30 luglio 2014

Facebook cambia l’autofiction

Tendenze. Esauriti i blog, in affanno la «twitteratura», il social network è la frontiera degli scrittori
di Vanni Santoni
Narrazioni di sé come se fossero vere (e non lo sono). Ma qualcuno ci crede
Mentre non sembra aver fine l’esodo dei giovanissimi da Facebook, e la piattaforma utenti del social network si fa più adulta, le modalità d’uso cambiano. Se rimangono diffusi gli utenti «didatti», che rilanciano articoli di interesse sociale, e quelli «realisti», che continuano a riportare la cronaca della propria esistenza, in molti casi l’autonarrazione si affina e diventa sempre meno istintiva. In questo contesto, un fenomeno tutto italiano sono le «autofiction finzionali»: storie narrate per mezzo di status, le quali per avere piena fruizione prevedono l’accettazione (almeno nell’attimo di sospensione dell’incredulità che avviene al momento della lettura) del fatto che sia il vero utente a parlare. Un fenomeno reso possibile anche da ragioni tecniche: negli anni, Facebook ha lavorato per giungere alla maggior possibile sovrapposizione tra persona e profilo, cosicché chi legge gli status altrui tende a farlo pensando l’altro come «reale».
Se vanno ancora forte le pagine puramente parodiche, come Siamo la Gente, il Potere ci Temono, satira del grillismo a base di scie chimiche e rettiliani, o Amo il mio carabiniere, bizzarra pagina di un’immaginaria fan dell’Arma, la nuova frontiera sono le pagine in cui il confine tra utente e personaggio si sfrangia.
Il primo a imporsi in questo modo è stato Alessandro Gori, detto Lo Sgargabonzi, i cui status a base di humour nero e teatro dell’assurdo gli sono valsi un considerevole seguito (e una buona quantità di nemici) online, trasferitosi poi anche nei suoi eventi live. Omologo femminile dello Sgargabonzi è Christiane D’Arc, assurta a figura di culto con una timeline dove si alternano foto softcore di calcolata ingenuità e status provocatori in cui viene inevitabile chiedersi se «c’è o ci fa». Contagiati forse dalla noia delle autonarrazioni ordinarie, la cosa si è diffusa anche tra i romanzieri. Da un paio d’anni Tommaso Pincio posta status che cominciano con le parole volutamente sgrammaticate «Nel caso ci sono genti che non sanno…», corredate da un’immagine a tema, dando vita a qualcosa che sta tra una specie di surreale guida al mondo e la parodia di quegli utenti che nei loro status paiono animati da una irriducibile vena educativa. La cosa funziona, al punto che diventerà un libro, provvisoriamente intitolato Genti che non sanno, così come diventeranno un libro, previsto per il 2015 da Einaudi, gli status del «professore» di Christian Raimo. Da circa un anno Raimo, che è professore di liceo anche nella vita reale, cosa che ha alimentato l’equivoco, e con esso la forza della narrazione, pubblica con seguito crescente status che riportano i disperati tentativi di un professore ansioso e frustrato di trovare nei suoi studenti i legami emotivi che gli mancano altrove.
Morti o diventati altro i blog, si è parlato molto della possibilità di una letteratura social: ma piuttosto che dalle ardite sperimentazioni di «twitteratura» è inaspettatamente il risaputo Facebook, che aspirava a essere il luogo della «vita reale», a rivelarsi il terreno più adatto per la fiction, compresa quella che sbarca in libreria.


I quattro esempi

Alessandro Gori
Già piuttosto noto come blogger sulla defunta piattaforma Leonardo.it, Gori, altrimenti detto Lo Sgargabonzi, ha recentemente debuttato sulle colonne di Internazionale con pezzi satirici e pubblicato un libro, Le avventure di Gunther Brodolini, che, pur uscito con un minuscolo editore (Fuorionda di Arezzo) è già andato più volte in ristampa; tuttavia il fulcro del suo lavoro e della sua poetica rimangono gli status di Facebook. «Tutto cominciò,» racconta lo stesso Gori, «da uno status che scrissi quando ancora usavo Facebook come un utente normale. Per scherzo – sì, sono consapevole di avere uno humour che a molti può rimanere indigesto – scrissi ‘sono a favore della castrazione chimica per le vittime dei pedofili’. Inizialmente ci fu una messe di ‘like’ da parte di gente che non aveva letto con attenzione la frase, seguita poi dai messaggi infuriati delle stesse persone, che nel frattempo avevano capito che avevo scritto qualcosa di molto diverso (e molto più assurdo) di ciò che avevano inteso inizialmente. Lì intuii il potenziale degli status di Facebook» continua Gori, «che risiede nell’abitudine che ha la gente a prenderli sul serio, e provai con un altro, forse ancora più potente perché sfruttava quella presunzione di istantaneità tipica dei social. Scrissi ‘Ho appena dato un calcio a un cane’. Ci fu una vera e propria rivolta. Da lì pian piano il profilo dello Sgargabonzi trovò la sua linea e abbandonai gli status ‘seri’ per dedicarmi solo a quelli in linea con la mia nuova ‘persona’, in cui tutto si regge sul costringere sempre il lettore a chiedersi se ci sei o ci fai.»

