di Alessandro D’Avenia
«Ho cercato la grande bellezza», dice il protagonista dell’omonimo film, alla fine del suo percorso umano e spirituale. «E non l’ho trovata». È la constatazione rassegnata. Rimane solo la promessa non mantenuta di un amore giovane e freschissimo. La realtà purtroppo è un grande trucco, provoca illusioni e conseguenti delusioni. Si vive di sogni o di ricordi. Il velo di Maia copre il nulla.
La prima parte del film di Paolo Sorrentino in corsa per l’Oscar è un viaggio alla ricerca di una via di uscita dal torpore esistenziale e letterario dei meandri quasi infernali delle feste romane, «i cui trenini sono i più belli perché non portano da nessuna parte», per giungere – nella seconda parte – a porre la domanda di senso a interlocutori validi perché "spirituali": un vescovo in odore di papato e una suora austera fino a destare paura. Ma validi non si dimostrano: il primo perché carnale, la seconda perché angelica. Nessuno dei due è spirituale, nel senso di albergare la vita dello Spirito nella carne.
Il vescovo alla confidenza del protagonista sulle sue inquietudini spirituali si allontana o cambia discorso parlando di carne e vino (non quelli eucaristici). La suora, soprannominata "la Santa", invece mangia radici e dorme per terra. Proprio lei in una scena suggestiva raduna attorno a sé bellissimi uccelli di cui dice di conoscere «il nome di battesimo», e li fa volare soffiando loro sopra, nell’alba, un frammento di grande bellezza in cui il creato è l’alfabeto che Dio usa per dialogare con l’uomo.
Ma la santità capace di questo – scavata in uno sguardo perso nel vuoto, in rughe profondissime ma senza la vitalità di madre Teresa, nella salita slogata e dolorosa della Scala Santa – è un modello lontanissimo per l’uomo di tutti i giorni, figuriamoci per il protagonista dandy disilluso, timidamente in cerca di un paradiso non artificiale.
La narrazione cinematografica riconosce quindi la Chiesa come ultimo interlocutore e le chiede ragione della speranza (che è la grande bellezza del cristianesimo) che dice di avere. Ma il vescovo (carne senz’anima) e la Santa (anima senza carne) non hanno risposte appetibili per l’uomo del mondo che, del mondo nichilista ed edonista, ha riconosciuto "il trucco".
L’uomo del mondo chiede dove siano uomini del mondo come lui, ma con risposte. Questa è l’assenza fragorosa che il film fa emergere. Dove sono i fedeli laici immersi nel mondo, «come l’anima nel corpo», si diceva dei primi cristiani? Chi sta nel mondo può essere solo mondano? Solo chi si allontana dal mondo non ne è inghiottito? C’è spazio per la contemplazione della bellezza nell’agone delle 24 ore? C’è spazio per il non plus ultra nel quotidiano?
Eppure, la fede è fondata sull’incarnazione del Verbo. La carne di Dio ha attraversato in Cristo tutto il ventaglio dell’esperienza umana: il lavoro, il sudore, il fallimento, la gioia, il sorriso, il pianto, la stanchezza, la noia, il tradimento, l’amicizia... e ha reso quindi ogni vissuto umano – in unione con Cristo – un luogo di incontro con il Dio trascendente, che salva quella singola e apparentemente insignificante esperienza. Ma questo è possibile solo a chi vede Dio nell’agire quotidiano, anzi, trova nell’agire quotidiano il dialogo con Dio, altrimenti impossibile per chi ha un lavoro e una famiglia.
La grande bellezza è quotidiana e a portata di mano, se reintroduciamo la contemplazione all’interno dell’azione quotidiana, se l’ininterrotto dialogo, che lo Spirito causa dentro di noi e attorno a noi, viene colto in ogni momento. Ma questo è possibile solo grazie a una vita dallo "stile sacramentale", in cui il visibile rimanda a una pienezza di cui è ombra: «...la fede ha una struttura sacramentale. Il risveglio della fede passa per il risveglio di un nuovo senso sacramentale della vita dell’uomo e dell’esistenza cristiana, mostrando come il visibile e il materiale si aprono verso il mistero dell’eterno». Sono parole della Lumen fidei (n.40), che forse potremmo prendere sul serio.
È impossibile contemplare senza vita sacramentale, perché la trasformazione è gratis data sacramentalmente solo dallo Spirito a ogni singolo uomo che la desideri mentre si muove nel mondo, con il suo lavoro, le sue bollette e il traffico. Quel tocco divino che rivela nell’agire ordinario la grande bellezza, che non è da mettere nelle cose ma è nelle cose e nelle persone, perché ce l’ha già messa Dio.
Contemplativo può essere chiunque risponda a questa chiamata continua, reale, forte nella vita ordinaria: sul tram, in macchina, in cucina, a tavola. Solo nel sacramento lo sguardo, l’udito, l’olfatto, il tatto, il gusto si aprono alla grande bellezza, che quotidianamente balugina nelle 24 ore e fa nuove tutte le cose di quelle 24 ore. E si trova non solo nel silenzio di una chiesa, ma nel caricare una lavatrice e nel fare una lezione, nell’inserire dati in un computer e in una passeggiata al parco, nell’ascoltare musica e nel chiacchierare con un amico... In tutto, perché tutto è grazia e tutto è buono per chi crede. Il mondo diventa tempio, pur mantenendo l’autonomia che Dio gli ha conferito.
