novelle, biografie di Walter Scott, Cromwell, oltre a quella di Augusto da cui abbiamo preso le mosse e a cui ora ritorniamo. Il tono del libro si coglie già nell’epigrafe iniziale, tratta da Plinio il giovane: Immensa Romanae pacis maiestas.
Con la figura di Ottaviano Augusto Buchan sembra essere in calda sintonia; nessuna ombra, nessuna riserva offusca l’ammirazione di Buchan per il suo personaggio. Ciò che Buchan vuole studiare è la mente di colui che fu il fondatore dell’impero romano, colui che chiuse il periodo della libera repubblica romana. Ecco le sue parole: «Questo libro non è che un tentativo di illuminare una piccola parte dell’animo di un grande uomo…». Nella sua opera mi è sembrato di vedere il tentativo di ritrovare le radici culturali e di potere dell’impero britannico, in anni nei quali l’estensione dell’impero britannico superava quella dell’antico impero romano (vedere L’impero britannico di Philippa Levine, Il Mulino). Questo confronto tra l’impero romano e l’impero britannico è spesso presente anche nella coscienza di studiosi anglosassoni più professionali e meno patriottici della storia romana: Ronald Syme, nel volume La rivoluzione romana (da poco riedito da Einaudi a cura di Giusto Traina), si chiese le ragioni per cui l’impero britannico fu di così breve durata in confronto a quello romano e si rispose che i Romani seppero per tempo cooptare membri delle classi dominanti delle terre dell’impero ai gradi più alti dell’amministrazione, fino all’Impero. Il confronto implicito tra Augusto e gli ultimi decenni di regno della regina Vittoria rende ragione di questa ammirazione da parte di Buchan per Augusto.
Quando l’autore sottolinea più volte nel corso degli anni il senso di responsabilità di Augusto, a costo di personali rinunce e sacrifici mi è venuta in mente la morale imperiale di Rudyard Kipling, che chiamava questa vocazione a sacrificarsi, ad assumersi il peso della responsabilità nei confronti del popoli assoggettati «il fardello dell’uomo bianco». A questa stessa impostazione risponde anche un’altra interessante visione del mondo di Augusto da parte di Buchan: colui che era allora governatore del Canada per conto della corona inglese interessa particolarmente i modi con cui Augusto conquistò gradualmente il potere e lo mantenne. La rigidità morale vittoriana trova un precedente nella cosiddetta restaurazione dei costumi che fa parte della legislazione augustea. C’è molto di falso ed ipocrita nella moralità vittoriana, con la quale convivevano schiere di prostitute nei vicoli bui di Londra, bambini ammalati per l’assenza di una fognatura efficiente: forse ogni volta che nel corso della storia si è cercato di ritornare per legge ad un passato di presunta purezza di costumi si è aperta la via all’ipocrisia ed alla censura di una realtà scomoda. Ma devo dire che Buchan dà l’impressione di essere sostanzialmente e forse ingenuamente in buona fede.
Con la figura di Ottaviano Augusto Buchan sembra essere in calda sintonia; nessuna ombra, nessuna riserva offusca l’ammirazione di Buchan per il suo personaggio. Ciò che Buchan vuole studiare è la mente di colui che fu il fondatore dell’impero romano, colui che chiuse il periodo della libera repubblica romana. Ecco le sue parole: «Questo libro non è che un tentativo di illuminare una piccola parte dell’animo di un grande uomo…». Nella sua opera mi è sembrato di vedere il tentativo di ritrovare le radici culturali e di potere dell’impero britannico, in anni nei quali l’estensione dell’impero britannico superava quella dell’antico impero romano (vedere L’impero britannico di Philippa Levine, Il Mulino). Questo confronto tra l’impero romano e l’impero britannico è spesso presente anche nella coscienza di studiosi anglosassoni più professionali e meno patriottici della storia romana: Ronald Syme, nel volume La rivoluzione romana (da poco riedito da Einaudi a cura di Giusto Traina), si chiese le ragioni per cui l’impero britannico fu di così breve durata in confronto a quello romano e si rispose che i Romani seppero per tempo cooptare membri delle classi dominanti delle terre dell’impero ai gradi più alti dell’amministrazione, fino all’Impero. Il confronto implicito tra Augusto e gli ultimi decenni di regno della regina Vittoria rende ragione di questa ammirazione da parte di Buchan per Augusto.
Quando l’autore sottolinea più volte nel corso degli anni il senso di responsabilità di Augusto, a costo di personali rinunce e sacrifici mi è venuta in mente la morale imperiale di Rudyard Kipling, che chiamava questa vocazione a sacrificarsi, ad assumersi il peso della responsabilità nei confronti del popoli assoggettati «il fardello dell’uomo bianco». A questa stessa impostazione risponde anche un’altra interessante visione del mondo di Augusto da parte di Buchan: colui che era allora governatore del Canada per conto della corona inglese interessa particolarmente i modi con cui Augusto conquistò gradualmente il potere e lo mantenne. La rigidità morale vittoriana trova un precedente nella cosiddetta restaurazione dei costumi che fa parte della legislazione augustea. C’è molto di falso ed ipocrita nella moralità vittoriana, con la quale convivevano schiere di prostitute nei vicoli bui di Londra, bambini ammalati per l’assenza di una fognatura efficiente: forse ogni volta che nel corso della storia si è cercato di ritornare per legge ad un passato di presunta purezza di costumi si è aperta la via all’ipocrisia ed alla censura di una realtà scomoda. Ma devo dire che Buchan dà l’impressione di essere sostanzialmente e forse ingenuamente in buona fede.
«Avvenire» del 3 agosto 2014
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