Vita di Galileo torna in scena. Con Virginio Gazzolo e la regia di Garella
di Franco Cordelli
Vi sono opere, I tre moschettieri di Dumas o l'Angelus di Millet nel XIX secolo, Lo straniero di Camus o Vita di Galileo di Brecht nel XX, che pur non essendo capolavori, nelle rispettive discipline, lo sono di fatto, si sono conquistati sul campo quella eccellenza che scaturisce dal situarsi in punti nevralgici dell'immaginario del tempo loro, e del nostro. (...)
Su Brecht pesa una specie di «damnatio memoriae». Fu o non fu un ideologo? Lo fu. Cioè, secondo alcuni, non fu un grande artista. Ma Vita di Galileo si sottrae al dubbio per la qualità che dicevo prima: mette a fuoco, in modo canonico, un dilemma che coinvolge gli intellettuali di ogni tipo nei loro rapporti con le società di cui dovrebbero essere coscienza. C'è di più, nella canonicità di Vita di Galileo. E' il dramma in cui Brecht definisce in modo lapidario il valore, o disvalore, dell'eroismo. «Sventurata la terra che ha bisogno di eroi» replica Galileo all'allievo Andrea Sarti che aveva appena detto: «Sventurata la terra che non ha eroi». Con la celebre frase di Galileo, Brecht prefigurava una società futura e migliore. Ma, nello stesso tempo, è incerto se fosse più la celebrazione di un utopistico mondo a venire o la liquidazione di un luogo comune, appunto la virtù eroica. Forse Brecht voleva dire: chi se ne frega degli eroi, non sono gli eroi che ci stanno a cuore.
Questa ambiguità si vede nell'elaborazione del testo. Scritto nell'esilio danese, nel 1938, esaltava l'astuzia di Galileo, che si sottrae al giudizio dell'Inquisizione romana per continuare la propria ricerca della verità. Dieci anni dopo - dopo l'interrogatorio da parte delle attività antiamericane e il ritorno in Europa, ma soprattutto dopo Hiroshima - Brecht riscrisse la scena XIV, penultima del dramma. Galileo rifiuta di riconoscere qualunque eccellenza all'idea di avere le mani sporche ma libere. Se la scienza è al servizio dell'umanità, se essa serve la causa della lotta contro la sofferenza degli uomini, non può dagli uomini staccarsi, come Galileo se ne è staccato, privilegiando il proprio bene personale. Del resto, gli opposti giudizi che si danno dell'eroe rivelano, di una società, il suo sviluppo. Alle esaltazioni, nelle società totalitarie, di tutto ciò che appare eroico, fino alla suprema ambiguità eroismo/fanatismo, si contrappone la disillusione delle società democratiche. Penso a un libro recente, Il ribelle di Massimo Fini, nel quale, dice l'autore, il maggior eroe dell'Italia repubblicana, Nicola Calipari, era una spia! Qui la disillusione è davvero troppa. Tutto dipende dal linguaggio. L'uso della parola spia, con il suo connotato negativo, il suo alone perfino psicologico, indica più un'inclinazione di Fini che la descrizione obiettiva dei fatti. (...)
Nota bene: ho omesso i brani dell'articolo più legati alla messa in scena, perché meno pertinenti con la tematica dell'eroe
Su Brecht pesa una specie di «damnatio memoriae». Fu o non fu un ideologo? Lo fu. Cioè, secondo alcuni, non fu un grande artista. Ma Vita di Galileo si sottrae al dubbio per la qualità che dicevo prima: mette a fuoco, in modo canonico, un dilemma che coinvolge gli intellettuali di ogni tipo nei loro rapporti con le società di cui dovrebbero essere coscienza. C'è di più, nella canonicità di Vita di Galileo. E' il dramma in cui Brecht definisce in modo lapidario il valore, o disvalore, dell'eroismo. «Sventurata la terra che ha bisogno di eroi» replica Galileo all'allievo Andrea Sarti che aveva appena detto: «Sventurata la terra che non ha eroi». Con la celebre frase di Galileo, Brecht prefigurava una società futura e migliore. Ma, nello stesso tempo, è incerto se fosse più la celebrazione di un utopistico mondo a venire o la liquidazione di un luogo comune, appunto la virtù eroica. Forse Brecht voleva dire: chi se ne frega degli eroi, non sono gli eroi che ci stanno a cuore.
Questa ambiguità si vede nell'elaborazione del testo. Scritto nell'esilio danese, nel 1938, esaltava l'astuzia di Galileo, che si sottrae al giudizio dell'Inquisizione romana per continuare la propria ricerca della verità. Dieci anni dopo - dopo l'interrogatorio da parte delle attività antiamericane e il ritorno in Europa, ma soprattutto dopo Hiroshima - Brecht riscrisse la scena XIV, penultima del dramma. Galileo rifiuta di riconoscere qualunque eccellenza all'idea di avere le mani sporche ma libere. Se la scienza è al servizio dell'umanità, se essa serve la causa della lotta contro la sofferenza degli uomini, non può dagli uomini staccarsi, come Galileo se ne è staccato, privilegiando il proprio bene personale. Del resto, gli opposti giudizi che si danno dell'eroe rivelano, di una società, il suo sviluppo. Alle esaltazioni, nelle società totalitarie, di tutto ciò che appare eroico, fino alla suprema ambiguità eroismo/fanatismo, si contrappone la disillusione delle società democratiche. Penso a un libro recente, Il ribelle di Massimo Fini, nel quale, dice l'autore, il maggior eroe dell'Italia repubblicana, Nicola Calipari, era una spia! Qui la disillusione è davvero troppa. Tutto dipende dal linguaggio. L'uso della parola spia, con il suo connotato negativo, il suo alone perfino psicologico, indica più un'inclinazione di Fini che la descrizione obiettiva dei fatti. (...)
Nota bene: ho omesso i brani dell'articolo più legati alla messa in scena, perché meno pertinenti con la tematica dell'eroe
«Corriere della Sera» del 7 maggio 2006
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