Anticipiamo un brano del nuovo libro di Aldo Cazzullo: una riflessione sulla società di oggi e sulle aspettative dei ragazzi
di Aldo Cazzullo
Noi vivevamo in un Paese più povero, che però non si lamentava
Non ho nessuna nostalgia del tempo perduto. Non era meglio allora. È meglio adesso.Un adolescente dell'Italia di oggi è l'uomo più fortunato della storia. Anche se nato in una famiglia impoverita dalla crisi, ha infinitamente più cose e più opportunità di un ragazzo di qualsiasi generazione cresciuta nel Novecento.
Vive in una casa riscaldata, illuminata, con il bagno e l'acqua corrente, che i miei nonni da giovani avrebbero osservato con la bocca spalancata dallo stupore.
Va al mare, in campeggio, in discoteca, all'estero su voli low cost, ai fast food o nei ristoranti etnici dove mangia piatti esotici: tutte cose che i miei genitori non conoscevano o non potevano permettersi.
Ha la tv a colori con decine di programmi a qualsiasi ora del giorno e della notte, un computer connesso con il mondo intero, il telefonino con cui scaricare qualsiasi canzone o film immaginabile, una varietà di social network per ritrovare i vecchi amici o entrare in contatto con gli sconosciuti. Noi, quando eravamo ragazzi tra gli anni Sessanta e Settanta, avevamo la tv in bianco e nero, e aspettavamo con ansia le otto di sabato sera per vedere i cartoni animati della tv svizzera, tifando invano contro lo struzzo e per Wile E. Coyote (che chiamavamo Willy). Avevamo letto Pinocchio e il libro Cuore. Sandokan e Orzowei ci parvero la modernità.
L'Italia su cui aprivamo gli occhi non era il paradiso in terra. Anzi, era senz'altro peggiore di quella di oggi. Era un Paese scosso da tensioni, talora da tragedie. Era un Paese più inquinato: fabbriche in città, acciaierie in riva al mare, ciminiere, smog. Era un Paese più violento: bombe fasciste, agguati brigatisti, sequestri come quello di Cristina Mazzotti. Era un Paese più maschilista, in cui i «femminicidi» non facevano notizia: chi trovava la moglie con un altro e la ammazzava non commetteva un crimine ma un «delitto d'onore», spesso non finiva neppure in galera. Era un Paese più semplice, con meno aspettative e meno pretese. Non si festeggiava Halloween ma si piangevano i Morti. La marcia più alta era la quarta. C'erano la leva obbligatoria e i maneggi per evitarla, la visita militare, la naja, il car, il nonnismo. I calciatori andavano in vacanza in Riviera sotto l'ombrellone e non in Polinesia. La mafia ufficialmente non esisteva, ma in Sicilia era molto più potente di adesso, anche perché in pochi la combattevano. A Napoli c'era il colera. Ma in ogni città c?erano molti più bambini, e non erano chiusi in casa, a giocare con il Nintendo o l'iPhone o l'iPad, a simulare sport con la Wii, a festeggiare il compleanno con gli animatori ingaggiati dalla mamma, i palloncini, le facce dipinte e i giochi organizzati. Si giocava per strada: a nascondino, ai quattro cantoni sul sagrato della chiesa, a palla avvelenata con le ragazze, a pallone con i maschi, fino a quando non interveniva il vigile o il padrone dell?auto che faceva da porta. Avevamo sempre le ginocchia e i gomiti sbucciati.
L'Italia di allora era molto più modesta e povera dell'Italia di oggi. Ma era un Paese che non si lamentava. Per questo mi piacerebbe raccontarlo ai nostri ragazzi, che si lamentano molto, a volte con ragione e a volte no.Lo so che i nostri giovani hanno di che piangere. L'Italia tratta in modo scandaloso i suoi figli. Ne fa pochi. Li fa studiare male. Li grava di debiti. Non gli offre un lavoro. Soprattutto, non li prepara alle difficoltà che incontreranno.
Viziamo troppo i nostri ragazzi. Tentiamo di accontentarli in ogni capriccio, di anticipare le loro richieste, di prevenire i loro desideri. Li sfamiamo al di là di quanto desiderino. E quando si affacciano sul mondo sono già sazi. (Spesso, anche grassi). Provate a fare un giro davanti a un liceo romano o milanese: non c'è una bicicletta. Hanno tutti lo scooter, o il papà che li porta in macchina. E la colpa, se si deprimono davanti ai primi ostacoli, non è loro; è nostra.
Noi avevamo invece una fortuna: il collegamento tra le generazioni era solido. Non avevamo vissuto la fame e la guerra; ma sapevamo che c'erano state. Non abbiamo memoria diretta della ricostruzione e del boom; ma ne avevamo assorbito l'energia. I nonni non erano simpatici vecchietti che venivano in visita ogni tanto, portando regali e inventandosi qualsiasi cosa per strappare un sorriso ai nipoti. Vivevamo con loro. Mia bisnonna Matilde, detta Tilde, sposò un uomo che non aveva mai visto: non era la persona giusta con cui lamentarmi per le mie prime pene d'amore. Nonno Lorenzo aveva fatto la Grande Guerra e visto i compagni di prigionia morire di tifo; non mi potevo lamentare per il morbillo (che i ragazzi di oggi non sanno cosa sia). L'altro nonno, Aldo, a 12 anni faceva il garzone in una macelleria, e andava a piedi per sedici chilometri da Canale ad Alba: non aveva la bicicletta né i soldi per la corriera, e non sarebbe mai salito sulla corriera senza biglietto. Neppure nonno Aldo era la persona giusta con cui lamentarsi se non mi compravano il motorino.Quel poco che avevamo era infinitamente più di quello che avevano avuto i nostri genitori e i nostri nonni. Era questa consapevolezza che ci impediva di piagnucolare. Anche perché in casa c?era sempre qualcuno che, se ti vedeva triste, abbattuto, scoraggiato, ti diceva: «Adesso basta piangere!».