Ma solo chi vive sacramentalmente la vita vede la vita per quello che è: frammento di una trascendenza, che dà gusto a quel frammento. Il cristiano contemplativo è il vero edonista: immerso nel mondo senza esserne sommerso. Dio è un padre che si china su un bambino e gli regala il mondo perché giochi con lui. Dio non è una dottrina astratta per pochi o una serie di leggi impossibili da rispettare. Dio è un gioco padre-figlio, un gioco impegnativo come tutti i giochi divertenti.
La grande bellezza, la grandissima bellezza, è la trasfigurazione sacramentale del visibile, scovata dalla contemplazione nell’agire quotidiano, l’ancoraggio a Cristo nella giornata concreta, i cui gesti "risorgono", i gesti tutti, e la loro grandezza non è determinata dal loro incerto successo ma dall’amore che vi scopriamo dentro e mettiamo dentro.
Troppo cristianesimo triste – papa Francesco ha detto recentemente che «i cristiani tristi non credono nello Spirito Santo» – assomiglia a quelle coppie in cui l’amore dato per scontato si spegne, non viene più espresso, celebrato, festeggiato. Il mondo non è più il teatro dove l’altro si muove, ma ritorna muto e ripetitivo. Lo stile non è più luminoso e aperto, ma grigio e ripetitivo, ripiegato su di sé.
Non c’è più nessuna liturgia amorosa, non c’è più segno che ricordi l’altro: nessuna foto nel portafogli o sulla scrivania, nessun piatto preferito in tavola. Solo se cerchiamo di affermare, approfondire, rendere consapevole e impegnativo l’amore di Dio, allora tutto in noi si trasforma, come un giovane che s’innamora, o come un amore che dimora nella giovinezza.
Solo se i nostri sensi diventano porte aperte al dono continuo della grazia, lo Spirito potrà attraversarci e mostrarci la grande bellezza dell’ordinario. Senza questo la vita è dis-graziata, esiliata dalla grazia. Del bianco delle vesti di Cristo, nella Trasfigurazione, ci viene detto che non poteva ottenerlo nessun lavandaio. Le vesti, persino le vesti, a contatto con la carne del Verbo, diventano luce e bellezza. Persino i vestiti diventano segno di Dio, stilista impareggiabile già dell’erba del campo, figuriamoci dell’uomo che per le strade faticose del mondo brama la Grande Bellezza.
La prima parte del film di Paolo Sorrentino in corsa per l’Oscar è un viaggio alla ricerca di una via di uscita dal torpore esistenziale e letterario dei meandri quasi infernali delle feste romane, «i cui trenini sono i più belli perché non portano da nessuna parte», per giungere – nella seconda parte – a porre la domanda di senso a interlocutori validi perché "spirituali": un vescovo in odore di papato e una suora austera fino a destare paura. Ma validi non si dimostrano: il primo perché carnale, la seconda perché angelica. Nessuno dei due è spirituale, nel senso di albergare la vita dello Spirito nella carne.
Il vescovo alla confidenza del protagonista sulle sue inquietudini spirituali si allontana o cambia discorso parlando di carne e vino (non quelli eucaristici). La suora, soprannominata "la Santa", invece mangia radici e dorme per terra. Proprio lei in una scena suggestiva raduna attorno a sé bellissimi uccelli di cui dice di conoscere «il nome di battesimo», e li fa volare soffiando loro sopra, nell’alba, un frammento di grande bellezza in cui il creato è l’alfabeto che Dio usa per dialogare con l’uomo.
Ma la santità capace di questo – scavata in uno sguardo perso nel vuoto, in rughe profondissime ma senza la vitalità di madre Teresa, nella salita slogata e dolorosa della Scala Santa – è un modello lontanissimo per l’uomo di tutti i giorni, figuriamoci per il protagonista dandy disilluso, timidamente in cerca di un paradiso non artificiale.
La narrazione cinematografica riconosce quindi la Chiesa come ultimo interlocutore e le chiede ragione della speranza (che è la grande bellezza del cristianesimo) che dice di avere. Ma il vescovo (carne senz’anima) e la Santa (anima senza carne) non hanno risposte appetibili per l’uomo del mondo che, del mondo nichilista ed edonista, ha riconosciuto "il trucco".
L’uomo del mondo chiede dove siano uomini del mondo come lui, ma con risposte. Questa è l’assenza fragorosa che il film fa emergere. Dove sono i fedeli laici immersi nel mondo, «come l’anima nel corpo», si diceva dei primi cristiani? Chi sta nel mondo può essere solo mondano? Solo chi si allontana dal mondo non ne è inghiottito? C’è spazio per la contemplazione della bellezza nell’agone delle 24 ore? C’è spazio per il non plus ultra nel quotidiano?
