05 luglio 2014

Senza metamorfosi non c’è identità

I miti classici raccolti da Ovidio nel suo poema c’insegnano come sia illusorio pensare di conservare le proprie radici. Elevando barriere che ci mettano al riparo dal mutamento
di Umberto Curi
Come si diventa ciò che si è? In un mondo quale è il nostro, la risposta abituale sembra essere intuitiva. Poiché tutto intorno a noi cambia incessantemente, e con ritmo crescente, l’unica strada per tutelarci consiste nel preservare la nostra identità, mettendola al riparo da ogni mutamento. Si spiegano così alcuni fenomeni, altrimenti incomprensibili, legati alla riproposizione di slogan, modelli di comportamento, stili di vita attinti alla tradizione. E si spiega così anche la fortuna di alcuni movimenti politici, in Italia e in Europa, la cui ragion d’essere principale è una diffusa paura del nuovo e del diverso. Assai più che in passato, al giorno d’oggi la prospettiva del cambiamento, l’idea stessa della metamorfosi, suscita reazioni contrastanti, per lo più ispirate al rifiuto e alla rimozione.
In tale contesto, la nuova edizione Rizzoli delle Metamorfosi di Ovidio, con la traduzione interessante e «spericolata» di Vittorio Sermonti, sembra procedere in controtendenza. Tanto più perché il poema si presenta come una grandiosa raccolta di miti antichi: «racconti» considerati poco adatti all’esigenza dell’uomo contemporaneo, perché frutto di immaginazione e dunque privi di ogni attendibilità.
In effetti, pochi altri temi sembrano differenziare il moderno dall’antico, come l’atteggiamento verso il mito. Perfino sotto il profilo linguistico, la tendenza rimasta a lungo prevalente è quella di contrapporre mythos e logos, come espressioni rispettivamente di una narrazione fittizia, e perciò anche «irrazionale», e di un ragionamento rigorosamente logico. Curioso è notare lo scarso, o nullo, fondamento filologico di una distinzione così assiomatica. Fra Omero e Platone, e dunque per quasi 5 secoli, i termini impiegati per indicare la «parola» sono ben nove, ciascuno con una specifica sfumatura di significato. Fra essi, a differenza di ciò che abitualmente si pensa, mythos è la parola vera e autoritativa, quella che indica il reale, l’oggettivo, mentre logos (da leghein: scegliere, raccogliere) è la parola ponderata, usata per convincere. Come è confermato dal fatto che nei poemi omerici le parole usate da Ulisse, idonee a ingannare, sono dette logoi, mentre le parole pronunciate da Priamo, circondate dall’autorità del re, sono mythoi. D’altra parte, già a partire da Aristotele, polemico verso il ricorso al mito nei dialoghi platonici, il significato originario è stato rovesciato, e si è perciò presentata la nascita della filosofia come un graduale affrancamento della luce della razionalità dalle oscurità indecifrabili del mito. È stato necessario un lungo e accidentato percorso, avviato con gli scritti di Francesco Bacone e di Giambattista Vico, perché si sviluppasse una vera e propria scienza del mito, capace di valorizzare adeguatamente il significato delle fabulae antiche.
Si è così chiarito che, anziché essere considerato come testimonianza fossile dell’infanzia dell’umanità, o indizio di primitivismo culturale, il mito doveva essere interpretato come un «testo» pregnante e complesso, per la cui appropriata comprensione s’impone un approccio multidisciplinare. Come ha sottolineato Marcel Detienne, uno dei maggiori studiosi del mito, si dovrebbe ormai mettere tra parentesi l’idea del mito come genere letterario o racconto fantastico, e scoprire «la varietà delle produzioni affidate alla memoria: proverbi, racconti, genealogie, cosmogonie, epopee, canti d’amore o di guerra».
Il più ricco repertorio di miti antichi in lingua latina è costituito dai 15 libri delle Metamorfosi di Ovidio, la cui composizione risale ai primi anni dell’era volgare, mentre per trovare un corrispettivo in lingua greca è d’obbligo riferirsi all’opera convenzionalmente intitolata Biblioteca, della quale, oltre al nome dell’autore, si ignora anche la data di stesura. Ma, mentre nell’opera greca è più evidente l’intento classificatorio, il poema latino si segnala non solo come capolavoro poetico, non abbastanza valorizzato, ma anche come testo di grande e inesplorato rilievo filosofico.
Al centro dell’opera ovidiana è la nozione che compare nel titolo, non casualmente lasciata in greco dal poeta di Sulmona. Infatti, morphé non è la forma in senso latino. È, invece, ciò che appare, quello che si offre alla visione. In quanto tale, la morphé si distingue dalla sostanza: ne rappresenta una delle possibili manifestazioni, uno fra i modi in cui essa può rendersi visibile. Si comprende, allora, per quali ragioni, ricondotta al suo etymon (e dunque a ciò che è «vero» di un termine), la meta-morphosis non indichi affatto un mutamento sostanziale, ma alluda piuttosto ad un cambiamento nel modo di apparire. Così, nel poema di Ovidio, ciò che i personaggi descritti diventano attraverso la metamorfosi non è in contraddizione, ma in continuità, con la loro natura, nel senso specifico che ciò che essi sono per nascita può manifestarsi in un modo o nell’altro, senza che questa transizione implichi un mutamento di identità. Da questo punto di vista, il concetto stesso di metamorfosi, mentre sottolinea il cambiamento della morphé, presuppone la conservazione di una identità che si manifesta appunto in maniera morfo-logicamente differente.
Questa dialettica di alius e idem emerge per esempio nella prima metamorfosi descritta da Ovidio, quella del re dell’Arcadia, uccisore degli ospiti, introdotto come notus feritate Lycaon. La duplicità di espressioni con cui può manifestarsi la natura del personaggio è già implicita nella definizione con la quale egli è subito presentato, dove la feritas può appunto esprimersi come ferocia dell’uomo, ma al tempo stesso come carattere latentemente ferino, reso manifesto dal processo metamorfico. Nella trasformazione di Licaone in lupo (che sotto il profilo linguistico si presenta come passaggio da Lykaon a lykos), il carattere della ferocia costituisce il ponte fra l’uomo e l’animale. Licaone non si trasforma in lupo. Egli è già lupo (almeno nel nome) e la metamorfosi non fa che restituirgli un aspetto con-forme alla sua genuina natura.
Un ragionamento simile si può fare anche per un altro grande mito raccontato nel poema, al quale si richiama lo stesso Sermonti nella breve introduzione. Attraverso la metamorfosi, tanto Narciso quanto Eco diventano ciò che già sono: riflesso visivo il primo, risonanza acustica la seconda. Le loro definitive trasformazioni, rispettivamente in un delicato fiore acquatico e in una roccia capace di rimandare il suono di una voce, suggellano un processo in cui il mutamento di forma è funzionale alla conquista della propria vera identità. In questa affascinante rappresentazione delle forme in movimento, un punto centrale dovrebbe essere inteso ancor oggi come un monito. Per essere compiutamente se stessi, è vitale e insostituibile il rapporto, in qualunque modo declinato, con l’altro da sé. Senza metamorfosi, nessuna identità.
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» del giugno 2014

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