Scuola e futuro
di Roberto Carnero
Quando parliamo degli adolescenti di oggi, parliamo dei cosiddetti "nativi digitali", sempre connessi, dipendenti dalla tecnologia (smart-phone, internet, social network). Che cosa guadagnano e che cosa perdono da queste nuove possibilità e da questi nuovi strumenti che noi alla loro età non avevamo a disposizione? E in che modo cambia, in tale situazione, l’insegnamento delle tradizionali discipline scolastiche? Poniamo questa domanda a un filosofo, Giovanni Fornero, uno che di scuola se ne intende: il suo manuale, l’Abbagnano-Fornero, che nasce da una profonda revisione e riscrittura della storia della filosofia di Nicola Abbagnano, è adottato nel 60% delle classi liceali italiane. Tra l’altro, con la casa editrice che lo pubblica, Paravia-Pearson, Fornero è stato antesignano e pioniere nella direzione dell’innovazione tecnologica fin dal 1994, quando furono proposti prima alcuni floppy-disk, quindi un cd-rom dal titolo Le rotte della filosofia, in coedizione con la Rai e l’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche.
Dunque, professor Fornero, lei come valuta l’impatto dei new media sui ragazzi?
«Che nella vita dei giovani l’uso della rete, la produzione audiovisiva e la comunicazione mediante i social network siano abitudini ormai diffuse è un dato di fatto. Tuttavia a mio parere va ridimensionato, almeno in parte, il mito dei "nativi digitali", in quanto all’uso, talora bulimico, di determinati dispositivi spesso non corrispondono sempre né effettive abilità informatiche né spiccate propensioni per la didattica elettronica».
Può spiegarsi meglio?
«Ad esempio, ragazzi che postano regolarmente su Facebook, anche tramite cellulare, sono imbarazzati quando, a scuola, si trovano a lavorare con i nuovi mezzi per svolgere dei compiti precisi. Difficilmente vanno, se non spinti dai docenti, a esplorare le espansioni digitali dei loro manuali cartacei».
Quindi si tratterebbe di una sorta di bluff?
«No, non direi così. Il guadagno provocato dalle nuove tecnologie è comunque indiscutibile. Grazie a internet, i giovani hanno potenzialmente "il mondo in casa". D’altra parte, anche le perdite sono manifeste».
Quali sono principalmente?
«Riguardano ad esempio l’incapacità di concentrazione lunga su di un testo. Tant’è vero che i nativi digitali faticano a svolgere un’analisi, perché convinti che il valore fondamentale sia la velocità di reperimento delle informazioni, non la loro rielaborazione critica, che richiede tempo. Contestualmente, faticano a fare una sintesi, perché vivono di sintesi prefabbricate. Di conseguenza, un guadagno effettivo si ha solo se dall’uso superficiale dei dispositivi informatici si passa, anche grazie al lavoro della scuola e degli insegnanti, a un loro uso criticamente avvertito».
Ci sono dei valori della cultura umanistica che rischiano di essere travolti dall’ondata digitale?
«Le incognite ci sono e alcuni valori potrebbero essere a rischio. A cominciare dall’idea, di matrice greca e umanistica, di una cultura che non è solo "informazione" ma innanzitutto "formazione" e attitudine critica. Tuttavia, l’esistenza di possibili rischi non deve distogliere da un uso, oculato, dei nuovi mezzi. Infatti, rifiutando le consuete oscillazioni fra mitizzazione e demonizzazione, ritengo che in questo campo il vero atteggiamento da assumere non consista nel contrapporre umanesimo e informatica, bensì nel mettere i nuovi mezzi a servizio dei valori umanistici».
In questo contesto qual è il significato dello studio della filosofia? Glielo chiedo perché oggi in molti si chiedono se la presenza di questa materia nel curriculum degli studi secondari sia davvero indispensabile.
