di Mastrantonio Luca
La mistica del limite è propria degli eroi, dall’antica Grecia allo sport contemporaneo, da Achille a Michael Schumacher. È la religione di chi non è nato per accettare i parametri entro cui vivono gli altri, ma per superarli, e superarsi; altrimenti il nuovo record diventa un nuovo limite e l’eroe non può ridiventare se stesso, attraverso quella metamorfosi fatta di nuovi successi e persino di insuccessi, impreziositi dalle difficoltà di nuove sfide. Magari quella assai particolare del «ritorno», tentazione di molti, oggi più di ieri, perché la vita biologica si allunga e la tecnologia aiuta. L’ingegnoso Ulisse è l’eroe principe del ritorno, nel mondo classico; ma nella versione moderna di Dante, questo inquieto velista riparte e si perde oltre le colonne d’Ercole: limite, un tempo, del mondo conosciuto. Per altri mari, in Joseph Conrad, il limite è una linea d’ombra, un’età da superare per conoscersi; mentre a terra, per il giovane Werther di Goethe, la natura umana ha dei limiti che non possono essere valicati. Friedrich Nietzsche mette i limiti al centro della sua filosofia contemporanea: «Solo alla fine della conoscenza di tutte le cose, l’uomo avrà conosciuto sé stesso. Le cose sono solo i limiti dell’uomo». Ludwig Wittgenstein vede nei limiti del linguaggio i limiti del mondo: per questo agli eroi s’addice la poesia. Epica. Anche se oggi abbiamo la parafrasi pacchiana degli inni in prosa. Epica, per suoni e immagini, è la narrazione dello sport al cinema, una lotta contro i limiti, di varia natura. Anche apparentemente inanimati, come quelli superati dagli ingegneri delle case automobilistiche che, nel recente Rush di Ron Howard, forgiano le nuove vetture che rinnovano il duello tra Niki Lauda e James Hunt, dalla Formula 3 alla Formula 1. Ma è soprattutto con gli sport violenti, come la boxe, che l’epica del limite ha le sue epifanie, l’estasi, i trionfi, le disfatte. Come in Million dollar baby di Clint Eastwood, dove Maggie Fitzgerald, interpretata da Hilary Swank, nonostante lo scetticismo del suo coach sale dalle categorie più basse fino ai pesi Welter; finché un colpo a tradimento della campionessa del mondo le causerà una paralisi totale permanente; e lì tocca a Eastwood superare il limite estremo, staccando la spina del respiratore. Se Toro scatenato di Martin Scorsese è una lunga e disperata elegia del pugile che vive di ombre, la saga di Rocky è un continuo allontanarsi e riavvicinarsi alla boxe — lo stesso si può dire di Sylvester Stallone con il celebre personaggio. Anche il protagonista di The Wrestler di Darren Aronofsky, interpretato da Mickey Rourke; è un campione di wrestling ormai fuori dal giro, ridotto da botte e steroidi a carne marcia; ma non può fare a meno del ring, dove trova l’ultimo riscatto, tra riflettori di nuovo accesi per l’ultima, pericolosissima sfida con il rivale di sempre: l’Ayatollah. Nel football americano raccontato da Oliver Stone in Ogni maledetta domenica i giocatori sono moderni gladiatori, spinti nell’arena dalle divinità pagane — soldi, successo e donne — e da un medico senza scrupoli, che li forza mettendo a rischio la loro salute. Ma il limite sui cui lottare è interiore, è la soglia di un Inferno da cui uscire, e si misura in centimetri, dapprima invisibili, che l’allenatore Tony D’Amato, alias Al Pacino, insegna a riconoscere, caricando i suoi ragazzi con un memorabile discorso negli spogliatoi. La vita, dice, come il football, è un gioco di centimetri, i centimetri che servono sono dappertutto, in ogni break della partita, a ogni minuto, ogni secondo: «E quando alla fine andremo a sommare tutti quei centimetri, il totale farà la differenza tra la vittoria e la sconfitta, tra vivere e morire». L’estasi del limite tra il vivere e il morire è celebrata nello splendido film di Werner Herzog La grande estasi dell’intagliatore Steiner. Un docu-film sulle passioni sportive, umane e artistiche dell’atleta svizzero Walter Steiner, scultore di legno e campione del mondo di volo con gli sci (il suo record era di 179 metri): «Penso che potremmo saltare da rampe più alte — dice l’atleta, intervistato da Herzog che riprende anche le sue rovinose cadute — ma ci sarebbero salti che causerebbero più incidenti. Ci stiamo avvicinando al limite. Certe volte penso che preferirei tornare indietro, quando saltavo da rampe di 150 o 130 metri. Ma è il brivido di saltare più lontano che mi spinge ad andare avanti. Finché non mi succede niente». Ma di queste cose — conclude con pudore Steiner — preferirei non parlare.
«Corriere della sera» del 31 dicembre 2013
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