di Massimo Onofri
Primo maggio 1887: nasce Nazareno Caldarelli (il nome autentico di Vincenzo Cardarelli). Pensate a una casa «esposta a mare, nel punto più alto del paese», allora Corneto, oggi Tarquinia, alta Tuscia, in provincia di Viterbo. Immaginatevi il povero buffet della stazione. Il gerente di quel locale è Antonio Romagnoli, commerciante di origini marchigiane, il padre di Vincenzo: che, abbandonato dalla compagna, Giovanna Caldarelli, si trovò a crescere un figlio offeso da una menomazione al braccio sinistro. A badare a Vincenzo con grande tenerezza sarà la nuova moglie del genitore, una donna del Nord: per pochi anni soltanto però, perché una morte crudelissima gliela strappò.
Solo un bambino ipersensibile, un poeta di natura, così precocemente punito dalla vita, avrebbe potuto scrivere, nella sua altrettanto amara maturità, l’incipit di una delle più belle poesie d’amore del Novecento.
Sto parlando di Attesa: «Oggi che t’aspettavo / non sei venuta. / E la tua assenza so quel che mi dice, / la tua assenza che tumultuava, / nel vuoto che hai lasciato, / come una stella. / Dice che non vuoi amarmi». Si potrebbe aggiungere che sta forse proprio qui, in questo idillio subito infranto dell’infanzia («precoci tristezze e indefinibili nostalgie»), la radice dell’ambivalente rapporto che Cardarelli ebbe col natio borgo selvaggio: vagheggiato– e mitizzato – come la capitale di un’Etruria favolosa, struggente e civilissima; odiato per i suoi concittadini, sino al risentimento e all’invettiva. E così profondo, come rapporto, che non riuscirà a privarsi quasi mai della gioia del ritorno, ogni anno per il suo compleanno. Poteva essere diversamente, del resto, per uno che aveva sempre detto di rispettare, sopra ogni cosa, “il limite” e, nello stesso tempo, di non conoscere alcun limite?
Ecco: una Tarquinia amata come nessun altro posto del mondo, ma sempre a ridosso d’un binario su cui sferragliare lontano e velocemente, «come un ignoto, come un traditore». Favoleggiata, Tarquinia, dentro un’ipotesi genetica – di genesi della civiltà, vorrei dire – che è stato il modo letteratissimo, per Cardarelli, di reinventarsi quell’identità che gli era stata rubata da subito: e di reinventarsela antica e nobile, come quella di tutto un popolo, bello e misterioso, ma estinto. Sentite qua; son parole degli inizi degli anni Venti, una volta citatissime, ma che oggi non ricorda quasi più nessuno: «Qui rise l’Etrusco, un giorno, coricato, cogli occhi a fior di terra, guardando la marina. E accoglieva nelle sue pupille il multiforme e silenzioso splendore della terra fiorente e giovane, di cui aveva succhiato il mistero gaiamente, senza ribrezzo e senza paura, affondandoci le mani e il viso». Finché, rapaci e violenti, uomini di guerra spicci e senza gentilezza, non giunsero i Romani che l’Etrusco presero alle spalle, mentre lavorava senza sospetto, per rimanere «come seppellito nella propria favola luminosa».
Ora, nell’entroterra, alle spalle del paese turrito edificato nel Medioevo, «urbano e campagnolo », affacciato sul mare, si estende e allarga la necropoli che di quel popolo custodisce il segreto, serbandone, coi suoi colori tenui, il ricordo “soave”, mentre la terra, quando la sfiorano in primavera certe “ariette” di settentrione, «non fiorisce più che di asfodeli».
È da quel pianoro di morti disertato dagli uomini, che Cardarelli contemplava, qualche volta ferocemente irridendola, la vita che formicolava nel suo paese maremmano, quella che si svolgeva intorno agli «ariosi e secolari palazzacci pontifici carichi di stemmi e di sacre chiavi», ormai «ridotti a caciare e magazzini», là dove, subito fuori le mura castellane, nella «campagna atra e disabitata», «il bifolco, arando e cantando alla pianura, lamenta la sua porca vita». È così, che su straducole sempre polverose, le rade e villiche casupole, gli orti le vigne le fienare e i cannati, le officine (facocchi, magnani, maniscalchi), e poi le donne che stendono il bucato sui prati, trovano quella che Cardarelli chiama la sua “deserta poesia”. Sotto quei cieli azzurri e straziati in cui svariano, d’estate, rondoni e colombi, o i gabbiani di una sua memorabile lirica, un’altra declinazione del bisogno di fuga, di libertà: «Non so dove i gabbiani abbiano il nido, / ove trovino pace. / Io son come loro, / in perpetuo volo. / La vita la sfioro / com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo. / E come forse anch’essi amo la quiete, / la gran quiete marina, / ma il mio destino è vivere / balenando in burrasca». Già, la perpetua burrasca della sua vita: che gli lasciò, irreparabile, il sentimento che tutto si fosse svolto troppo rapidamente, che tutto gli fosse troppo rapidamente sfuggito di mano: «Ride l’infanzia un attimo e già ha qualche cosa da rimpiangere e dimenticare. Gli inganni della vita, dalla gioventù in poi, non sono che rimedi, sempre meno efficaci, finché l’uomo non arrivi al punto da trovarsene sazio e disgustato».
