15 ottobre 2013

Buttiamo Gramsci. Appello per una cultura non organica

di Corrado Ocone
Devo dire che ho sempre un po’ di ritrosia nel parlare di destra e sinistra: sia perché le giudico categorie fuorvianti, come le altre, ad esse connesse, di conservatori e progressisti (chi oggi in Italia vuole conservare maggiormente lo status quo, la destra o la sinistra?); sia anche perché mi sembra che esse siano un legato del quel periodo ideologico che, iniziato con la Rivoluzione francese, ha poi messo capo, in qualche modo, alle tragedie del “secolo breve”. Non nego però che, da un punto di vista empirico, cioè di mera utilità pratica, le categorie in questione servano, quasi come una segnaletica delle forze in campo. Venendo poi in Italia, le cose si complicano ulteriormente perché sembrano esistere, in questo momento, almeno due sinistre, e almeno due destre. Con l’aggiunta che la sinistra moderata ed europea dà spesso l’impressione di essere succuba dell’altra, quella che potremmo chiamare giacobina , o “indignata” in modo permanente e effettivo, che fa riferimento ad un blocco di potere costituito da certa magistratura, vari organi di stampa e da un vasto fronte di intellettuali e opinione pubblica così detta “riflessiva”. A destra troviamo ugualmente due fronti: uno in qualche modo tradizionalista, comunitarista e diffidente del mercato (il suo motto potrebbe essere “Dio, Patria e Famiglia”), e un altro liberale e liberista. Il tutto con la presenza trasversale, a destra come a sinistra, di gruppi di cattolici che, con la loro adesione più o meno forte ai dogmi della Chiesa, complicano maggiormente il quadro.
Si può dire, in ogni caso, che la sinistra moralista è quella che esercita sul dibattito culturale una vera e propria “egemonia”, imponendo i temi, le retoriche e gli stilemi di pensiero e anche i nomi dei protagonisti. Che non sempre, o raramente, sono i più meritevoli o originali. Si assiste pertanto al paradosso di un Paese in maggioranza di destra la cui cultura politica è quasi esclusivamente appannaggio della sinistra (è la tesi sviluppata dallo storico Roberto Chiarini in un istruttivo volume appena uscito per i tipi di Marsilio: Alle origini di una strana repubblica). E si assiste anche ad un sovvertimento della realtà che ha portato, ad esempio, uno studioso pur bravo come Massimiliano Panarari a parlare, con sommo plauso degli ambienti radical chic, di una “egemonia sottoculturale” che sarebbe stata non solo esercitata ma studiata a tavolino dalle “tv berlusconiane” negli ultimi anni: una tesi che fuorvia perché omette di dire che essa si applica al limite non al mondo delle élites culturali ma a quello delle persone poco colte o istruite, che in quanto tali sono sempre esistite e sempre esisteranno in una società di massa (a parte il fatto che qualcuno, ad esempio il sottoscritto, potrebbe non concordare sul tono valutatativamente negativo dell’espressione “egemonia sottoculturale” credendo che molte manifestazioni ad essa riconducibili siano state invece un veicolo di laicizzazione e deideologizzazione del costume nazionale).libertà
In ogni caso, preso atto di questa situazione di predominio intellettuale della sinistra, ogni tanto da destra si ode un’imprecazione fatta di frasi del tipo: “dobbiamo occuparci di più della cultura”, “non dobbiamo sottovalutarla e lasciarla nelle mani della sinistra”, “dobbiamo creare una nostra rete di intellettuali”. Anche se capisco i motivi che spingono a farle, ritengo che queste affermazioni non convengano ad un fronte liberale. Esse sono espressione, infatti, col segno cambiato, di un modo di ragionare “gramsciano”. Per Gramsci, in effetti, l’intellettuale, al pari di ogni altro cittadino militante, deve mettere le sue competenze, nello specifico il suo sapere, a disposizione della parte politica propria: deve contribuire certo all’elaborazione della linea politica, ma deve anche essere una “cinghia di trasmissione” di essa una volta approvata. Egli, in questo modo, deve essere il costruttore dell’ “egemonia” del Partito sulla società, cioè deve contribuire a far sì che esso conquisti i cittadini a partire dalle teste, imponendo loro un modo di ragionare “corretto” o “appropriato”. La conseguenza di ciò è che l’uomo di cultura, lungi dal rispondere a quello che dovrebbe essere il suo demone, la “verità” (potremmo dire in maniera meno impegnativa una visione “disinteressata” e “imparziale” sul mondo e sulle cose), sottomette questa ad esigenze politiche, a torto ritenute superiori. Ovviamente, oggi quasi nessuno si definirebbe un “intellettuale organico” con compiacimento. Fatto sta, tuttavia, che un modo di ragionare siffatto è stato interiorizzato profondamente ed è diventato una sorta di luogo o senso comune nella società.
Ecco, una destra liberale, la destra tout court, dovrebbe dare il suo contributo per superare il gioco a somma zero che porta ad opporre intellettuali di destra a intellettuali di sinistra. Dovrebbe fare invece una campagna liberale, appunto, per la liberalizzazione e depoliticizzazione (e in Italia anche destatalizzazione) della cultura. Sul tema dell’“autonomia della cultura” essa potrebbe dare veramente un apporto non effimero al cambiamento.
«Il Giornale» del 15 ottobre 2013

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