09 settembre 2013

Tutti gli Einstein dell'islam

di Alessandro Zaccuri
Un islam molto diverso da quello che crediamo di conoscere. Un mondo culturale vivacissimo e aperto alla ricerca scientifica, lungo una direttrice che parte dalla riscoperta del sapere greco, passa per la Baghdad degli Abbasidi e alimenta il nostro Rinascimento. A ripercorrere questa vicenda è il fisico Jim Al-Khalili, che i telespettatori britannici conoscono bene grazie ai documentari da lui curati per la Bbc. Nato a Baghdad nel 1962, da padre iracheno e madre inglese, oggi insegna all’Università del Surrey ed è quello che gli anglosassoni chiamano humanist. Un laico, diremmo noi, che però ha dialogato in tutta franchezza con l’arcivescovo emerito di Canterbury, il reverendo Rowan Williams, e che nel suo documentatissimo La casa della saggezza (Bollati Boringhieri) non si stanca di sottolineare il ruolo svolto dalla corrente del mutazilismo nella fioritura scientifica del IX secolo. «È una corrente islamica che offre un esempio di tolleranza per le altre fedi», spiega Al-Khalili alla vigilia del suo intervento al Festivaletteratura, in programma oggi alle 17.45 presso l’Aula magna dell’Università di Mantova. «Questo significa – aggiunge – che fisici cristiani, matematici ebrei e astronomi musulmani lavoravano fianco a fianco. Strano a dirsi, ma il mutazilismo era assai meno tollerante verso le altre sette islamiche di quanto lo fosse nei confronti di cristiani ed ebrei».

Quale fu, secondo lei, il maggior contributo della scienza araba in età medievale?
«L’aver posto le basi del metodo scientifico. Non sarebbe difficile elencare le singole scoperte: la fondazione dell’algebra da parte di Khwarizmi, le opere astronomiche di al-Battani, il grande Canone della medicina di Ibn Sina, il vostro Avicenna. Io però credo che la vera novità sia costituita dall’affermarsi di un modello di pensiero capace di mettere in connessione l’elemento teorico-matematico con quello sperimentale. Il modo in cui facciamo scienza oggi è del tutto analogo al procedimento adottato da Ibn al-Haytham e dagli altri».

Ibn al-Haytham?
«In Occidente lo conoscete come Alhazen: un grandissimo fisico, i cui studi sull’ottica non solo hanno influenzato Galileo e Newton a distanza di mezzo millennio, ma sono stati decisivi anche per la comprensione della prospettiva nell’arte italiana del Rinascimento. Spesso si parla di lui come del primo scienziato in senso moderno. Di sicuro è stato il primo a spiegare correttamente il funzionamento della vista in termini di ottica geometrica».

Al suo fianco chi metterebbe?
«Altri due grandi suoi contemporanei, e cioè Ibn Sina e al-Biruni. Il primo, Avicenna, fu una superstar del rango di Einstein: bambino prodigio, fisico eminente, era conteso dalle corti dell’epoca. Fu il maggior filosofo del mondo medievale e, forse, il pensatore più conosciuto di quell’età. Biruni, al confronto, fu una figura più modesta e quindi meno nota, ma non per questo meno geniale. Per la vastità delle sue conoscenze può essere considerato il Leonardo da Vinci islamico. Dalla storia alla matematica, dalla geologia alla metafisica, non c’è quasi argomento su cui non abbia esercitato la sua influenza».

Ma qual è oggi il rapporto fra l’islam e la scienza?
«Tendo a essere ottimista. Non sono un credente, ma da umanista guardo con fiducia al genere umano e alla sua capacità di arrivare a risolvere ogni problema. Certo, sono profondamente rattristato dalle atrocità e dai gesti d’odio che oggi vengono compiuti nel nome dell’islam. Allo stesso tempo, so che si potrebbe ritenere ingenuo il mio auspicio che la situazione possa migliorare. L’islam ha una lunga strada da percorrere per ritrovare lo splendore del passato, ma non vedo perché questo non debba accadere. La mia convinzione è che la libertà di pensiero e una visione illuminista finiranno per avere la meglio rispetto alla sfiducia nella scienza».

Pensa che un libro come il suo possa anche vincere i pregiudizi dell’Occidente?
«Mi pare che sia una vicenda importante da raccontare. La conoscenza scientifica non rispetta i confini geografici, culturali e linguistici: oggi quella che fu la scienza araba è anche la nostra scienza. Nel contempo, però, mi auguro che ci si convinca di come il mondo islamico non vada guardato con sospetto o disprezzo. Sul piano personale, poi, spero di essere considerato un commentatore abbastanza imparziale: scienziato, ateo, figlio di un musulmano e di una cristiana…».

Non si sente erede della tradizione scientifica araba?
«Durante la mia infanzia in Iraq ho sentito ripetere spesso i nomi di questi grandi scienziati del passato, ma non ero in grado di apprezzarne l’importanza. Attraverso questo libro ho cercato di indurre i giovani e le giovani del mondo arabo e islamico a guardare con orgoglio alla tradizione da cui provengono. Un simile consapevolezza non può che essere positiva per il futuro, ne sono persuaso».
«Avvenire» del 5 settembre 2013

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