di Paolo Simoncelli
Da più di un decennio, intermittenti polemiche politiche denunciano faziosità in molti manuali scolastici di storia; i rimedi proposti (commissioni, verifiche, eccetera) hanno peraltro fatto gridare allo scandalo d’una profilata censura. Il tema, lo ricordiamo all’inizio dell’anno scolastico, è antico e non è solo italiano. Il mutare di circostanze istituzionali, o politico-ideologiche, porta le nuove classi politiche alla riconsiderazione del passato nazionale. Si pensi ai nuovi manuali di storia di Stati dell’ex Urss o del blocco sovietico, della stessa nuova Federazione russa, a quelli giapponesi che tendono a ridurre se non pure a celare responsabilità e atrocità belliche, financo a quelli francesi, posti di fronte a direttive ministeriali ostative di critiche al patrio colonialismo. E poi perché solo di storia e non, ad esempio, di letteratura o di educazione civica? C’è un vortice di sovversioni concettuali e relative codificazioni scolastiche nel diritto pubblico tedesco tra Weimar, nazismo, e dopoguerra; mentre nell’Italia fascista il nuovo diritto corporativo affiancò ma non sostituì il "vecchio" diritto costituzionale-statutario. La questione della manualistica scolastica, su cui richiama l’attenzione un volume antologico di Antonio Gioia (Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimento e dibattito storiografico nei manuali di storia, Rubbettino, pp. 388, euro 22), ha dunque una propria storia con segmenti cronologici sempre utili per polemiche d’ogni provenienza. Per limitarci a questo dopoguerra, esponenti del Partito d’Azione avevano iniziato a porre il problema dei nuovi manuali scolastici ancor prima delle autorità alleate.
Guido De Ruggiero attendeva una «commissione ministeriale» preposta all’esclusione dei testi «che manifestano uno spirito partigiano o settario». Negli anni ’50 fu poi la volta di interventi comunisti diretti a denunciare al ministro della Pubblica Istruzione, Gonella, i contenuti di alcuni manuali di storia come quelli del Silva, Rodolico, Lizier, accusati di sopravvivenze fasciste o nazionaliste. Ma quando nuovi manuali iniziarono a diffondersi, cambiò la direzione delle denunce, e testi famosi come quelli di Spini e di Saitta vennero considerati pericolosi veicoli di marxismo nelle scuole italiane. Il che non impedì nel 1976 alla casa editrice fiorentina La Nuova Italia di censurare il volume di Saitta, in particolare nel giudizio sulla genesi degli anni di piombo e relative responsabilità politiche. Ma c’era stato di mezzo appunto il ’68, che aveva sconvolto la scuola italiana e resa ardua e difficile una libertà di analisi storica difforme dall’imposto dogma ideologico (riducendo con ciò la circolazione dei maggiori manuali "classici"). L’analisi di Gioia offre documenti utili a considerazioni non prive di qualche sorpresa: riservata al solo quinquennio di guerra italiana, 1940-45, è incentrata su 32 manuali scolastici editi dopo il decreto Berlinguer del 1996 che ha concentrato lo studio del solo ’900 nell’ultimo anno di liceo (ma perché non ampliare questa ricerca appunto a tutto il secolo, comprendendo quindi temi altrettanto cruciali, riducendo nel testo non le citazioni ma la loro esondazione?). Se, nel merito, può sorprendere che il manuale di Camera e Fabietti, additato tra i più "sinistri", giunto alle ultime edizioni, abbia almeno toccato il tema delle foibe (tra condanna e giustificazionismo), la sorpresa maggiore e più amara sta nella constatazione d’un diffuso modo aproblematico con cui questioni sensibilissime di quel quinquennio (appunto dall’intervento in guerra dell’Italia, alla caduta del fascismo, Regno del sud e Rsi, eccetera) vengono poste ed esposte con ritualità stancante, non di rado banale e spesso condita da errori, in una narrazione priva della capacità di coinvolgere emotivamente lo studente. Si va dalla solita pugnalata alle spalle della Francia sconfitta (manuali di Colarizi-Banti, Mascilli Migliorini, e altri), all’8 settembre ’43 che non è la data della firma dell’armistizio (Fossati-Luppi-Zanette), ma del suo annuncio e della fuga del re e del governo Badoglio da Roma.
Non è corretto in termini giuridico-istituzionali parlare di dirette annessioni al Reich di Alto Adige, Friuli, Triveneto (Barbagallo); né che la nascita della Rsi fosse voluta dai tedeschi (De Bernardi-Guarracino, e altri): tutt’altro. Eloquente peraltro il sostanziale silenzio della manualistica su uno dei temi di maggior discussione pubblica da oltre un quindicennio: l’8 settembre come «morte della patria», suscitato da Galli della Loggia. Ma ad essere assente è tutto il rapporto tra lo sviluppo accelerato delle ricerche scientifiche su quelle sensibilissime vicende e la relativa fruizione scolastica. L’aggiornamento del manuale, denuncia Gioia, è una semplice variazione editoriale. In merito, un discorso a parte va fatto per l’«eredità» storiografica defeliciana che ha documentato e riletto fuori da schemi preconcetti il quinquennio 1940-45, dalle vere cause dell’intervento in guerra dell’Italia, ai tentativi di pace separata con l’Urss, ai retroscena del 25 luglio, alla realtà numerica della Resistenza; sostanzialmente assente nella manualistica scolastica, appare presente nei suoi punti salienti più nel manuale di De Rosa (che aveva fra l’altro diverse radici metodologiche e politiche) che non di autori, come la Colarizi o Sabbatucci, pur di maggior vicinanza culturale allo storico del fascismo. Ma è un fatto che ci si trovi ormai di fronte alla destoricizzazione della cultura soppiantata dalla "civiltà" mediatico-spettacolare che ha fatto perdere alla storia, anche alla storia contemporanea, ogni appeal presso gli studenti; disinteressati, non portati a leggere il legame tra storia e storiografia, né dunque la proiezione politica della ricostruzione storica. Alle polemiche sulla manualistica faziosa che non hanno quindi colto l’ormai ridotta capacità del manuale come fonte di indottrinamento, andrebbe aggiunta una verifica su quanto quella lamentata faziosità, con la ricomposizione dei grandi gruppi editoriali, abbia determinato una rinuncia di progetti culturali alternativi; perpetuando però lamentele e proteste.
