In Italia si discute una legge contro l’omofobia, la Russia punisce la «propaganda gay». Ma non è facile guidare dall’alto l’enorme capacità di mediazione culturale delle parole
di Carlo Bordoni
La saggezza popolare ci aveva messi in guardia: quanti proverbi — da «Le parole sono pietre» a «Ne uccide più la penna che la spada» — raccomandavano un uso attento del linguaggio per non offendere la sensibilità altrui? Le parole possono ferire, istigare alla violenza, spingere al suicidio, perché ognuna di esse può nascondere il giudizio sociale, la disapprovazione, il senso di colpa. Mentre il Parlamento italiano avvia la discussione della legge contro l’omofobia, rinviata in calendario dopo la pausa estiva, anche altrove si assiste a una curiosa concentrazione del dibattito sull’uso e l’abuso di termini tendenziosi, scorretti o ingiuriosi e al conseguente tentativo di regolamentarli o contenerli per legge.
La Russia di Putin, con un rigurgito moralista, ha introdotto la censura verso la «propaganda omosessuale» con la pretesa di tutelare i minori: un’omofobia di Stato che, com’era prevedibile, ha scatenato vivaci proteste in occasione dei Mondiali di atletica a Mosca. Per contro, l’Italia si appresta a condannare la propaganda omofoba e a punire con la reclusione fino a un anno e sei mesi chi «incita a commettere o commette atti di discriminazione motivati dall’identità sessuale della vittima e con una pena fino a quattro anni in caso di incitamento alla violenza o commissione di atti violenti». Il campo d’intervento, nei due casi opposti, attiene sempre al linguaggio.
Ma una legge può cambiare il modo di pensare e, di conseguenza, il comportamento sociale? È sufficiente togliere la parola «razza» dalla Costituzione francese, come propone il presidente Hollande, per cancellare il razzismo? Quella che Sarkozy ha definito la «guerra al dizionario» non è solo frutto di un tentativo subdolo di rimuovere freudianamente il problema e nasconderlo alla coscienza: è un atto sociale. Perché, come asseriva il fondatore della linguistica moderna, Ferdinand de Saussure, «il linguaggio è un sistema di differenze in cui il significato risiede non nei termini stessi, ma nelle relazioni differenziali tra loro».
Con l’evolversi della società le parole si evolvono anch’esse; cambiano senso, si adeguano. Certe perdono l’innocenza e si caricano di un significato odioso. È il caso di «negro», che richiama alla memoria la pratica della schiavitù, sostituito da «coloured», «nero» o «afroamericano» a partire dalla fine degli anni Ottanta in America e poi in tutto l’Occidente. Eppure usato senza sospetto da Martin Luther King nel suo discorso «I Have a Dream» del 28 agosto 1963 (riprodotto sulla «Lettura» #91 del 18 agosto). O come lo spregiativo «nigger», ancor più offensivo di «negro», che Joseph Conrad aveva utilizzato per il romanzo Il negro del Narciso (1897). Proprio «nigger» è stato sostituito da «schiavo» in una versione «purgata» del capolavoro di Mark Twain Huckleberry Finn.
Può succedere che i diretti interessati e i gruppi sociali che si sentono emarginati rifiutino l’uso dei termini eufemistici, dietro i quali si maschera l’ipocrisia sociale, e preferiscano definirsi autonomamente, anche ricorrendo a termini più volgari, come «queer» (checca) piuttosto che gay, «nigga» invece di nero. In America e libertà Furio Colombo conferma che rivolgersi a un gruppo etnico o sociale con i termini che esso ha scelto è una dimostrazione di rispetto, che produce effetti positivi e apre al dialogo.
La sostituzione di un termine politically incorrect avviene per lo più naturalmente, a seguito della maturazione della sensibilità comune o dell’affermarsi di una corrente d’opinione per il riconoscimento dei diritti delle minoranze, come è avvenuto negli Stati Uniti. Ma certe volte è necessario ricorrere allo strumento legislativo per sensibilizzare la comunità e rendere esplicito un aspetto critico che non si limita alla parola, ma dove la parola si fa strumento di violenza. Basta guardare alla storia recente, o anche solo alla cronaca degli ultimi anni, per trovare casi in cui l’aggressività contro le minoranze è accompagnata da slogan, segni, simboli e parole usati allo scopo di giustificare culturalmente il gesto, gridati per eccitare gli animi. Eliminando la parola violenta si toglie violenza anche al comportamento umano.
