30 giugno 2014

Insegnanti, questa scuola non è un'anagrafe

Il problema non sono coloro che non vogliono o non sanno lavorare: «indocenti» e «indecenti». Hanno età e storie diverse, ma l'anzianità come criterio base delle graduatorie non funziona
di Alessandro D’Avenia
Le parole abusate sono segnaletica della nostalgia, fosforescenze di ciò che perdiamo. Scuola: tutti ne parlano, mentre rantola.
Se dovessi distillare il succo di 14 anni di insegnamento, di incontri in ogni tipo di scuola e di migliaia di lettere di studenti, docenti e genitori, dovuti ai libri che ho scritto, direi con Elias Canetti: «Ogni cosa che ho imparato dalla viva voce dei miei insegnanti ha conservato la fisionomia di colui che me l’ha spiegata e nel ricordo è rimasta legata alla sua immagine. È questa la prima vera scuola di conoscenza dell’uomo». Così ne La lingua salvata definiva l’essenza della scuola: la viva voce e l’immagine dell’insegnante. Solo una discontinuità antropologica (e quindi economica) potrà cambiare la scuola, non belletti organizzativi spacciati per riforme. Una rivoluzione copernicana che ponga nell’ordine giusto conoscenza e amore: ogni crescita in estensione e profondità della nostra conoscenza del mondo presuppone un’estensione della nostra sfera di inter-esse, cioè d’amore. Perché non chiudiamo le scuole e non carichiamo le lezioni su YouTube risparmiando tempo e fatica?
Perché siamo convinti che insegnare sia una relazione attuale: spazio e tempo condivisi nell’irripetibile dinamismo della vita e delle vite. Se un ragazzo esteriormente somiglia più al padre o alla madre, interiormente (sguardo sul mondo, fiducia nella vita) corrisponde alla qualità della relazione tra i genitori. Così l’insegnamento, parte dell’educazione, si dà nella triplice relazione professore-studente, professore-genitori, professore-colleghi. Classe e studente somigliano alla qualità di queste tre relazioni. Posso soffermarmi solo sulla prima.
La qualità della relazione docente-studente determina l’apertura conoscitiva, a meno di non illudersi che istruzione ed educazione siano separabili. Si conosce soltanto ciò a cui la nostra intelligenza riconosce un valore (il cuore intelligente di Finkielkraut) segnalato da tutto l’essere dell’in-segnante. Non ci può essere educazione (né insegnamento) in differita, perché la relazione coinvolge tutti i livelli della persona (corporeo, intellettivo, spirituale). Il moscone del cogito cartesiano continua a sbattere contro il vetro che non vede: cervelli riempiti di nozioni, addestramento pavloviano a ripetere, miglioramento solo con la sanzione dell’errore. L’insegnamento invece avviene solo in atto, perché solo la vita integrale educa. Si insegna con tutto: sguardo, tono di voce, movenze del corpo, disposizione dei banchi, brillare degli occhi, segni su un compito, cellulare spento… e parole. Una relazione funziona quando genera i beni specifici per cui la si instaura, se quella scolastica non genera attenzione, motivazione, curiosità, non è solo per carenza di stipendio, mura scorticate, vuota burocrazia, giovani e famiglie d’oggi, ma per carenza di relazione. Che cosa è necessario perché essa sia, e sia generativa?
La molecola d’acqua è relazione tra due atomi d’idrogeno e uno d’ossigeno, uno dà all’altro ciò di cui l’altro ha bisogno. Anche a scuola è così: la classe è acqua!
Nella relazione scolastica tre sono gli elementi indispensabili: amore per ciò che si insegna (conoscenza e passione: studium), amore per il chi a cui si insegna (empatia: non sentimentalismo, ma riconoscimento dello studente come soggetto di un «inedito stare al mondo» e non oggetto da cui ottenere prestazioni), amore per il come si insegna (creatività didattica che rinnova ogni lezione in base ad allievi e contesto: metodo). Senza questi tre elementi la relazione non si dà e genera contro-effetti: noia, avversione, disinteresse. Per questo credo in una personalissima trinità di professori.
Uno. I docenti in atto. Curando faticosamente i tre elementi, trasformano il loro dìcere (dire) in docère (mostrare): pongono le condizioni dell’imparare, non lo pretendono, e i ragazzi sono pro-vocati a lavorare sodo (a noia non si oppone divertimento, ma interesse) e a diventare teste fredde e cuori caldi (al contrario di come sono oggi). Generano il desiderio mimetico di raggiungere autonomamente la Luna che il dito mostra, svincolano il sapere dalla pur necessaria prestazione e lo orientano a diventare vita: la cultura come strumento per leggere la realtà con totale apertura, senza subire luoghi comuni e ideologie. Generano simbolicamente, fanno venire alla luce i ragazzi, per ciascuno dei quali hanno una pagina del registro con i punti di forza, non smettono di studiare, prestano libri, offrono un caffè ad uno studente in crisi, fanno una lezione fuori dal programma, dedicano tempo fuori dalla lezione… Tengono il filo come Arianna (amano e sono presenti a distanza) mentre lo studente si addentra nel labirinto e lo decodifica grazie alla cultura che si confronta con le svolte della vita e le sue forme a volte spaventose come il Minotauro. Aiutano i ragazzi a trasformare il loro destino in destinazione: ad ora ad ora m’insegnavate come l’uom s’etterna (Dante a Brunetto Latini). La loro classe è convivio, hanno l’autorità di chi assapora la vita e la porge.
Due. Gli «in-docenti». Per vari motivi (stanchezza, difficoltà relazionali, equilibrio personale, stipendio…), pur avendo competenza nella materia, non riescono a trasmetterla. Mancano due terzi della relazione (empatia e metodo), somigliano a un postino che consegna lettere senza busta e/o destinatario. Non propongo disastrose simbiosi o voti politici, ma asimmetria relazionale (non è distacco: emblematico il recente film Detachment), in cui la materia è terreno comune di ricerca, non trincea: «La fiducia non si guadagna se ci si sforza di guadagnarla, ma se si partecipa alla vita degli allievi, in modo immediato e naturale e se si prende su di sé la responsabilità che da ciò deriva» (Buber). L’indocente non insegna, perché non impara dai ragazzi, la sua classe si appiattisce sulla prestazione (programma ed esame diventano l’orizzonte di autorità).
Tre. Gli «in-decenti». Non conoscono ciò che insegnano e trasformano la classe, presto connivente, in chiacchierificio e poltiglia educativa.
Ogni discorso sulla scuola è secondario senza i docenti in atto. Non basta l’anzianità come criterio esclusivo di merito nelle graduatorie, ma i tre elementi segnalati e trasversali (docenti, indocenti, indecenti hanno tutte le età). La scuola si liberi degli indecenti; aiuti gli indocenti a (ri)diventare se stessi; punti sui docenti, che ne sono le mura di carne e sangue: ce n’è almeno uno nella nostra vita e gli dovremmo, se non il doppio dello stipendio, almeno un grazie.
«Corriere della sera - Suppl. La letttura» del maggio 2014

Nessun commento:

Posta un commento