(senza indicazione d'autore)
Ci sono libri di storia drammaticamente attuali. Per esempio, questo denso volumetto di Giovanni Scirocco, dedicato a Norberto Bobbio e al concetto di "guerra giusta": un tema oggi tornato alla ribalta dopo le stragi siriane. Come qualcuno ricorderà, in Italia la prima guerra del Golfo (17 gennaio-28 febbraio 1991) segnò una dolorosissima frattura tra Bobbio e buona parte dei suoi amici e allievi. Da un lato stava il filosofo torinese, per il quale l'intervento imposto da Bush senior contro Saddam Hussein, reo d'aver invaso il Kuwait, rappresentava «un caso esemplare di guerra giusta», fondata sul principio di legittima difesa. Dall'altro, c'era chi gli contestava che nell'età delle armi di distruzioni di massa non esistevano più guerre giuste. L'elenco dei suoi spiazzati interlocutori comprendeva i nomi di Gian Mario Bravo, Angelo d'Orsi, Luigi Ferrajoli, Cesare Luporini, Costanzo Preve, Marco Revelli, Gianni Vattimo, Danilo Zolo e diversi altri.
Ma Scirocco non s'è limitato a ricostruire i risvolti di quel serrato confronto, sulle pagine dei quotidiani e nel privato delle lettere, rintracciate nel ricchissimo archivio di Bobbio (ora sistemato a Torino nella sede del Centro studi Piero Gobetti, che ne offre online l'inventario analitico). Ha voluto impegnarsi anche in un'esposizione diacronica delle riflessioni di Bobbio sul «problema della guerra e le vie della pace», come recita il titolo del suo più celebre saggio sull'argomento (in origine uscito nel 1966 su «Nuovi Argomenti», al termine di un pluriennale carteggio con il direttore Alberto Carocci, qui riprodotto per la prima volta).
Il punto di partenza è dunque il 1961, quando il filosofo firmò la prefazione al libro di Günther Anders Essere e non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki e, qualche mese più tardi, partecipò alla "Marcia per la pace" organizzata ad Assisi da Aldo Capitini. Invece, il termine ad quem è il 1999, con la guerra del Kosovo: che Bobbio giustificò, pur negandone la legalità (a differenza di quanto aveva fatto con il precedente iracheno), trovandosi comunque smarrito di fronte alle nuove guerre asimmetriche e "umanitarie", figlie del disordine mondiale. Ormai molto anziano (morirà il 9 gennaio 2004, a 94 anni), il filosofo non scriverà più nulla di significativo sulle campagne belliche contro il terrorismo, germogliate dall'«11 settembre».
Dal lavoro di Scirocco emerge un Bobbio forse un po' diverso da quello canonizzato a sinistra. Un Bobbio più realista che utopista, più liberale che socialista, più attratto dal pessimismo di Hobbes che dal cauto ottimismo di Kant. Un conto, infatti, è ragionare in linea di principio sull'orrore del fungo atomico, com'era d'uso negli anni Sessanta, ai tempi delle grandi marce per la pace. Un altro, invece, schierarsi dinnanzi a un conflitto convenzionale, quale fu la prima guerra del Golfo, in cui Bobbio rifiutò di diventare il «bersaglio comodo di tutti i pacifisti da strapazzo». Il filosofo era, anagraficamente, un figlio dello spirito di Monaco e del cedimento al Führer, e nel Rais di Bagdad pensò di scorgere, a torto o a ragione, l'ombra di un nuovo Hitler. «Possibile – scrisse al suo allievo Enrico Peyretti – che non venga mai in mente al pacifista assoluto che il rifiuto totale della violenza contribuisca a far prosperare la razza dei violenti?».
Sia chiaro. Bobbio era senz'altro meno "barricadero" di quasi tutti i suoi discepoli ed estimatori (Voi estremisti, io moderato, s'intitola un'intervista rilasciata al «manifesto» il 28 maggio 1991). Però non aveva nulla da spartire con i guerrafondai musclé che cominceranno ad affiorare proprio nel '91 (da noi Giuliano Ferrara e Lucio Colletti, ma anche un irriconoscibile Giorgio Bocca), per poi proliferare nel decennio successivo, in coincidenza con le fallimentari crociate occidentali contro il terrorismo. È anzi facile immaginare che avrebbe manifestato perplessità verso la dottrina della "guerra preventiva", nonché insofferenza per i toni apocalittici di Oriana Fallaci. Tanto più che nei suoi tormentati giudizi degli anni Novanta non mancava mai di sottolineare la stretta connessione, in una guerra, fra la legittimità e l'efficacia: senza di che le popolazioni civili avrebbero pagato prezzi pesantissimi, come in effetti è sempre avvenuto nell'ultimo ventennio.