Solo un bambino ipersensibile, un poeta di natura, così precocemente punito dalla vita, avrebbe potuto scrivere, nella sua altrettanto amara maturità, l’incipit di una delle più belle poesie d’amore del Novecento.
Sto parlando di Attesa: «Oggi che t’aspettavo / non sei venuta. / E la tua assenza so quel che mi dice, / la tua assenza che tumultuava, / nel vuoto che hai lasciato, / come una stella. / Dice che non vuoi amarmi». Si potrebbe aggiungere che sta forse proprio qui, in questo idillio subito infranto dell’infanzia («precoci tristezze e indefinibili nostalgie»), la radice dell’ambivalente rapporto che Cardarelli ebbe col natio borgo selvaggio: vagheggiato– e mitizzato – come la capitale di un’Etruria favolosa, struggente e civilissima; odiato per i suoi concittadini, sino al risentimento e all’invettiva. E così profondo, come rapporto, che non riuscirà a privarsi quasi mai della gioia del ritorno, ogni anno per il suo compleanno. Poteva essere diversamente, del resto, per uno che aveva sempre detto di rispettare, sopra ogni cosa, “il limite” e, nello stesso tempo, di non conoscere alcun limite?
Ecco: una Tarquinia amata come nessun altro posto del mondo, ma sempre a ridosso d’un binario su cui sferragliare lontano e velocemente, «come un ignoto, come un traditore». Favoleggiata, Tarquinia, dentro un’ipotesi genetica – di genesi della civiltà, vorrei dire – che è stato il modo letteratissimo, per Cardarelli, di reinventarsi quell’identità che gli era stata rubata da subito: e di reinventarsela antica e nobile, come quella di tutto un popolo, bello e misterioso, ma estinto. Sentite qua; son parole degli inizi degli anni Venti, una volta citatissime, ma che oggi non ricorda quasi più nessuno: «Qui rise l’Etrusco, un giorno, coricato, cogli occhi a fior di terra, guardando la marina. E accoglieva nelle sue pupille il multiforme e silenzioso splendore della terra fiorente e giovane, di cui aveva succhiato il mistero gaiamente, senza ribrezzo e senza paura, affondandoci le mani e il viso». Finché, rapaci e violenti, uomini di guerra spicci e senza gentilezza, non giunsero i Romani che l’Etrusco presero alle spalle, mentre lavorava senza sospetto, per rimanere «come seppellito nella propria favola luminosa».
Ora, nell’entroterra, alle spalle del paese turrito edificato nel Medioevo, «urbano e campagnolo », affacciato sul mare, si estende e allarga la necropoli che di quel popolo custodisce il segreto, serbandone, coi suoi colori tenui, il ricordo “soave”, mentre la terra, quando la sfiorano in primavera certe “ariette” di settentrione, «non fiorisce più che di asfodeli».
È da quel pianoro di morti disertato dagli uomini, che Cardarelli contemplava, qualche volta ferocemente irridendola, la vita che formicolava nel suo paese maremmano, quella che si svolgeva intorno agli «ariosi e secolari palazzacci pontifici carichi di stemmi e di sacre chiavi», ormai «ridotti a caciare e magazzini», là dove, subito fuori le mura castellane, nella «campagna atra e disabitata», «il bifolco, arando e cantando alla pianura, lamenta la sua porca vita». È così, che su straducole sempre polverose, le rade e villiche casupole, gli orti le vigne le fienare e i cannati, le officine (facocchi, magnani, maniscalchi), e poi le donne che stendono il bucato sui prati, trovano quella che Cardarelli chiama la sua “deserta poesia”. Sotto quei cieli azzurri e straziati in cui svariano, d’estate, rondoni e colombi, o i gabbiani di una sua memorabile lirica, un’altra declinazione del bisogno di fuga, di libertà: «Non so dove i gabbiani abbiano il nido, / ove trovino pace. / Io son come loro, / in perpetuo volo. / La vita la sfioro / com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo. / E come forse anch’essi amo la quiete, / la gran quiete marina, / ma il mio destino è vivere / balenando in burrasca». Già, la perpetua burrasca della sua vita: che gli lasciò, irreparabile, il sentimento che tutto si fosse svolto troppo rapidamente, che tutto gli fosse troppo rapidamente sfuggito di mano: «Ride l’infanzia un attimo e già ha qualche cosa da rimpiangere e dimenticare. Gli inganni della vita, dalla gioventù in poi, non sono che rimedi, sempre meno efficaci, finché l’uomo non arrivi al punto da trovarsene sazio e disgustato».
«Avvenire» del 12 agosto 2014
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