Christiane d’Arc
Nonostante status come «Alle lementari (sic) erano brutti quarti d’ora quando toccava a te dire che lavoro facevano i tuoi dal momento che i genitori degli altri erano tutti coreografi di Madonna o medici senza frontiere e spesso l’una non escludeva l’altra, io peraltro non sapevo davvero che lavoro faceva mio babbo ma solo che veniva a prendermi a scuola tutti i giorni con una macchina diversa e nessuna era la sua…», la sempre più popolare Christiane D’Arc sostiene di non essere così distante dalla propria rappresentazione online: «anche se per molti versi sto parodiando correnti interne a Facebook, anzi si potrebbe dire che sono una parodia di svariate tipologie di utenti, non parlerei di ‘autofiction finzionale’, ma di pura e semplice autofiction. Quando metto una foto di me stessa in mutande, magari arricchita di scritte fatte con Microsoft Paint, non sto, o non sto solo, facendo una parodia di chi utilizza Facebook per raccontarsi in un certo modo e proporre una certa immagine di sé: sono anche seria, altrimenti il processo non sarebbe catartico. » Catartico? «Sì,» continua D’Arc: «Facebook impone a tutti i suoi utenti l’autonarrazione, ha obbligato miliardi di persone a inventarsene una, costringe chiunque ad avere un’immagine pubblica. È qualcosa da cui è necessario purificarsi, e per farlo non basta l’autoironia. Anzi, è diventata tanto diffusa, e tanto facile, che quasi sempre l’autoironia su Facebook nasconde bieca autocelebrazione. Con se stessi, in un luogo che nasce per parlare di se stessi, che chiede alla gente di farlo, non basta l’ironia: bisogna essere brutali.»

Tommaso Pincio
Gli status delle «genti che non sanno», racconta Pincio, non nascono dal nulla, ma sono figli diretti e coagulazione finale di vari percorsi d’uso di Facebook per creare piccole narrazioni, anzitutto quella dell’ Umile Trascrittore, in cui lo stesso Pincio trascriveva frasi provenienti dal parlato di politici, calciatori, soubrette e altre figure pubbliche, e le condivideva sul social network, ma nude e crude, senza virgolettarle né indicare la fonte. Lo scopo era capire com’era cambiata la percezione del testo scritto nell’epoca digitale, ma molte delle reazioni iniziali furono di assoluto sgomento e incomprensione, talvolta di profonda irritazione. Alcuni, sentendosi offesi, arrivarono persino a togliergli l’amicizia. «Trovavo altresì confortante,» spiega ancora Pincio, «che la trascrizione (che è poi la quintessenza del romanzo) venisse ancora percepita come trasgressiva. Da lì passai alle ‘genti che non sanno’: i primi status riportavano immagini retró in cui qualcuno saliva su un treno in corsa calandosi da una mongolfiera, o sempre da una mongolfiera osservava le stelle cadenti, ed erano corredate da frasi come ‘nel caso ci sono genti che non sanno come si sale su un treno in corsa da una mongolfiera…’. È logico che molti status delle ‘genti che non sanno’ suscitino ilarità, ma più che essere una narrazione umoristica credo siano un tentativo di scendere a patti con un mondo nuovo che mi ripugna e al tempo stesso mi attrae: un canto di dolore o d’agonia o di rabbia o di nostalgia, a seconda di come si preferisce vedere la cosa, o dell’umore col quale mi sveglio al mattino.»

Christian Raimo
Anche per Raimo il primo status giunse per caso: «riprendeva, esagerandola soltanto un po’, una situazione che avevo vissuto veramente a scuola. Quasi tutte le reazioni furono di gente che l’aveva presa sul serio e da lì scattò la scintilla,» racconta, e infatti tuttora molti lettori continuano a prenderlo sul serio. Anche quando arriva a chiedere ai suoi studenti di consigliargli un analista: 
«Giorgio.»
 «Sì, chi é?» «Sono il prof, Giorgio» «Ah, salve».
 «Ti disturbo?» «Ero al mare prof.» «Ah, ti sei andato a fare il ponte… e sei da solo?» «No, sto qua con un po’ di amici…» «Ah, bello… Ci stanno anche Nicola e Carolina?… li avevo provati a chiamare prima… Ma mi sa che Nicola ha cambiato numero che mi dice sempre numero non raggiungibile… tu c’hai il nuovo?…» «Prof, scusi sto in spiaggia, che voleva dirmi?…»
 «Niente, niente, ti volevo chiedere giusto una cosa semplicissima… se hai un paio di minuti…»
 «Veramente adesso prof, no… Ma non ne possiamo parlare a scuola?… » «Guarda, ti dico al volo allora…. tanto sono proprio due minuti….»«”Ti volevo chiedere… ma tua madre non faceva la psicologa… vero?» «È psichiatra».
«Eh sì, ma c’ha lo studio e parla con le persone?…»
«Fa terapia, sì»
 «Ecco, ti volevo chiedere… C’è un mio amico, che non è che sta male, ma… c’ha dei momenti come dire strani… Ti chiedevo se per caso mi potevi dare il numero di tua madre… non per fare terapia con lei, eh… ma magari lei conosce qualche sua collega… Sai quanto prende tua madre?» «Non lo so, credo cento a seduta». 
«Ah, cento… Però non sai se ci sono delle sue colleghe che sono più economiche?» «Non ho capito, prof, vuole il numero di uno psicologo?» «Ma non per me, eh..».
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» dell'11 maggio 2014

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