23 luglio 2014

Quel dovere di proteggere

Spinge l’Onu la sentenza sull’eccidio di Srebrenica
di Andrea Lavazza
Avevano la «responsabilità di proteggere», anche se quest’espressione è entrata nel lessico dell’Onu solo qualche anno dopo. E, non avendola onorata, sono responsabili della morte di 300 bosniaci musulmani al cui prelevamento dalla loro base non si opposero di fronte alle forze serbo-bosniache che assediavano Srebrenica. La sentenza di un tribunale civile olandese che condanna lo Stato per il comportamento omissivo dei propri Caschi Blu a Srebrenica nel 1995 segna, soprattutto simbolicamente, un punto importante per le missioni internazionali di interposizione o di pace. Non sarà il risarcimento monetario alle famiglie a mutare i contorni e la memoria della peggiore strage genocidaria d’Europa dal 1945, quando in poche settimane 8.372 uomini e ragazzi furono trucidati nel piano di pulizia etnica messo in atto dalle truppe del generale Mladic.
Ciò che conta è il principio confermato (c’era stata una prima sentenza in settembre che riguardava tre civili uccisi negli stessi giorni) secondo cui i soldati sotto mandato delle Nazioni Unite hanno precisi doveri di azione per salvare le persone sulle quali sono chiamati a vigilare. Il diritto prevede dettagliate fattispecie e precise circostanze, per cui il verdetto riguarda soltanto la sorte di coloro che furono provvisoriamente accolti nel compound dei Caschi Blu e non le migliaia di sfollati nei boschi, per i quali i pochi e male equipaggiati militari olandesi poco avrebbero potuto fare. Il punto è che una «responsabilità (positiva) di proteggere» esiste e va concretamente declinata, pena l’assunzione di responsabilità negativa di fronte alle Corti di giustizia.
Un segnale e una lezione per l’intera Organizzazione delle Nazioni Unite, capace dopo le tragedie del Ruanda e dei Balcani, segnate da ritardi e inerzie collettive, di elaborare una nuova cornice giuridica (o, meglio, di riattualizzare l’antico ius gentium che il domenicano Francisco de Vitoria aveva sviluppato in questa chiave) per fare fronte a «violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani che offendono ogni precetto della nostra comune umanità», come disse nel 2000 Kofi Annan.
Si è così passati dall’intervento umanitario, sempre esposto all’accusa di violare la sovranità degli Stati, alla responsabilità di proteggere, una responsabilità collettiva internazionale che spetta al Consiglio di Sicurezza Onu esercitare, la quale autorizza anche l’intervento militare come ultima risorsa, quando i governi si dimostrino incapaci o renitenti ad agire a difesa delle popolazioni. Un principio accettato formalmente nel 2005 e però strumentalizzato o non impiegato secondo gli equilibri di potere nei casi della Libia (2011), nel quale si autorizzarono i bombardamenti dagli esiti noti, e della Siria (2012), in cui invece mancò un accordo per provare a frenare i massacri. Meno controverse le applicazioni per le missioni in Darfur, Costa D’Avorio e Sud Sudan, sebbene l’entità e l’adeguatezza dei mezzi impiegati non siano mai state all’altezza delle necessità.
«L’azione della comunità internazionale e delle sue istituzioni, supposto il rispetto dei principi che sono alla base dell’ordine internazionale, non deve mai essere interpretata come un’imposizione indesiderata e una limitazione di sovranità. Al contrario, sono l’indifferenza o la mancanza di intervento che recano danno reale», ribadì Benedetto XVI nel suo discorso all’Assemblea generale dell’Onu nell’aprile del 2008, richiamando quel principio non tanto in chiave militare, ma sottolineando che «ciò di cui vi è bisogno e una ricerca più profonda di modi di prevenire e controllare i conflitti, esplorando ogni possibile via diplomatica».
La sentenza olandese di ieri non sposterà gli equilibri diplomatici, al massimo allarmerà qualche nazione, rendendola più cauta nell’inviare proprie truppe in scenari di peace-keeping, ovvero di azioni per il mantenimento della pace, nel timore di vedersi poi rinfacciare e sanzionare comportamenti non adeguati (sebbene la vicenda, a onore dell’Olanda, sia stata una "riparazione" tutta interna). Rimane, tuttavia, il monito che la concretezza e l’operatività del diritto che agisce a livello dei singoli (o non delle nazioni) impone alla coscienza e all’efficienza della comunità internazionale. La responsabilità di proteggere va esercitata tempestivamente ed efficacemente a tutela delle persone minacciate e non a promozione di interessi di parte.
Non ci si può sgravare di quella responsabilità con un battaglione chiuso in un recinto mentre all’esterno si compie un genocidio, come è avvenuto in Bosnia (e accade anche quando nemmeno si prova a intervenire, come succede in molte parti del mondo, seppure su scala più ridotta). Così facendo, invece, ci si assume un altro tipo di responsabilità, che equivale a una colpa precisa: quella della complicità involontaria ma consapevole.
«Avvenire» del 17 luglio 2014

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