«Per capire se la filosofia sia imprescindibile nella scuola, occorre chiedersi se essa sia imprescindibile nella vita. A questo riguardo non ho dubbi. Come soleva ripetere Abbagnano, in sintonia con Platone, la filosofia non è un lusso, ma una necessità. Infatti, in quanto "animale razionale", cioè in quanto essere dotato di ragione, l’uomo non può fare a meno di porsi una serie domande sul bene, sulla libertà, sulla giustizia, sulla felicità. Perciò sarebbe ingenuo ritenere di poter vivere senza filosofare. Anche la scienza, anziché sostituire la filosofia, suscita essa stessa pressanti interrogativi di ordine teorico ed etico. Del resto sono proprio gli uomini del nostro tempo, incerti sul senso da dare alla vita e alla morte, che si interrogano spontaneamente su talune questioni che formano l’oggetto tradizionale del dibattito filosofico. Circostanza, quest’ultima, che spiega perché la filosofia, come riteneva lo studioso francese Étienne Gilson, finisca sempre per "seppellire i propri affossatori". Infatti, la vera alternativa non è tra fare o non fare filosofia, ma tra il fare filosofia in modo inconsapevole e irriflesso e il fare filosofia in modo consapevole e riflesso».
Ma per quanto riguarda la scuola, qual è lo specifico di questa disciplina e quali le ragioni della sua insostituibilità?
«Quello che accade nella vita accade nella scuola. Anche gli studenti non possono fare a meno di porsi certi interrogativi e di avere una determinata visione dell’esistenza. Di conseguenza, se non impareranno a filosofare nella scuola, sarà la televisione, la pubblicità o internet a trasmettere loro una certa "filosofia". Se si vuole evitare questo esito, deve essere la scuola a insegnare a fare filosofia, cioè ad attivare nei giovani la competenza al ragionamento critico. Infatti, uno dei tratti distintivi della competenza filosofica, che Marino Gentile definiva "un tutto domandare che è un domandare tutto", consiste nel non accettare la realtà in modo passivo, ma nel sottoporre tutto al vaglio della domanda e della ricerca. Da ciò la sua manifesta utilità, soprattutto oggigiorno. Ma io direi che va fatto ancora di più».
Vale a dire?
«Anziché togliere o ridurre l’insegnamento della filosofia, sarebbe bene introdurre elementi di filosofia in tutti i tipi di scuola, facendo leva sul fatto che la facoltà interrogante esiste in tutti, inclusi i bambini. Se per un certo periodo si è pensato che l’insegnamento della filosofia dovesse riguardare soltanto i futuri membri della classe dirigente, in una società democratica come la nostra esso dovrebbe riguardare tutti».
Dunque, professor Fornero, lei come valuta l’impatto dei new media sui ragazzi?
«Che nella vita dei giovani l’uso della rete, la produzione audiovisiva e la comunicazione mediante i social network siano abitudini ormai diffuse è un dato di fatto. Tuttavia a mio parere va ridimensionato, almeno in parte, il mito dei "nativi digitali", in quanto all’uso, talora bulimico, di determinati dispositivi spesso non corrispondono sempre né effettive abilità informatiche né spiccate propensioni per la didattica elettronica».
Può spiegarsi meglio?
«Ad esempio, ragazzi che postano regolarmente su Facebook, anche tramite cellulare, sono imbarazzati quando, a scuola, si trovano a lavorare con i nuovi mezzi per svolgere dei compiti precisi. Difficilmente vanno, se non spinti dai docenti, a esplorare le espansioni digitali dei loro manuali cartacei».
Quindi si tratterebbe di una sorta di bluff?
«No, non direi così. Il guadagno provocato dalle nuove tecnologie è comunque indiscutibile. Grazie a internet, i giovani hanno potenzialmente "il mondo in casa". D’altra parte, anche le perdite sono manifeste».
Quali sono principalmente?