Vive in una casa riscaldata, illuminata, con il bagno e l'acqua corrente, che i miei nonni da giovani avrebbero osservato con la bocca spalancata dallo stupore.
Va al mare, in campeggio, in discoteca, all'estero su voli low cost, ai fast food o nei ristoranti etnici dove mangia piatti esotici: tutte cose che i miei genitori non conoscevano o non potevano permettersi.
Ha la tv a colori con decine di programmi a qualsiasi ora del giorno e della notte, un computer connesso con il mondo intero, il telefonino con cui scaricare qualsiasi canzone o film immaginabile, una varietà di social network per ritrovare i vecchi amici o entrare in contatto con gli sconosciuti. Noi, quando eravamo ragazzi tra gli anni Sessanta e Settanta, avevamo la tv in bianco e nero, e aspettavamo con ansia le otto di sabato sera per vedere i cartoni animati della tv svizzera, tifando invano contro lo struzzo e per Wile E. Coyote (che chiamavamo Willy). Avevamo letto Pinocchio e il libro Cuore. Sandokan e Orzowei ci parvero la modernità.
L'Italia su cui aprivamo gli occhi non era il paradiso in terra. Anzi, era senz'altro peggiore di quella di oggi. Era un Paese scosso da tensioni, talora da tragedie. Era un Paese più inquinato: fabbriche in città, acciaierie in riva al mare, ciminiere, smog. Era un Paese più violento: bombe fasciste, agguati brigatisti, sequestri come quello di Cristina Mazzotti. Era un Paese più maschilista, in cui i «femminicidi» non facevano notizia: chi trovava la moglie con un altro e la ammazzava non commetteva un crimine ma un «delitto d'onore», spesso non finiva neppure in galera. Era un Paese più semplice, con meno aspettative e meno pretese. Non si festeggiava Halloween ma si piangevano i Morti. La marcia più alta era la quarta. C'erano la leva obbligatoria e i maneggi per evitarla, la visita militare, la naja, il car, il nonnismo. I calciatori andavano in vacanza in Riviera sotto l'ombrellone e non in Polinesia. La mafia ufficialmente non esisteva, ma in Sicilia era molto più potente di adesso, anche perché in pochi la combattevano. A Napoli c'era il colera. Ma in ogni città c?erano molti più bambini, e non erano chiusi in casa, a giocare con il Nintendo o l'iPhone o l'iPad, a simulare sport con la Wii, a festeggiare il compleanno con gli animatori ingaggiati dalla mamma, i palloncini, le facce dipinte e i giochi organizzati. Si giocava per strada: a nascondino, ai quattro cantoni sul sagrato della chiesa, a palla avvelenata con le ragazze, a pallone con i maschi, fino a quando non interveniva il vigile o il padrone dell?auto che faceva da porta. Avevamo sempre le ginocchia e i gomiti sbucciati.
L'Italia di allora era molto più modesta e povera dell'Italia di oggi. Ma era un Paese che non si lamentava. Per questo mi piacerebbe raccontarlo ai nostri ragazzi, che si lamentano molto, a volte con ragione e a volte no.Lo so che i nostri giovani hanno di che piangere. L'Italia tratta in modo scandaloso i suoi figli. Ne fa pochi. Li fa studiare male. Li grava di debiti. Non gli offre un lavoro. Soprattutto, non li prepara alle difficoltà che incontreranno.
Viziamo troppo i nostri ragazzi. Tentiamo di accontentarli in ogni capriccio, di anticipare le loro richieste, di prevenire i loro desideri. Li sfamiamo al di là di quanto desiderino. E quando si affacciano sul mondo sono già sazi. (Spesso, anche grassi). Provate a fare un giro davanti a un liceo romano o milanese: non c'è una bicicletta. Hanno tutti lo scooter, o il papà che li porta in macchina. E la colpa, se si deprimono davanti ai primi ostacoli, non è loro; è nostra.
Noi avevamo invece una fortuna: il collegamento tra le generazioni era solido. Non avevamo vissuto la fame e la guerra; ma sapevamo che c'erano state. Non abbiamo memoria diretta della ricostruzione e del boom; ma ne avevamo assorbito l'energia. I nonni non erano simpatici vecchietti che venivano in visita ogni tanto, portando regali e inventandosi qualsiasi cosa per strappare un sorriso ai nipoti. Vivevamo con loro. Mia bisnonna Matilde, detta Tilde, sposò un uomo che non aveva mai visto: non era la persona giusta con cui lamentarmi per le mie prime pene d'amore. Nonno Lorenzo aveva fatto la Grande Guerra e visto i compagni di prigionia morire di tifo; non mi potevo lamentare per il morbillo (che i ragazzi di oggi non sanno cosa sia). L'altro nonno, Aldo, a 12 anni faceva il garzone in una macelleria, e andava a piedi per sedici chilometri da Canale ad Alba: non aveva la bicicletta né i soldi per la corriera, e non sarebbe mai salito sulla corriera senza biglietto. Neppure nonno Aldo era la persona giusta con cui lamentarsi se non mi compravano il motorino.Quel poco che avevamo era infinitamente più di quello che avevano avuto i nostri genitori e i nostri nonni. Era questa consapevolezza che ci impediva di piagnucolare. Anche perché in casa c?era sempre qualcuno che, se ti vedeva triste, abbattuto, scoraggiato, ti diceva: «Adesso basta piangere!».
«Corriere della Sera» del 20 ottobre 2013
Nessun commento:
Posta un commento