di Nadia Urbinati
Un commento a quest'articolo è stato scritto da Luigino Bruni il 23 luglio 2014.
La vicenda dell'insegnante messa sotto inchiesta dalla madre superiora di una scuola privata di orientamento cattolico e parificata non ha dell'incredibile. È incredibile che ci si stupisca e si continui a sostenere — come da anni si fa — che la scuola pubblica comprende sia le scuole statali sia quelle private parificate. Il pubblico è uno, dicono i sostenitori del finanziamento pubblico alle scuole private per raggirare l'Art. 33 della Costituzione che afferma chiaramente essere le scuole private libere e "senza oneri per lo Stato". I retori che non vedono di buon occhio questa norma hanno sofisticamente ridefinito il pubblico e... abracadabra, ecco che tutte le scuole paritarie sono pubbliche come quelle statali! All'insegnante (che per proteggere l'anonimato si presenta come Silvia) la madre superiora della scuola cattolica in questione ha detto di voler verificare le "voci secondo le quali lei aveva una compagna". Poiché era suo dovere «tutelare questo istituto cattolico" se quelle voci fossero state fondate allora il suo contratto sarebbe stato a rischio (l'insegnante ha un contratto annuale rinnovabile). Perché è quanto meno irragionevole stupirsi?
Questo caso ci fa toccare con mano la tensione non facilmente sanabile tra scuola privata identitaria e scuola pubblica: la prima selettiva proprio per garantire la propria libertà di continuare a essere identitaria; la seconda aperta a tutti gli insegnati che lo meritano (e qui il merito è misurato con norme e regole pubbliche uguali per tutti) e per tutti gli allievi che lo vogliono (o che i loro genitori vogliono, nel caso si tratti di minori). Indubbiamente la suora nella storia di questi giorni ha le sue buone ragioni a voler "tutelare" l'istituto cattolico. Nulla da eccepire: ai cattolici non si può chiedere di approvare l'aborto o l'omosessualità o le scelte libere in materia di morale. C'è una dottrina della Chiesa e nessun cattolico praticante può prendere in mano la propria volontà e scegliere secondo la propria coscienza. Appartenere a una chiesa implica accettare dei vincoli, senza di che l'identità si diluisce e tutto diventa simile.
Ma che cosa succede se la scuola cattolica che vuole preservare la propria identità riceve soldi pubblici? Soldi che vengono cioè da tutti, non solo dai cattolici, e soprattutto che sono e devono essere distribuiti tenendo fede alla Costituzione e non al dettato della Chiesa? Succede che la scuola cattolica deve essere costretta a perdere la propria identità. Il paradosso è chiaro: la difesa dell'identità è un diritto della scuola privata che però non può essere finanziato con i soldi pubblici. Le scuole private che accettano di ricevere i soldi dello Stato devono sottostare alle stesse norme delle scuole pubbliche vere. Certo, questo urta contro la loro libertà. Certo, questo rischia di far perdere loro l'indentità. Si comprende quanto sia sofistico e ipocrita l'argomento che vuole che tutte le scuole siano pubbliche (statali e paritarie): per amore dei soldi si baratta la libertà — salvo sperare che in un paese dove il 95% dei cittadini è di formazione cattolica non si sia costretti a barattare proprio nulla. E invece ...
Succede che la libertà individuale che la Costituzione difende dà alle persone l'opportunità di vivere le proprie scelte senza che nessuno (non lo stato, non il datore di lavoro se pubblico) interferisca con il loro contenuto — purché si rispetti la libertà altrui e la legge, lo Stato non può interferire con le scelte del singolo. Ma una chiesa e una scuola che ad essa vuole restare fedele può interferire e in qualche modo è prevedibile che lo faccia. E quindi, se davvero le scuole private vogliono onorare e difendere la loro libertà di esistere e prosperare devono avere la forza di farlo con le proprie risorse: questa loro autonomia è garanzia e segno della loro libertà. Diversamente, quanto successo all'insegnante Silvia non deve succedere. Delle due l'una: o una scuola privata confessionale vuole i soldi pubblici o vuole proteggere la propria libertà e identità. Le due cose non stanno insieme e lo si vede proprio in casi come questo, quando si apre un conflitto tra libertà della scuola e libertà del singolo. Quale delle due deve prevalere in caso di conflitto? Lo Stato ha il dovere di essere al fianco del singolo sempre, soprattutto nei casi in cui questo si trova ad essere sfidato dalla direzione scolastica dell'istituto dove lavora con incarico annuale. I diritti servono a proteggere non chi ha potere, ma chi non ce l'ha.
I soldi pubblici alle scuole private devono quindi essere condizionati da limiti inderogabili: come il rispetto dei diritti eguali, ovvero della libertà del singolo. Ciò significa, per esempio, che la scuola privata se vuole ricevere finanziamenti dallo Stato deve attingere alle graduatorie pubbliche degli insegnanti e non scegliere a discrezione. Ma attingere a graduatorie pubbliche può voler dire che un insegnante mussulmano possa essere chiamato ad insegnare in una scuola cattolica, o vice versa. Un'eventualità insopportabile e che prova quanto oneroso sia per il privato prendere soldi pubblici.
Dunque chi sono i veri amici della libertà dell'offerta educativa, coloro che chiedono soldi pubblici o coloro che pensano che le scuole private debbano sostenersi autonomamente? Ai sostenitori delle scuole parificate sembra impensabile che il denaro pubblico comporti questa "limitazione" di libertà — e hanno ragione. Per questo dovrebbero rifiutare i soldi dello Stato.
