06 ottobre 2013

Resuscitare Darcy (e i sogni d’amore)

di Maria Serena Natale
Poiché la reazione istintiva di fronte a una perdita è la rimozione, rimuoviamo. Non parliamo dell’uomo perfetto, ironico e ombroso, dolce ma discreto, remoto e appassionato che soggiace al fascino dell’imbranata cronica. Sorvoliamo sulla sua scomparsa dal diario della single più famosa del mondo che avevamo lasciato trentenne e sovrappeso avviata verso una maturità di delizie e ritroviamo una 51enne sola, con due figli e un equilibrio psichico pericolosamente legato ai messaggi di un improbabile amante 29enne. In attesa di leggere le ragioni dell’imputata Helen Fielding, l’ideatrice di Bridget Jones che dalla prossima settimana sarà nelle librerie britanniche con il terzo capitolo della saga e intanto lascia trapelare poche risicatissime anticipazioni, s’impone una domanda: perché l’insostenibile normalità della vita adulta di Bridget lascia tanta amarezza?
Il successo dei primi due romanzi — 15 milioni di copie vendute e trasposizioni cinematografiche di culto — si basava sul gioco di specchi che condensava nella protagonista le insicurezze inconfessate di una generazione spezzata tra le durezze della vita indipendente e la nostalgia dell’amore romantico.
Bridget-Renée Zellweger ingrassava e guardava film sdolcinati come milioni di trentenni alle prese con gli eterni archetipi del maschio: il fascinoso irraggiungibile pieno di problemi — Hugh Grant — e l’algido imperturbabile, profondo e premuroso — Colin Firth. Anche se dimagriva con fastidiosa facilità e poteva contare su paracadute che non sempre si aprono nella realtà, era una di noi. Con un pizzico d’incanto.
Ritrovarla vent’anni dopo incollata al cellulare in attesa dei messaggi del giovane Roxster; presa fra Twitter, Facebook, Instagram e WhatsApp; persa tra bimbi dimenticati a scuola e cinquantenni in piena crisi adolescenziale… non dà lo stesso calore. C’è la realtà riflessa ma manca il sogno, quella brezza leggera che solleva piano e avvicina alle stelle, la certezza sopita di una gioia a venire. Quel sentimento di fascinazione tanto più necessario nei momenti di crisi.
Biancaneve, Alice, Cenerentola… i remake in chiave pulp-noir-pop con principesse, fatine e cacciatori buoni finiscono regolarmente in cima al gradimento di un pubblico che non è mai stato così disincantato eppure bisognoso di girandole di luce, lotte epiche, amori eterni, di fiabe post-moderne capaci di esercitare il potere ipnotico e balsamico delle grandi costruzioni narrative con il loro carico di inquietudini e conflitti. Sarà anche manipolabile e consolatorio ma, come in psicanalisi e nella poesia, il sogno racconterà sempre di bisogni inappagati e aspirazioni profonde, di un oltre che può diventare forza di cambiamento.
Le stesse monarchie non hanno mai goduto di tanta popolarità come nell’epoca della democrazia digitale: tra abdicazioni, matrimoni, scandali e incoronazioni in Gran Bretagna, Norvegia, Svezia, Danimarca, Spagna e Paesi Bassi attraggono attenzione mediatica e affetto sincero. Non è il risvolto politico che appassiona ma il velo lungo di Kate all’altare, quel mondo lontano di carrozze, fregi, stemmi e ricami; i petali e le briciole al popolo, lo spettacolo di prerogative arcane prive di qualsiasi residuo della quotidiana lotta per la sopravvivenza. Persino la normalità inscenata dai film che negli ultimi anni hanno tentato di restituire l’intimità della vita di corte funziona solo finché rafforza il mito, l’alterità percepita.
È la forza originaria della monarchia, impalcatura di potere e ordine sociale che si fonda sul mistero e trova legittimazione nel diritto di sangue e nel volere divino prima, nella tradizione poi.
Costitutivamente razionale e priva di quell’alone di sacralità, la repubblica non ha la stessa presa emotiva sulle masse. D’altronde quando la corona annulla le distanze dal mondo «borghese» nel tentativo di modernizzarsi, perde mordente. È il caso dei reali svedesi, che negli ultimi 25 anni sono scesi dal 90 al 60 per cento dei consensi.
Quale incanto potrà mai esserci negli sms di Roxster?
Pur con le sue nevrosi e insoddisfazioni, il linguaggio da maschiaccio e la smania di sdrammatizzare, Bridget era una principessa che credeva nel grande amore e manteneva una purezza d’altri tempi. Non a caso era riuscita a lasciarsi alle spalle Daniel-Hugh Grant per continuare a cercare «qualcuno di più straordinario».
Lui era lì, disegnato sul modello austeniano del gentiluomo di Orgoglio e Pregiudizio, nobile d’animo prima che di casato, in piedi nella neve, elegante, serio e devoto a una giovane fragile donna, «mi piaci così come sei»… I giornali inglesi che hanno letto in anteprima il seguito della storia dicono sia morto.
Non è leale, rivogliamo Mark Darcy.
«Il Corriere della Sera» del 5 ottobre 2013

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