Ogni censura linguistica rischia tuttavia di limitare la libertà di opinione: su questo registro si muove gran parte delle obiezioni di chi non è favorevole alla legge contro l’omofobia. «Famiglia Cristiana» e varie organizzazioni cattoliche (tra cui i Giuristi per la Vita, autori di un appello ai parlamentari) temono di incorrere nel reato d’opinione esprimendosi contro i matrimoni tra persone dello stesso sesso e le adozioni gay, ma anche di non poter più sostenere pubblicamente affermazioni del tipo «gli atti omosessuali sono contrari alla legge di natura».
D’altra parte l’obbligo per legge di usare o meno un determinato linguaggio ha sempre il carattere di una censura preventiva. Ricorda da vicino le disposizioni fasciste contro i termini stranieri, un’italianizzazione con risultati esilaranti («calciobalilla», fiumi di «sciampagna», ricchi premi e «cotiglioni»). Ma qui non si tratta di formalismi o di eccessi del politically correct per sostituire termini in disuso — povero con «non abbiente», bidello con «non docente» — che in genere rispondono a una prassi eufemistica. E neppure di mascherare una realtà troppo cruda o scomoda: nessuno parla più di guerre, ma solo di «missioni di pace»; i morti e i feriti rientrano tra i «danni collaterali». Qui si tratta del diritto a non essere discriminati (o colpevolizzati, o emarginati) per l’orientamento sessuale, così come accade per la razza, la religione, il genere il credo politico.
Qui il linguaggio fa la differenza, dimostra una valenza di mediazione sociale. Ha il potere di scatenare odio, paura, aggressività. Il cervello associa le parole a sensazioni, angosce, emozioni e provoca reazioni: la relazione tra il pensiero e la mano — lo ha dimostrato Leroi-Gourhan in un testo fondamentale di etnologia, Il gesto e la parola (1964-65) — passa attraverso il linguaggio. Per questo, e non per ipocrisia, il National Cancer Institute americano ha proposto di sostituire la parola «cancro», che provoca terrore in chi riceve la diagnosi, con «neoplasia», termine meno minaccioso che non evoca subito la morte. Una sostituzione che Umberto Veronesi sostiene da tempo. Mentre nella bozza del nuovo codice deontologico i medici italiani sostituiscono «paziente» con «persona assistita».
Perché anche le parole possono curare (lo sappiamo dalla psicanalisi) e perdere la loro carica dolorosa, oppure offensiva o discriminante. Come è sparita dall’uso comune «matrigna», per definire la donna che prende il posto della figura materna; come sono scomparsi «nullafacente » per disoccupato, «vucumprà» per ambulante extracomunitario, «zitella» per la donna nubile, «mongoloide» o «storpio» per il diversamente abile, così possiamo liberarci di «invertito», «pervertito» o «frocio», senza preoccuparci troppo se, al riguardo, le Sacre Scritture parlano di «grave depravazione». Il mondo cambia di continuo e con esso le relazioni sociali. È la dimostrazione della vitalità dell’unica razza a cui apparteniamo (come diceva Einstein): quella umana.
La Russia di Putin, con un rigurgito moralista, ha introdotto la censura verso la «propaganda omosessuale» con la pretesa di tutelare i minori: un’omofobia di Stato che, com’era prevedibile, ha scatenato vivaci proteste in occasione dei Mondiali di atletica a Mosca. Per contro, l’Italia si appresta a condannare la propaganda omofoba e a punire con la reclusione fino a un anno e sei mesi chi «incita a commettere o commette atti di discriminazione motivati dall’identità sessuale della vittima e con una pena fino a quattro anni in caso di incitamento alla violenza o commissione di atti violenti». Il campo d’intervento, nei due casi opposti, attiene sempre al linguaggio.
Ma una legge può cambiare il modo di pensare e, di conseguenza, il comportamento sociale? È sufficiente togliere la parola «razza» dalla Costituzione francese, come propone il presidente Hollande, per cancellare il razzismo? Quella che Sarkozy ha definito la «guerra al dizionario» non è solo frutto di un tentativo subdolo di rimuovere freudianamente il problema e nasconderlo alla coscienza: è un atto sociale. Perché, come asseriva il fondatore della linguistica moderna, Ferdinand de Saussure, «il linguaggio è un sistema di differenze in cui il significato risiede non nei termini stessi, ma nelle relazioni differenziali tra loro».
Con l’evolversi della società le parole si evolvono anch’esse; cambiano senso, si adeguano. Certe perdono l’innocenza e si caricano di un significato odioso. È il caso di «negro», che richiama alla memoria la pratica della schiavitù, sostituito da «coloured», «nero» o «afroamericano» a partire dalla fine degli anni Ottanta in America e poi in tutto l’Occidente. Eppure usato senza sospetto da Martin Luther King nel suo discorso «I Have a Dream» del 28 agosto 1963 (riprodotto sulla «Lettura» #91 del 18 agosto). O come lo spregiativo «nigger», ancor più offensivo di «negro», che Joseph Conrad aveva utilizzato per il romanzo Il negro del Narciso (1897). Proprio «nigger» è stato sostituito da «schiavo» in una versione «purgata» del capolavoro di Mark Twain Huckleberry Finn.
