15 luglio 2014

La balcanizzazione del web

di Federico Rampini
Dove sono finite "le rivoluzioni di Facebook e di Twitter", come tanti osservatori occidentali definirono frettolosamente la rivolta anti-autoritaria in Egitto e in altri paesi islamici? La presunta onnipotenza di Facebook e Twitter, l'idea che le tecnologie siano di per sé capaci di suscitare rivoluzioni, ne esce a pezzi. Attribuire a questi strumenti il potere di cambiare il corso degli eventi, di plasmare la storia, di imporre nuovi valori, è puro " feticismo tecnologico". Una perversione in cui l'Occidente sembra cadere sempre più spesso.
"Internet cambierà la Cina", profetizzava alcuni anni fa Bill Gates, e intendeva dire che il sistema autoritario di Pechino non avrebbe retto all'immenso flusso di informazioni dal mondo. Poi si è scoperto che Internet non ha affatto il potere di cambiare il sistema politico cinese. Finora è accaduto il contrario: è stato il governo di Pechino a "cambiare Internet". Su Internet opera anche la propaganda di regime. Ci sono blog specializzati nel "dare la caccia alle streghe", criminalizzando il dissenso o soffiando sul fuoco del nazionalismo anti-occidentale ogni volta che Obama o la Merkel osano ricevere il Dalai Lama.
Vladimir Putin, il turco Erdogan, Xi Jinping, sono tutti impegnati a cercare di "rimettere il genio nella bottiglia", ad erigere nuovi Muri di Berlino, con garitte, fili spinati, posti di blocco, la minaccia di fucilazione non solo virtuale. Erdogan ha combattuto contro i "ribelli via Twitter" e in fin dei conti ha vinto: nonostante l'indignazione della società civile più evoluta, la maggioranza degli elettori turchi lo ha premiato. Prima di lui i dirigenti cinesi avevano vinto il lungo braccio di ferro con Google. E poiché la maggior parte dei cinesi usa comunque dei siti e social network autoctoni, la Grande Muraglia di Fuoco configura una sorta di gigantesco Intra-net, cioè una di quelle Reti non del tutto aperte, che servono a comunicare solo per chi sta al suo interno.
E' il modello di alcuni sistemi aziendali "securizzati", quello che dopo la Cina vogliono costruirsi l'Iran, l'Egitto. Putin è stato un precursore, la sua "cultura Kgb" lo ha reso ipersensibile alle sfide tecnologiche. La stretta decisa da Mosca dopo l'annessione della Crimea e la crisi ucraina ha colpito Gmail, Skype e altri servizi di posta elettronica e messaggeria: vengono bloccati dalle autorità russe, se rifiutano di conservare i dati dei loro utenti in server all'interno del territorio della Federazione. Il pacchetto di "leggi anti-terrorismo" varato da Putin nella primavera del 2014 equipara i blogger con almeno 3.000 utenti giornalieri ai mass media, inserendoli in un registro speciale. Tra le vittime il più illustre è Pavel Durov, creatore del social network russo Vkontakte, obbligato a lasciare il sito con questo addio desolante: "La Russia è incompatibile con Internet".
E' quello che spiega la studiosa americana Laura DeNardis, autrice di "The Global War for Internet Governance". In un confronto tra esperti alla School of International Public Affairs, di fronte ai membri delle Amministrazioni Bush e Obama che hanno seguito i negoziati internazionali su questi temi, la DeNardis sostiene che "Internet è il nuovo terreno di un conflitto mondiale per decidere chi controlla l'accesso a risorse strategiche, in primis l'informazione". Dalla sua nascita Internet non è una "prateria selvaggia" bensì uno spazio regolato da organismi tecnici, gruppi privati, anche governi. Ma con un'impronta dominante degli Stati Uniti. Dopo le rivelazioni di Snowden, il consenso internazionale sulla governance di Internet si è indebolito. Anche paesi democratici come la Germania e il Brasile hanno sollevato questioni di sovranità. Per i regimi autoritari, uno dei quali (la Russia) "ospita" proprio Snowden, la sua denuncia è stata provvidenziale. Già oggi secondo Eli Noam della School of International Public Affairs, "è anacronistico parlare di Internet al singolare, mentre siamo di fronte all'emergere di Reti al plurale, una balcanizzazione deplorevole, ma forse inarrestabile".
