Incontro con Michael Slaby e Betsy Hoover, artefici del successo digitale di Obama: così cambierà la comunicazione politica
di Marco Bardazzi
Se le ultime due campagne elettorali americane vi sono sembrate tecnologiche, aspettate di vedere le prossime. Chiunque siano i candidati che si sfideranno nel 2016 per la successione a Barack Obama alla Casa Bianca, lo scenario digitale su cui si muoveranno farà sembrare archeologia le innovazioni introdotte dal presidente nel 2008 e 2012. Le parole d’ordine? Non più soltanto «social» e «partecipazione», ma anche «reti delle reti», «mappe relazionali», «interconnessioni».
Le direttrici dell’evoluzione della comunicazione politica made in Usa si intuiscono conversando con Michael Slaby e Betsy Hoover, due tra i principali artefici del successo di Obama in campo digitale. Lui è stato alla guida dello staff digitale del futuro presidente nel 2008, «quando eravamo - racconta - una sorta di start-up politica, gli sfidanti trasandati che nessuno si aspettava potessero vincere». Poi ha fatto il bis nel 2012, come capo dell’innovazione e dell’integrazione nel quartier generale obamiano a Chicago. Lei ha guidato l’organizzazione digitale dello staff di Obama for America 2012. Su quelle esperienze hanno costruito carriere da consulenti di strategie politiche, non solo negli Stati Uniti. In questi giorni girano l’Italia e ieri erano in visita a La Stampa, per uno scambio d’idee sul futuro digitale con il direttore Mario Calabresi e la redazione.
Per Slaby e Hoover è ormai chiaro che la politica, come tanti altri ambiti umani, in futuro sarà preclusa a chi non abbia almeno una consapevolezza di base su come mutano le relazioni nell’era del web. Ma organizzare le comunità e coinvolgere più gente attraverso i social media, come Obama ha fatto nel 2008 e poi su larga scala nel 2012, non basta più. «La frammentazione con cui avevamo a che fare in quegli anni - spiega Slaby - ora è sfociata in nuove interconnessioni. Dobbiamo ripensare completamente le modalità con cui raggiungere le persone. Non c’è più il messaggio da diffondere in stile broadcast, come se fosse comunicazione aziendale. Siamo di fronte a nuovi scenari di partecipazione che richiedono nuove mappe».
Come esploratori che si avventurano per la prima volta in terre ancora sconosciute, gli strateghi americani associano l’attività politica alla cartografia: le piattaforme social stanno creando reti di cui ciascuno di noi è un nodo, e queste realtà vanno mappate per capire quali rotte seguire. Uno staff elettorale efficiente dovrà essere in questo senso un equipaggio capace di muoversi in un mare di rapporti personali, per trovare i soggetti da coinvolgere in una campagna elettorale. Ovviamente, avvertono i consulenti digitali di Obama, ciò che funziona negli Usa non può essere replicato acriticamente dovunque. Ma le regole di base sono le stesse.
«A chi decide di candidarsi a una carica e pensa a una strategia digitale - spiega Betsy Hoover - suggerisco in primo luogo di fare un passo indietro e riflettere sul fatto che l’obiettivo di fondo deve essere coinvolgersi con gli elettori, trovarli e restare in rapporto con loro nel tempo. Con questo in mente, occorre cominciare a pensare a che tipo di linguaggio serve, quali piattaforme usare. Occorre poi investire nel proprio programma digitale. Costruire una squadra, trovare le persone giuste per eseguire la strategia».
Le tecnologie, i social come Facebook o Twitter in questo scenario divengono «moltiplicatori di forze», dice Slaby, come lo sono stati nel progetto «Narwhal», il nome in codice che era stato dato all’apparato tecnologico messo in campo nel 2012 nel quartier generale di Obama. «Lo scopo, ieri come nelle prossime elezioni, deve essere quello di dare più potere agli elettori, perché giochino un ruolo di primo piano nell’organizzazione elettorale». Comprendere le nuove mappe delle relazioni, i rapporti tra i «nodi» delle reti di reti, serve a raggiungere in modo più efficiente questo traguardo.