Può succedere che i diretti interessati e i gruppi sociali che si sentono emarginati rifiutino l’uso dei termini eufemistici, dietro i quali si maschera l’ipocrisia sociale, e preferiscano definirsi autonomamente, anche ricorrendo a termini più volgari, come «queer» (checca) piuttosto che gay, «nigga» invece di nero. In America e libertà Furio Colombo conferma che rivolgersi a un gruppo etnico o sociale con i termini che esso ha scelto è una dimostrazione di rispetto, che produce effetti positivi e apre al dialogo.
La sostituzione di un termine politically incorrect avviene per lo più naturalmente, a seguito della maturazione della sensibilità comune o dell’affermarsi di una corrente d’opinione per il riconoscimento dei diritti delle minoranze, come è avvenuto negli Stati Uniti. Ma certe volte è necessario ricorrere allo strumento legislativo per sensibilizzare la comunità e rendere esplicito un aspetto critico che non si limita alla parola, ma dove la parola si fa strumento di violenza. Basta guardare alla storia recente, o anche solo alla cronaca degli ultimi anni, per trovare casi in cui l’aggressività contro le minoranze è accompagnata da slogan, segni, simboli e parole usati allo scopo di giustificare culturalmente il gesto, gridati per eccitare gli animi. Eliminando la parola violenta si toglie violenza anche al comportamento umano.
Ogni censura linguistica rischia tuttavia di limitare la libertà di opinione: su questo registro si muove gran parte delle obiezioni di chi non è favorevole alla legge contro l’omofobia. «Famiglia Cristiana» e varie organizzazioni cattoliche (tra cui i Giuristi per la Vita, autori di un appello ai parlamentari) temono di incorrere nel reato d’opinione esprimendosi contro i matrimoni tra persone dello stesso sesso e le adozioni gay, ma anche di non poter più sostenere pubblicamente affermazioni del tipo «gli atti omosessuali sono contrari alla legge di natura».
D’altra parte l’obbligo per legge di usare o meno un determinato linguaggio ha sempre il carattere di una censura preventiva. Ricorda da vicino le disposizioni fasciste contro i termini stranieri, un’italianizzazione con risultati esilaranti («calciobalilla», fiumi di «sciampagna», ricchi premi e «cotiglioni»). Ma qui non si tratta di formalismi o di eccessi del politically correct per sostituire termini in disuso — povero con «non abbiente», bidello con «non docente» — che in genere rispondono a una prassi eufemistica. E neppure di mascherare una realtà troppo cruda o scomoda: nessuno parla più di guerre, ma solo di «missioni di pace»; i morti e i feriti rientrano tra i «danni collaterali». Qui si tratta del diritto a non essere discriminati (o colpevolizzati, o emarginati) per l’orientamento sessuale, così come accade per la razza, la religione, il genere il credo politico.
Qui il linguaggio fa la differenza, dimostra una valenza di mediazione sociale. Ha il potere di scatenare odio, paura, aggressività. Il cervello associa le parole a sensazioni, angosce, emozioni e provoca reazioni: la relazione tra il pensiero e la mano — lo ha dimostrato Leroi-Gourhan in un testo fondamentale di etnologia, Il gesto e la parola (1964-65) — passa attraverso il linguaggio. Per questo, e non per ipocrisia, il National Cancer Institute americano ha proposto di sostituire la parola «cancro», che provoca terrore in chi riceve la diagnosi, con «neoplasia», termine meno minaccioso che non evoca subito la morte. Una sostituzione che Umberto Veronesi sostiene da tempo. Mentre nella bozza del nuovo codice deontologico i medici italiani sostituiscono «paziente» con «persona assistita».
Perché anche le parole possono curare (lo sappiamo dalla psicanalisi) e perdere la loro carica dolorosa, oppure offensiva o discriminante. Come è sparita dall’uso comune «matrigna», per definire la donna che prende il posto della figura materna; come sono scomparsi «nullafacente » per disoccupato, «vucumprà» per ambulante extracomunitario, «zitella» per la donna nubile, «mongoloide» o «storpio» per il diversamente abile, così possiamo liberarci di «invertito», «pervertito» o «frocio», senza preoccuparci troppo se, al riguardo, le Sacre Scritture parlano di «grave depravazione». Il mondo cambia di continuo e con esso le relazioni sociali. È la dimostrazione della vitalità dell’unica razza a cui apparteniamo (come diceva Einstein): quella umana.
«Corriere della sera» dell'agosto 2013
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