Eppure, la fede è fondata sull’incarnazione del Verbo. La carne di Dio ha attraversato in Cristo tutto il ventaglio dell’esperienza umana: il lavoro, il sudore, il fallimento, la gioia, il sorriso, il pianto, la stanchezza, la noia, il tradimento, l’amicizia... e ha reso quindi ogni vissuto umano – in unione con Cristo – un luogo di incontro con il Dio trascendente, che salva quella singola e apparentemente insignificante esperienza. Ma questo è possibile solo a chi vede Dio nell’agire quotidiano, anzi, trova nell’agire quotidiano il dialogo con Dio, altrimenti impossibile per chi ha un lavoro e una famiglia.
La grande bellezza è quotidiana e a portata di mano, se reintroduciamo la contemplazione all’interno dell’azione quotidiana, se l’ininterrotto dialogo, che lo Spirito causa dentro di noi e attorno a noi, viene colto in ogni momento. Ma questo è possibile solo grazie a una vita dallo "stile sacramentale", in cui il visibile rimanda a una pienezza di cui è ombra: «...la fede ha una struttura sacramentale. Il risveglio della fede passa per il risveglio di un nuovo senso sacramentale della vita dell’uomo e dell’esistenza cristiana, mostrando come il visibile e il materiale si aprono verso il mistero dell’eterno». Sono parole della Lumen fidei (n.40), che forse potremmo prendere sul serio.
È impossibile contemplare senza vita sacramentale, perché la trasformazione è gratis data sacramentalmente solo dallo Spirito a ogni singolo uomo che la desideri mentre si muove nel mondo, con il suo lavoro, le sue bollette e il traffico. Quel tocco divino che rivela nell’agire ordinario la grande bellezza, che non è da mettere nelle cose ma è nelle cose e nelle persone, perché ce l’ha già messa Dio.
Contemplativo può essere chiunque risponda a questa chiamata continua, reale, forte nella vita ordinaria: sul tram, in macchina, in cucina, a tavola. Solo nel sacramento lo sguardo, l’udito, l’olfatto, il tatto, il gusto si aprono alla grande bellezza, che quotidianamente balugina nelle 24 ore e fa nuove tutte le cose di quelle 24 ore. E si trova non solo nel silenzio di una chiesa, ma nel caricare una lavatrice e nel fare una lezione, nell’inserire dati in un computer e in una passeggiata al parco, nell’ascoltare musica e nel chiacchierare con un amico... In tutto, perché tutto è grazia e tutto è buono per chi crede. Il mondo diventa tempio, pur mantenendo l’autonomia che Dio gli ha conferito.
Ma solo chi vive sacramentalmente la vita vede la vita per quello che è: frammento di una trascendenza, che dà gusto a quel frammento. Il cristiano contemplativo è il vero edonista: immerso nel mondo senza esserne sommerso. Dio è un padre che si china su un bambino e gli regala il mondo perché giochi con lui. Dio non è una dottrina astratta per pochi o una serie di leggi impossibili da rispettare. Dio è un gioco padre-figlio, un gioco impegnativo come tutti i giochi divertenti.
La grande bellezza, la grandissima bellezza, è la trasfigurazione sacramentale del visibile, scovata dalla contemplazione nell’agire quotidiano, l’ancoraggio a Cristo nella giornata concreta, i cui gesti "risorgono", i gesti tutti, e la loro grandezza non è determinata dal loro incerto successo ma dall’amore che vi scopriamo dentro e mettiamo dentro.
Troppo cristianesimo triste – papa Francesco ha detto recentemente che «i cristiani tristi non credono nello Spirito Santo» – assomiglia a quelle coppie in cui l’amore dato per scontato si spegne, non viene più espresso, celebrato, festeggiato. Il mondo non è più il teatro dove l’altro si muove, ma ritorna muto e ripetitivo. Lo stile non è più luminoso e aperto, ma grigio e ripetitivo, ripiegato su di sé.
Non c’è più nessuna liturgia amorosa, non c’è più segno che ricordi l’altro: nessuna foto nel portafogli o sulla scrivania, nessun piatto preferito in tavola. Solo se cerchiamo di affermare, approfondire, rendere consapevole e impegnativo l’amore di Dio, allora tutto in noi si trasforma, come un giovane che s’innamora, o come un amore che dimora nella giovinezza.
Solo se i nostri sensi diventano porte aperte al dono continuo della grazia, lo Spirito potrà attraversarci e mostrarci la grande bellezza dell’ordinario. Senza questo la vita è dis-graziata, esiliata dalla grazia. Del bianco delle vesti di Cristo, nella Trasfigurazione, ci viene detto che non poteva ottenerlo nessun lavandaio. Le vesti, persino le vesti, a contatto con la carne del Verbo, diventano luce e bellezza. Persino i vestiti diventano segno di Dio, stilista impareggiabile già dell’erba del campo, figuriamoci dell’uomo che per le strade faticose del mondo brama la Grande Bellezza.
«Avvenire» del 29 gennaio 2014
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