«Riguardano ad esempio l’incapacità di concentrazione lunga su di un testo. Tant’è vero che i nativi digitali faticano a svolgere un’analisi, perché convinti che il valore fondamentale sia la velocità di reperimento delle informazioni, non la loro rielaborazione critica, che richiede tempo. Contestualmente, faticano a fare una sintesi, perché vivono di sintesi prefabbricate. Di conseguenza, un guadagno effettivo si ha solo se dall’uso superficiale dei dispositivi informatici si passa, anche grazie al lavoro della scuola e degli insegnanti, a un loro uso criticamente avvertito».
Ci sono dei valori della cultura umanistica che rischiano di essere travolti dall’ondata digitale?
«Le incognite ci sono e alcuni valori potrebbero essere a rischio. A cominciare dall’idea, di matrice greca e umanistica, di una cultura che non è solo "informazione" ma innanzitutto "formazione" e attitudine critica. Tuttavia, l’esistenza di possibili rischi non deve distogliere da un uso, oculato, dei nuovi mezzi. Infatti, rifiutando le consuete oscillazioni fra mitizzazione e demonizzazione, ritengo che in questo campo il vero atteggiamento da assumere non consista nel contrapporre umanesimo e informatica, bensì nel mettere i nuovi mezzi a servizio dei valori umanistici».
In questo contesto qual è il significato dello studio della filosofia? Glielo chiedo perché oggi in molti si chiedono se la presenza di questa materia nel curriculum degli studi secondari sia davvero indispensabile.
«Per capire se la filosofia sia imprescindibile nella scuola, occorre chiedersi se essa sia imprescindibile nella vita. A questo riguardo non ho dubbi. Come soleva ripetere Abbagnano, in sintonia con Platone, la filosofia non è un lusso, ma una necessità. Infatti, in quanto "animale razionale", cioè in quanto essere dotato di ragione, l’uomo non può fare a meno di porsi una serie domande sul bene, sulla libertà, sulla giustizia, sulla felicità. Perciò sarebbe ingenuo ritenere di poter vivere senza filosofare. Anche la scienza, anziché sostituire la filosofia, suscita essa stessa pressanti interrogativi di ordine teorico ed etico. Del resto sono proprio gli uomini del nostro tempo, incerti sul senso da dare alla vita e alla morte, che si interrogano spontaneamente su talune questioni che formano l’oggetto tradizionale del dibattito filosofico. Circostanza, quest’ultima, che spiega perché la filosofia, come riteneva lo studioso francese Étienne Gilson, finisca sempre per "seppellire i propri affossatori". Infatti, la vera alternativa non è tra fare o non fare filosofia, ma tra il fare filosofia in modo inconsapevole e irriflesso e il fare filosofia in modo consapevole e riflesso».
Ma per quanto riguarda la scuola, qual è lo specifico di questa disciplina e quali le ragioni della sua insostituibilità?
«Quello che accade nella vita accade nella scuola. Anche gli studenti non possono fare a meno di porsi certi interrogativi e di avere una determinata visione dell’esistenza. Di conseguenza, se non impareranno a filosofare nella scuola, sarà la televisione, la pubblicità o internet a trasmettere loro una certa "filosofia". Se si vuole evitare questo esito, deve essere la scuola a insegnare a fare filosofia, cioè ad attivare nei giovani la competenza al ragionamento critico. Infatti, uno dei tratti distintivi della competenza filosofica, che Marino Gentile definiva "un tutto domandare che è un domandare tutto", consiste nel non accettare la realtà in modo passivo, ma nel sottoporre tutto al vaglio della domanda e della ricerca. Da ciò la sua manifesta utilità, soprattutto oggigiorno. Ma io direi che va fatto ancora di più».
Vale a dire?
«Anziché togliere o ridurre l’insegnamento della filosofia, sarebbe bene introdurre elementi di filosofia in tutti i tipi di scuola, facendo leva sul fatto che la facoltà interrogante esiste in tutti, inclusi i bambini. Se per un certo periodo si è pensato che l’insegnamento della filosofia dovesse riguardare soltanto i futuri membri della classe dirigente, in una società democratica come la nostra esso dovrebbe riguardare tutti».
«Avvenire» del 23 giugno 2014
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