Resta indubbio, d'altra parte, che dal '91 in poi il discorso sulla guerra "calda" (un'opzione di nuovo praticabile, dopo la lunga parentesi della guerra fredda) è stato egemonizzato da intellettuali privi d'ogni esperienza sul campo. Le foto che ritraggono insigni interventisti della Grande Guerra, da Prezzolini a Salvemini, immersi nel fango delle trincee, fra topi e scarafaggi, appartengono a un passato ormai ingiallito. E sarebbe impensabile, oggi, il caso di un Berto Ricci, promettente scrittore e amico fraterno di Montanelli, morto volontario in Libia nel '41. La guerra odierna è invece sviscerata nel chiuso di felpati think tank. Ve lo figurate un Giuliano Ferrara che, in divisa d'ordinanza, spedisce cartoline postali dal fronte?
Un'ultima considerazione. Non c'è nulla di più scivoloso di un conflitto armato. Dopo essere deflagrato, sfugge di mano ai suoi promotori. L'esito finale non coincide mai con quello preventivato. Eppure, pochi intellettuali hanno riflettuto su questa elementare verità, enunciata fra l'altro da conservatori realisti ben lontani da ogni irenismo, quali Benedetto Croce e Sergio Romano. Molto più gratificante, per i chierici, è stato sovrapporre alla guerra reale una guerra immaginata, proiettandovi il proprio ego. Ecco perché, riletti dagli storici, i loro interventi spesso non colgono il bersaglio. È significativo che l'unica guerra davvero "giusta", quella condotta dagli Alleati contro Hitler, abbia registrato un vuoto di partecipazione nel mondo della cultura italiana. Molti rimasero fino all'ultimo dalla parte sbagliata, altri s'eclissarono nella torre d'avorio e soltanto pochi compresero, sin dall'inizio, la portata dello scontro. Del resto, come ammetterà lo stesso Bobbio nel '92, «all'uomo di studio non si addice il mestiere di profeta».
Giovanni Scirocco, L'intellettuale nel labirinto. Norberto Bobbio e la "guerra giusta", prefazione di Pietro Polito, Biblion Edizioni, Milano,
pagg. 126, € 10,00
Ma Scirocco non s'è limitato a ricostruire i risvolti di quel serrato confronto, sulle pagine dei quotidiani e nel privato delle lettere, rintracciate nel ricchissimo archivio di Bobbio (ora sistemato a Torino nella sede del Centro studi Piero Gobetti, che ne offre online l'inventario analitico). Ha voluto impegnarsi anche in un'esposizione diacronica delle riflessioni di Bobbio sul «problema della guerra e le vie della pace», come recita il titolo del suo più celebre saggio sull'argomento (in origine uscito nel 1966 su «Nuovi Argomenti», al termine di un pluriennale carteggio con il direttore Alberto Carocci, qui riprodotto per la prima volta).
Il punto di partenza è dunque il 1961, quando il filosofo firmò la prefazione al libro di Günther Anders Essere e non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki e, qualche mese più tardi, partecipò alla "Marcia per la pace" organizzata ad Assisi da Aldo Capitini. Invece, il termine ad quem è il 1999, con la guerra del Kosovo: che Bobbio giustificò, pur negandone la legalità (a differenza di quanto aveva fatto con il precedente iracheno), trovandosi comunque smarrito di fronte alle nuove guerre asimmetriche e "umanitarie", figlie del disordine mondiale. Ormai molto anziano (morirà il 9 gennaio 2004, a 94 anni), il filosofo non scriverà più nulla di significativo sulle campagne belliche contro il terrorismo, germogliate dall'«11 settembre».