Del resto è ormai ufficiale che Internet non sarà più un monopolio americano per quanto riguarda la creazione e il controllo del "cyber-indirizzario" o registro globale. La svolta è storica, chiude una fase durata un quarto di secolo. L'addio al monopolio Usa è una concessione di Obama per venire incontro alle preoccupazioni di diversi paesi stranieri, dalla Germania al Brasile, sull'inaffidabilità di una Rete troppo esposta allo spionaggio Usa. L'annuncio è venuto il 15 marzo 2014 dallo US Commerce Department, il ministero da cui dipende l'agenzia federale di settore, la National Telecommunications and Information Administration. A parte gli addetti ai lavori e gli esperti, pochi tra la massa sterminata di utenti di Internet lo sanno, ma fin dalla sua nascita tutto il sistema di creazione di siti e indirizzi ha avuto una supervisione americana.
L'assegnazione degli indirizzi e i criteri per farlo, è un servizio che può sembrare prosaico e banale, ma è una sorta di infrastruttura elementare che consente di ordinare e convogliare il traffico online. La responsabilità - e il potere - di assegnare i numeri o "protocolli" che identificano gli indirizzi, coi vari suffissi ". com" ". gov" ". org" è rimasta in capo agli Stati Uniti, per la semplice ragione che lo sviluppo originario della Rete ebbe in America il suo epicentro prima di diventare un fenomeno veramente globale. Un controllo attraverso un registro centrale è stato necessario fin dalle origini per impedire duplicazioni di indirizzi che avrebbero generato un caos nel traffico.
L'Amministrazione federale Usa a sua volta diede in appalto questo mestiere ad un'istituzione non profit, la Internet Corporation for Assigned Names and Numbers, nota con l'acronimo Icann. Un organismo indipendente, teoricamente immune da influenze politiche, ma pur sempre americano: con sede a Playa Vista, Los Angeles. Fin dal 1998 gli europei si preoccuparono che Internet non fosse un monopolio Usa, e crearono il Council of European National Top Level Domain Registries (Centr), anch'esso un'organizzazione non profit, per la gestione degli indirizzari nazionali che finiscono con i vari suffissi ". it" per l'Italia, ". de" per la Germania, ". uk" per il Regno unito e così via.
Tuttavia il coordinamento globale dei registri rimane nelle mani di Icann e quindi negli Stati Uniti. Fino alla deflagrazione del Datagate il resto del mondo, compresi i rivali strategici come la Cina e la Russia, avevano accettato il ruolo dell'Ican in nome dell'efficienza di un sistema che ha funzionato bene nell'interesse di tutti. Le rivelazioni di Snowden hanno cambiato le cose. Lo shock mondiale dopo la scoperta dell'ampiezza dello spionaggio americano in Rete, ha scatenato reazioni particolarmente accese in alcuni paesi dove gli stessi capi di governo sono stati spiati: la Germania di Angela Merkel, il Brasile di Dilma Rousseff. Per la prima volta anche in paesi alleati si è ventilata la possibilità di creare delle Reti a dimensione nazionale, "protette" contro lo spionaggio Usa.
Di qui la decisione simbolica di Obama: nel 2015 allo scadere del contratto con Icann, quell'incarico non sarà rinnovato. Ma per sostituirlo con che cosa? Gli americani pongono una condizione: che subentri un altro ente privato, sia pure sotto vigilanza internazionale, non un'istituzione intergovernativa. Ne riprodurrebbe tutti i difetti, come i poteri di veto dettati da logiche politiche, la lentezza nelle decisioni. L'incubo peggiore, è che dietro l'alibi di una "internazionalizzazione" della Rete i governi di Mosca e Pechino possano esportare i metodi di censura già applicati dentro i loro paesi.
«la Repubblica» del 7 luglio 2014

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