La vicenda dell'insegnante messa sotto inchiesta dalla madre superiora di una scuola privata di orientamento cattolico e parificata non ha dell'incredibile. È incredibile che ci si stupisca e si continui a sostenere — come da anni si fa — che la scuola pubblica comprende sia le scuole statali sia quelle private parificate. Il pubblico è uno, dicono i sostenitori del finanziamento pubblico alle scuole private per raggirare l'Art. 33 della Costituzione che afferma chiaramente essere le scuole private libere e "senza oneri per lo Stato". I retori che non vedono di buon occhio questa norma hanno sofisticamente ridefinito il pubblico e... abracadabra, ecco che tutte le scuole paritarie sono pubbliche come quelle statali! All'insegnante (che per proteggere l'anonimato si presenta come Silvia) la madre superiora della scuola cattolica in questione ha detto di voler verificare le "voci secondo le quali lei aveva una compagna". Poiché era suo dovere «tutelare questo istituto cattolico" se quelle voci fossero state fondate allora il suo contratto sarebbe stato a rischio (l'insegnante ha un contratto annuale rinnovabile). Perché è quanto meno irragionevole stupirsi?
Questo caso ci fa toccare con mano la tensione non facilmente sanabile tra scuola privata identitaria e scuola pubblica: la prima selettiva proprio per garantire la propria libertà di continuare a essere identitaria; la seconda aperta a tutti gli insegnati che lo meritano (e qui il merito è misurato con norme e regole pubbliche uguali per tutti) e per tutti gli allievi che lo vogliono (o che i loro genitori vogliono, nel caso si tratti di minori). Indubbiamente la suora nella storia di questi giorni ha le sue buone ragioni a voler "tutelare" l'istituto cattolico. Nulla da eccepire: ai cattolici non si può chiedere di approvare l'aborto o l'omosessualità o le scelte libere in materia di morale. C'è una dottrina della Chiesa e nessun cattolico praticante può prendere in mano la propria volontà e scegliere secondo la propria coscienza. Appartenere a una chiesa implica accettare dei vincoli, senza di che l'identità si diluisce e tutto diventa simile.
Ma che cosa succede se la scuola cattolica che vuole preservare la propria identità riceve soldi pubblici? Soldi che vengono cioè da tutti, non solo dai cattolici, e soprattutto che sono e devono essere distribuiti tenendo fede alla Costituzione e non al dettato della Chiesa? Succede che la scuola cattolica deve essere costretta a perdere la propria identità. Il paradosso è chiaro: la difesa dell'identità è un diritto della scuola privata che però non può essere finanziato con i soldi pubblici. Le scuole private che accettano di ricevere i soldi dello Stato devono sottostare alle stesse norme delle scuole pubbliche vere. Certo, questo urta contro la loro libertà. Certo, questo rischia di far perdere loro l'indentità. Si comprende quanto sia sofistico e ipocrita l'argomento che vuole che tutte le scuole siano pubbliche (statali e paritarie): per amore dei soldi si baratta la libertà — salvo sperare che in un paese dove il 95% dei cittadini è di formazione cattolica non si sia costretti a barattare proprio nulla. E invece ...
Succede che la libertà individuale che la Costituzione difende dà alle persone l'opportunità di vivere le proprie scelte senza che nessuno (non lo stato, non il datore di lavoro se pubblico) interferisca con il loro contenuto — purché si rispetti la libertà altrui e la legge, lo Stato non può interferire con le scelte del singolo. Ma una chiesa e una scuola che ad essa vuole restare fedele può interferire e in qualche modo è prevedibile che lo faccia. E quindi, se davvero le scuole private vogliono onorare e difendere la loro libertà di esistere e prosperare devono avere la forza di farlo con le proprie risorse: questa loro autonomia è garanzia e segno della loro libertà. Diversamente, quanto successo all'insegnante Silvia non deve succedere. Delle due l'una: o una scuola privata confessionale vuole i soldi pubblici o vuole proteggere la propria libertà e identità. Le due cose non stanno insieme e lo si vede proprio in casi come questo, quando si apre un conflitto tra libertà della scuola e libertà del singolo. Quale delle due deve prevalere in caso di conflitto? Lo Stato ha il dovere di essere al fianco del singolo sempre, soprattutto nei casi in cui questo si trova ad essere sfidato dalla direzione scolastica dell'istituto dove lavora con incarico annuale. I diritti servono a proteggere non chi ha potere, ma chi non ce l'ha.
I soldi pubblici alle scuole private devono quindi essere condizionati da limiti inderogabili: come il rispetto dei diritti eguali, ovvero della libertà del singolo. Ciò significa, per esempio, che la scuola privata se vuole ricevere finanziamenti dallo Stato deve attingere alle graduatorie pubbliche degli insegnanti e non scegliere a discrezione. Ma attingere a graduatorie pubbliche può voler dire che un insegnante mussulmano possa essere chiamato ad insegnare in una scuola cattolica, o vice versa. Un'eventualità insopportabile e che prova quanto oneroso sia per il privato prendere soldi pubblici.
Dunque chi sono i veri amici della libertà dell'offerta educativa, coloro che chiedono soldi pubblici o coloro che pensano che le scuole private debbano sostenersi autonomamente? Ai sostenitori delle scuole parificate sembra impensabile che il denaro pubblico comporti questa "limitazione" di libertà — e hanno ragione. Per questo dovrebbero rifiutare i soldi dello Stato.
«la Repubblica» del 22 luglio 2014
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