Dal lavoro di Scirocco emerge un Bobbio forse un po' diverso da quello canonizzato a sinistra. Un Bobbio più realista che utopista, più liberale che socialista, più attratto dal pessimismo di Hobbes che dal cauto ottimismo di Kant. Un conto, infatti, è ragionare in linea di principio sull'orrore del fungo atomico, com'era d'uso negli anni Sessanta, ai tempi delle grandi marce per la pace. Un altro, invece, schierarsi dinnanzi a un conflitto convenzionale, quale fu la prima guerra del Golfo, in cui Bobbio rifiutò di diventare il «bersaglio comodo di tutti i pacifisti da strapazzo». Il filosofo era, anagraficamente, un figlio dello spirito di Monaco e del cedimento al Führer, e nel Rais di Bagdad pensò di scorgere, a torto o a ragione, l'ombra di un nuovo Hitler. «Possibile – scrisse al suo allievo Enrico Peyretti – che non venga mai in mente al pacifista assoluto che il rifiuto totale della violenza contribuisca a far prosperare la razza dei violenti?».
Sia chiaro. Bobbio era senz'altro meno "barricadero" di quasi tutti i suoi discepoli ed estimatori (Voi estremisti, io moderato, s'intitola un'intervista rilasciata al «manifesto» il 28 maggio 1991). Però non aveva nulla da spartire con i guerrafondai musclé che cominceranno ad affiorare proprio nel '91 (da noi Giuliano Ferrara e Lucio Colletti, ma anche un irriconoscibile Giorgio Bocca), per poi proliferare nel decennio successivo, in coincidenza con le fallimentari crociate occidentali contro il terrorismo. È anzi facile immaginare che avrebbe manifestato perplessità verso la dottrina della "guerra preventiva", nonché insofferenza per i toni apocalittici di Oriana Fallaci. Tanto più che nei suoi tormentati giudizi degli anni Novanta non mancava mai di sottolineare la stretta connessione, in una guerra, fra la legittimità e l'efficacia: senza di che le popolazioni civili avrebbero pagato prezzi pesantissimi, come in effetti è sempre avvenuto nell'ultimo ventennio.
Resta indubbio, d'altra parte, che dal '91 in poi il discorso sulla guerra "calda" (un'opzione di nuovo praticabile, dopo la lunga parentesi della guerra fredda) è stato egemonizzato da intellettuali privi d'ogni esperienza sul campo. Le foto che ritraggono insigni interventisti della Grande Guerra, da Prezzolini a Salvemini, immersi nel fango delle trincee, fra topi e scarafaggi, appartengono a un passato ormai ingiallito. E sarebbe impensabile, oggi, il caso di un Berto Ricci, promettente scrittore e amico fraterno di Montanelli, morto volontario in Libia nel '41. La guerra odierna è invece sviscerata nel chiuso di felpati think tank. Ve lo figurate un Giuliano Ferrara che, in divisa d'ordinanza, spedisce cartoline postali dal fronte?
Un'ultima considerazione. Non c'è nulla di più scivoloso di un conflitto armato. Dopo essere deflagrato, sfugge di mano ai suoi promotori. L'esito finale non coincide mai con quello preventivato. Eppure, pochi intellettuali hanno riflettuto su questa elementare verità, enunciata fra l'altro da conservatori realisti ben lontani da ogni irenismo, quali Benedetto Croce e Sergio Romano. Molto più gratificante, per i chierici, è stato sovrapporre alla guerra reale una guerra immaginata, proiettandovi il proprio ego. Ecco perché, riletti dagli storici, i loro interventi spesso non colgono il bersaglio. È significativo che l'unica guerra davvero "giusta", quella condotta dagli Alleati contro Hitler, abbia registrato un vuoto di partecipazione nel mondo della cultura italiana. Molti rimasero fino all'ultimo dalla parte sbagliata, altri s'eclissarono nella torre d'avorio e soltanto pochi compresero, sin dall'inizio, la portata dello scontro. Del resto, come ammetterà lo stesso Bobbio nel '92, «all'uomo di studio non si addice il mestiere di profeta».
Giovanni Scirocco, L'intellettuale nel labirinto. Norberto Bobbio e la "guerra giusta", prefazione di Pietro Polito, Biblion Edizioni, Milano,
pagg. 126, € 10,00
«Il Sole 24 Ore» del 29 settembre 2013
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