30 luglio 2014

Salvare i disabili dalla solitudine

A dirigenti, docenti e famiglie serve un approccio pragmatico, non miracolistico
di Fulvio Ervas
Ci sono 100 mila insegnanti di sostegno per oltre 200 mila studenti con disabilità. Più di un terzo però sono precari e questo crea forte spaesamento. La continuità è necessaria
Novecento e più teste, il doppio di occhi e il quadruplo di mani e piedi sciamano, all’intervallo, dalle aule e inondano l’istituto. Se osservate con un po’ di attenzione vedrete, nel flusso, una carrozzella, un ragazzino che sfreccia come un’antilope nei giorni di festa, un altro che lancia mille volte nell’aria una palla rosso vivo, una ragazza che avanza come danzando su strane melodie. Hanno tutti un nome. E un vissuto speciale: disabilità. I dati del Miur (il ministero dell’Istruzione) indicano, per l’anno scolastico 2012-13, 222.917 studenti con disabilità: 205.096 frequentano istituti statali e 17.821 istituti non statali. Il rapporto percentuale ci dice che nelle strutture statali ci sono 2,7 alunni con disabilità ogni cento alunni e 1,5 nelle strutture non statali. Nel conteggio totale degli alunni con disabilità sono compresi 24.139 stranieri (22.854 nelle scuole statali e 1.285 in quelle non statali).
I dati (che sembrano non avere odore) raccontano che la disabilità scolastica è una questione pubblica. La contabilità non è secondaria. Il numero di insegnanti di sostegno, per esempio: 62.016 a tempo indeterminato e 39.249 a tempo determinato (in questo ambito la precarietà, dove si era creata una buona relazione con lo studente, è fonte di grande spaesamento). Quindi un docente di sostegno ogni due ragazzi con disabilità. Circa.
Segnali di miglioramento nell’ultimo decennio, secondo il giudizio del Miur. Sembrerebbe l’auspicabile direzione di un grande percorso, prima che scolastico, civile. E però, con oltre 100 mila posti di lavoro in gioco, si potrebbe, malevolmente, sostenere che la disabilità sia una «risorsa» prima di tutto per l’occupazione scolastica. No, qui, non stiamo parlando di stipendi, ma di indicatori di civiltà. La qualità della condizione di studente, per questi nostri cittadini, è l’ago che può pungere, e sgonfiare, molte delle nostre presunzioni di progresso. Per questo, ogni operatore che abbia contribuito a livellare ostacoli e a far vivere la scuola come un’esperienza positiva per i ragazzi con disabilità, ha aggiunto un chilo di cemento nella costruzione dell’impalcatura civile della società.
Tutto bene? No, i lamenti non mancano. Le insoddisfazioni nemmeno. La percezione, pur diversissima da un’area regionale all’altra, sia dell’utenza, sia degli operatori scolastici, non è positivamente omogenea. Alle volte è negativa: copertura del sostegno incompleta, rotazione eccessiva dei docenti, aspettative astronomiche delle famiglie e, va detto, anche mancata formazione specifica per le diverse disabilità. Si attorcigliano aspettative personali (e contingenti) con le dinamiche dei sistemi «a grandi numeri»: le due velocità spesso sono spaiate. Qualcuno, prima o poi, vedrà il sol dell’avvenir. Qualcuno, qui e ora, patisce.
Ho fatto, sto facendo, esperienza di insegnamento con studenti «speciali», in un liceo, il Luigi Stefanini di Venezia Mestre, che tradizionalmente accoglie il maggior numero di questi alunni rispetto all’intera provincia di Venezia. L’utenza iscrive i propri figli in questo istituto attratta da un passaparola positivo tra le famiglie. L’istituto, in molti anni, è diventato un campo di forze che modella l’ambiente scolastico, in senso ecologico, discretamente favorevole all’adattamento di questi studenti. Molti hanno potuto avere, per davvero, un’esperienza umana evolutiva e soddisfacente. Si sono sentiti accettati, inclusi, non in occasione della giornata del volontariato, ma per sei giorni alla settimana, per nove mesi, per cinque anni, gite scolastiche incluse. Questi ragazzi pativano le vacanze natalizie ed estive come una condanna. Per affrontare la quotidianità con questi alunni reali si devono combinare alcune grandezze: un bravo dirigente, insegnanti di sostegno formati e motivati, consigli di classe non disattenti, famiglie che abbiano macinato la rabbia o la rassegnazione (tutte umanamente comprensibili ma inefficaci), alunni emotivamente distanti dal supermachismo.
Strategica è la presenza di un dirigente capace, possibilmente refrattario a facili ipocrisie: eviterà di millantare roboanti interventi, avrà coscienza che per certe disabilità (soprattutto importanti deficit intellettivi) la scuola può ottenere poco, pur agendo con costanza e onestà. Un bravo dirigente conosce la validità del proprio nucleo di docenti di sostegno e sa quale efficacia possa avere il loro intervento; conosce i consigli di classe e sa dove il lavoro di inclusione si avvii spontaneamente e dove bisognerà vigilare «armati»; dialoga con le famiglie, ne monitora i bisogni e le aspettative e segue la realizzazione degli obiettivi concretamente ottenibili in quello specifico istituto.
È un formidabile aiuto l’atteggiamento delle famiglie dei ragazzi con disabilità, che va, in ogni caso, considerato con tutto il rispetto possibile. La sinergia migliore si ottiene quando la famiglia non viva la scuola come una sorta di Lourdes laica, il luogo dei miracoli, dove l’impegno dell’istituzione debba (e possa) effettivamente compensare tutte le carenze manifeste nel figlio. I genitori con buona capacità di giudizio comprendono che la scuola offre dosi, non proprio omeopatiche, contro la solitudine dei figli, che li mantiene dentro a un mondo di relazioni, di stimoli, che offre un sostegno didattico, alle volte migliorabile, certo, ma non privo di possibilità di allenamento intellettuale: offre un confronto con molte figure adulte, una organizzazione parziale del tempo, un percorso di conoscenze. Anche un sorriso. Anche una rampogna, alle volte.
Come si arriva a far funzionare decentemente le cose? Aspettando direttive e risorse dall’alto? Ponendo infiniti quesiti al Miur su Disturbi Specifici di Apprendimento e, in aggiunta da quest’anno, sui Bisogni Educativi Speciali? Compilando meravigliosi e, poi, disattesi Piani Educativi Individualizzati e Piani Didattici Personalizzati? Perché no? In sincronia con un Paese che ama categorizzare e che considera già realizzato ciò che è stato, appena, scarabocchiato. Tuttavia la precondizione, decisiva, è che si parta individualmente dalla convinzione che nella scuola, come nella sanità, ovunque vi sia una funzione di servizio verso il cittadino, è vitale essere dei buoni insegnanti, non vergognandosi di mirare all’eccellenza. Senza una «massa critica» di capacità, dal basso, resteranno solo manciate di sigle. E cittadini infuriati. Se le cose funzionano, quando non prevale l’unità di misura del miracolo o dell’indifferenza, si costruisce un terreno non conflittuale, dove accade, addirittura, di dirsi grazie. «Grazie per quello che avete fatto per mio figlio in questi anni» è la mail di una madre che vale cinquecento aumenti di stipendio offerti, con spritz e noccioline, dal Miur.

P.S.: D’accordo, la tassonomia delle disabilità sarà necessaria. Però, a me, piace chiamarli per nome ...
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» dell'11 maggio 2014

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