Islam tra diritti ed estremismo
di Giulio Albanese
In alcuni Paesi del mondo islamico l’estremismo religioso sta assumendo una connotazione fortemente esclusiva, repressiva e violenta. I fatti di cronaca sono sotto gli occhi di tutti: dal rapimento di centinaia di ragazze, perpetrato dai famigerati ribelli Boko Haram in Nigeria alle aberranti malefatte del neonato Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) che ha confiscato case e beni dei cristiani di Mosul, costringendoli all’esilio. Per non parlare del caso di Meriam Yehya Ibrahim, la cristiana condannata a morte per impiccagione in Sudan con l’accusa di apostasia, poi prosciolta ma che di fatto non ha ancora potuto lasciare il Paese.
Di fronte a questa ondata di fondamentalismo, non v’è dubbio che il consesso delle nazioni dovrebbe interrogarsi sul perché di una flagrante violazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. D’altronde, non è un caso se allora furono pochissimi i Paesi a maggioranza musulmana che parteciparono all’elaborazione e alla firma di tale dichiarazione. Molti entrarono nell’Onu successivamente e diedero un’adesione solo di principio alla Dichiarazione stessa, senza ratificare e firmare l’insieme degli accordi e dei protocolli.
Nell’ultimo trentennio, alcuni organismi islamici – Avvenire ne ha scritto a più riprese – hanno formulato specifiche dichiarazioni che si rifanno alla visione occidentale, pur mantenendo nella loro essenza un approccio teocratico. Il problema di fondo è che nel mondo musulmano la concezione dei diritti umani è fortemente condizionata dalla propria specifica identità culturale e religiosa. Basta leggere la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nell’islam adottata nel 1981 dal Consiglio islamico d’Europa, come anche la Dichiarazione del Cairo del 1990 elaborata dall’Oci (Organizzazione della Conferenza islamica) per rendersi conto del forte influsso della componente teologica e del costante richiamo al dettato della sharia. Solo nella Carta araba dei diritti dell’uomo del 1994 è possibile individuare un’impronta giuridica in qualche modo più laica, attribuibile alla necessità di allinearsi, sul piano formale, agli standard internazionali dei diritti umani. Prendendo in esame queste Carte islamiche sorge, però, qualche dubbio sul fatto che esse possano essere considerate, dal punto di vista giuridico, veri documenti di codificazione finalizzati al rispetto dei diritti umani. Nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di Carte con una forte connotazione declamatoria che non prevedono, ad esempio, l’istituzione di meccanismi di controllo effettivo sull’operato dei singoli Stati.
È possibile allora ricondurre alla ragionevolezza l’islam integralista? Circa una cinquantina di anni fa, il padre del riformismo islamico iraniano, Ali Shari’ati, affermava che l’islam contemporaneo è nel suo XIII-XIV secolo; e se facciamo un raffronto con la storia europea, cioè con il XIII-XIV secolo, scopriremo che il Vecchio Continente doveva ancora vedere la riforma protestante e la riforma cattolica. Secondo Shari’ati, per superare il Medio Evo islamico (sebbene il Medio Evo cristiano non sia stato un’epoca buia), i musulmani non possono pensare di saltare a pie’ pari cinque, sei secoli, arrivando di colpo alla cultura moderna. «Dobbiamo riformare l’islam – scriveva l’intellettuale iraniano – rendendolo il volano di liberazione delle nostre società ancora ferme a una dimensione sociale tribale, cioè al Medio Evo dell’Oriente, mentre oggi è lo strumento usato dai reazionari per evitare il progresso e lo sviluppo sociale».
Le parole e la vita di Shari’ati, morto ufficialmente per arresto cardiaco in Inghilterra nel giugno del 1977 (anche se sono in molti a ritenere che sia stato eliminato dalla polizia segreta dello Scià) indicano chiaramente il percorso che occorre seguire. In questi anni, i Paesi Occidentali hanno fatto poco o niente per aiutare la società civile musulmana a uscire dall’immobilismo e sostenere politicamente e finanziariamente l’intelligentia islamica moderata. Una sfida che, visti i tempi, non può essere disattesa.
Di fronte a questa ondata di fondamentalismo, non v’è dubbio che il consesso delle nazioni dovrebbe interrogarsi sul perché di una flagrante violazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. D’altronde, non è un caso se allora furono pochissimi i Paesi a maggioranza musulmana che parteciparono all’elaborazione e alla firma di tale dichiarazione. Molti entrarono nell’Onu successivamente e diedero un’adesione solo di principio alla Dichiarazione stessa, senza ratificare e firmare l’insieme degli accordi e dei protocolli.
Nell’ultimo trentennio, alcuni organismi islamici – Avvenire ne ha scritto a più riprese – hanno formulato specifiche dichiarazioni che si rifanno alla visione occidentale, pur mantenendo nella loro essenza un approccio teocratico. Il problema di fondo è che nel mondo musulmano la concezione dei diritti umani è fortemente condizionata dalla propria specifica identità culturale e religiosa. Basta leggere la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nell’islam adottata nel 1981 dal Consiglio islamico d’Europa, come anche la Dichiarazione del Cairo del 1990 elaborata dall’Oci (Organizzazione della Conferenza islamica) per rendersi conto del forte influsso della componente teologica e del costante richiamo al dettato della sharia. Solo nella Carta araba dei diritti dell’uomo del 1994 è possibile individuare un’impronta giuridica in qualche modo più laica, attribuibile alla necessità di allinearsi, sul piano formale, agli standard internazionali dei diritti umani. Prendendo in esame queste Carte islamiche sorge, però, qualche dubbio sul fatto che esse possano essere considerate, dal punto di vista giuridico, veri documenti di codificazione finalizzati al rispetto dei diritti umani. Nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di Carte con una forte connotazione declamatoria che non prevedono, ad esempio, l’istituzione di meccanismi di controllo effettivo sull’operato dei singoli Stati.
È possibile allora ricondurre alla ragionevolezza l’islam integralista? Circa una cinquantina di anni fa, il padre del riformismo islamico iraniano, Ali Shari’ati, affermava che l’islam contemporaneo è nel suo XIII-XIV secolo; e se facciamo un raffronto con la storia europea, cioè con il XIII-XIV secolo, scopriremo che il Vecchio Continente doveva ancora vedere la riforma protestante e la riforma cattolica. Secondo Shari’ati, per superare il Medio Evo islamico (sebbene il Medio Evo cristiano non sia stato un’epoca buia), i musulmani non possono pensare di saltare a pie’ pari cinque, sei secoli, arrivando di colpo alla cultura moderna. «Dobbiamo riformare l’islam – scriveva l’intellettuale iraniano – rendendolo il volano di liberazione delle nostre società ancora ferme a una dimensione sociale tribale, cioè al Medio Evo dell’Oriente, mentre oggi è lo strumento usato dai reazionari per evitare il progresso e lo sviluppo sociale».
Le parole e la vita di Shari’ati, morto ufficialmente per arresto cardiaco in Inghilterra nel giugno del 1977 (anche se sono in molti a ritenere che sia stato eliminato dalla polizia segreta dello Scià) indicano chiaramente il percorso che occorre seguire. In questi anni, i Paesi Occidentali hanno fatto poco o niente per aiutare la società civile musulmana a uscire dall’immobilismo e sostenere politicamente e finanziariamente l’intelligentia islamica moderata. Una sfida che, visti i tempi, non può essere disattesa.
«Avvenire» del 24 luglio 2014
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