Guido De Ruggiero attendeva una «commissione ministeriale» preposta all’esclusione dei testi «che manifestano uno spirito partigiano o settario». Negli anni ’50 fu poi la volta di interventi comunisti diretti a denunciare al ministro della Pubblica Istruzione, Gonella, i contenuti di alcuni manuali di storia come quelli del Silva, Rodolico, Lizier, accusati di sopravvivenze fasciste o nazionaliste. Ma quando nuovi manuali iniziarono a diffondersi, cambiò la direzione delle denunce, e testi famosi come quelli di Spini e di Saitta vennero considerati pericolosi veicoli di marxismo nelle scuole italiane. Il che non impedì nel 1976 alla casa editrice fiorentina La Nuova Italia di censurare il volume di Saitta, in particolare nel giudizio sulla genesi degli anni di piombo e relative responsabilità politiche. Ma c’era stato di mezzo appunto il ’68, che aveva sconvolto la scuola italiana e resa ardua e difficile una libertà di analisi storica difforme dall’imposto dogma ideologico (riducendo con ciò la circolazione dei maggiori manuali "classici"). L’analisi di Gioia offre documenti utili a considerazioni non prive di qualche sorpresa: riservata al solo quinquennio di guerra italiana, 1940-45, è incentrata su 32 manuali scolastici editi dopo il decreto Berlinguer del 1996 che ha concentrato lo studio del solo ’900 nell’ultimo anno di liceo (ma perché non ampliare questa ricerca appunto a tutto il secolo, comprendendo quindi temi altrettanto cruciali, riducendo nel testo non le citazioni ma la loro esondazione?). Se, nel merito, può sorprendere che il manuale di Camera e Fabietti, additato tra i più "sinistri", giunto alle ultime edizioni, abbia almeno toccato il tema delle foibe (tra condanna e giustificazionismo), la sorpresa maggiore e più amara sta nella constatazione d’un diffuso modo aproblematico con cui questioni sensibilissime di quel quinquennio (appunto dall’intervento in guerra dell’Italia, alla caduta del fascismo, Regno del sud e Rsi, eccetera) vengono poste ed esposte con ritualità stancante, non di rado banale e spesso condita da errori, in una narrazione priva della capacità di coinvolgere emotivamente lo studente. Si va dalla solita pugnalata alle spalle della Francia sconfitta (manuali di Colarizi-Banti, Mascilli Migliorini, e altri), all’8 settembre ’43 che non è la data della firma dell’armistizio (Fossati-Luppi-Zanette), ma del suo annuncio e della fuga del re e del governo Badoglio da Roma.
Non è corretto in termini giuridico-istituzionali parlare di dirette annessioni al Reich di Alto Adige, Friuli, Triveneto (Barbagallo); né che la nascita della Rsi fosse voluta dai tedeschi (De Bernardi-Guarracino, e altri): tutt’altro. Eloquente peraltro il sostanziale silenzio della manualistica su uno dei temi di maggior discussione pubblica da oltre un quindicennio: l’8 settembre come «morte della patria», suscitato da Galli della Loggia. Ma ad essere assente è tutto il rapporto tra lo sviluppo accelerato delle ricerche scientifiche su quelle sensibilissime vicende e la relativa fruizione scolastica. L’aggiornamento del manuale, denuncia Gioia, è una semplice variazione editoriale. In merito, un discorso a parte va fatto per l’«eredità» storiografica defeliciana che ha documentato e riletto fuori da schemi preconcetti il quinquennio 1940-45, dalle vere cause dell’intervento in guerra dell’Italia, ai tentativi di pace separata con l’Urss, ai retroscena del 25 luglio, alla realtà numerica della Resistenza; sostanzialmente assente nella manualistica scolastica, appare presente nei suoi punti salienti più nel manuale di De Rosa (che aveva fra l’altro diverse radici metodologiche e politiche) che non di autori, come la Colarizi o Sabbatucci, pur di maggior vicinanza culturale allo storico del fascismo. Ma è un fatto che ci si trovi ormai di fronte alla destoricizzazione della cultura soppiantata dalla "civiltà" mediatico-spettacolare che ha fatto perdere alla storia, anche alla storia contemporanea, ogni appeal presso gli studenti; disinteressati, non portati a leggere il legame tra storia e storiografia, né dunque la proiezione politica della ricostruzione storica. Alle polemiche sulla manualistica faziosa che non hanno quindi colto l’ormai ridotta capacità del manuale come fonte di indottrinamento, andrebbe aggiunta una verifica su quanto quella lamentata faziosità, con la ricomposizione dei grandi gruppi editoriali, abbia determinato una rinuncia di progetti culturali alternativi; perpetuando però lamentele e proteste.
«Avvenire» del 18 settembre 2013
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