Ricette che funzionano anche in Italia? Slaby pensa di sì. Lo scenario politico italiano lo conosce abbastanza da poterlo giudicare. L’anno scorso ha tenuto a Montecitorio una lezione di comunicazione ai politici di casa nostra. All’inizio di settembre era a Cernobbio, seduto al fianco di Gianroberto Casaleggio, a parlare a una platea dove lo ascoltava anche il premier Enrico Letta. «C’è molta innovazione interessante in Italia», spiega. «L’esistenza e il successo del Movimento 5 Stelle sono la prova che la gente è interessata e anche affamata di avere nuovi modi per essere coinvolta». Un discorso simile vale per il fenomeno Matteo Renzi, che Slaby ha incontrato e che considera un’altra novità positiva per il Paese. Se uno poi gli chiede se lavorerebbe come consulente per il sindaco di Firenze, o magari per Letta, l’ex stratega di Obama sorride divertito e non esclude nulla.
Ma i due giovani esperti americani mettono in guardia chiunque pensi che la politica nell’era digitale sia solo una faccenda di tecnologia, organizzazione, risorse. «L’interconnessione ci rende più appassionati che mai alle cose che stanno davvero a cuore», dice Slaby. E più abili nello smascherare chi si serve dei social solo per fare le classiche promesse da politico.
Le direttrici dell’evoluzione della comunicazione politica made in Usa si intuiscono conversando con Michael Slaby e Betsy Hoover, due tra i principali artefici del successo di Obama in campo digitale. Lui è stato alla guida dello staff digitale del futuro presidente nel 2008, «quando eravamo - racconta - una sorta di start-up politica, gli sfidanti trasandati che nessuno si aspettava potessero vincere». Poi ha fatto il bis nel 2012, come capo dell’innovazione e dell’integrazione nel quartier generale obamiano a Chicago. Lei ha guidato l’organizzazione digitale dello staff di Obama for America 2012. Su quelle esperienze hanno costruito carriere da consulenti di strategie politiche, non solo negli Stati Uniti. In questi giorni girano l’Italia e ieri erano in visita a La Stampa, per uno scambio d’idee sul futuro digitale con il direttore Mario Calabresi e la redazione.
Per Slaby e Hoover è ormai chiaro che la politica, come tanti altri ambiti umani, in futuro sarà preclusa a chi non abbia almeno una consapevolezza di base su come mutano le relazioni nell’era del web. Ma organizzare le comunità e coinvolgere più gente attraverso i social media, come Obama ha fatto nel 2008 e poi su larga scala nel 2012, non basta più. «La frammentazione con cui avevamo a che fare in quegli anni - spiega Slaby - ora è sfociata in nuove interconnessioni. Dobbiamo ripensare completamente le modalità con cui raggiungere le persone. Non c’è più il messaggio da diffondere in stile broadcast, come se fosse comunicazione aziendale. Siamo di fronte a nuovi scenari di partecipazione che richiedono nuove mappe».
Come esploratori che si avventurano per la prima volta in terre ancora sconosciute, gli strateghi americani associano l’attività politica alla cartografia: le piattaforme social stanno creando reti di cui ciascuno di noi è un nodo, e queste realtà vanno mappate per capire quali rotte seguire. Uno staff elettorale efficiente dovrà essere in questo senso un equipaggio capace di muoversi in un mare di rapporti personali, per trovare i soggetti da coinvolgere in una campagna elettorale. Ovviamente, avvertono i consulenti digitali di Obama, ciò che funziona negli Usa non può essere replicato acriticamente dovunque. Ma le regole di base sono le stesse.
«A chi decide di candidarsi a una carica e pensa a una strategia digitale - spiega Betsy Hoover - suggerisco in primo luogo di fare un passo indietro e riflettere sul fatto che l’obiettivo di fondo deve essere coinvolgersi con gli elettori, trovarli e restare in rapporto con loro nel tempo. Con questo in mente, occorre cominciare a pensare a che tipo di linguaggio serve, quali piattaforme usare. Occorre poi investire nel proprio programma digitale. Costruire una squadra, trovare le persone giuste per eseguire la strategia».
Le tecnologie, i social come Facebook o Twitter in questo scenario divengono «moltiplicatori di forze», dice Slaby, come lo sono stati nel progetto «Narwhal», il nome in codice che era stato dato all’apparato tecnologico messo in campo nel 2012 nel quartier generale di Obama. «Lo scopo, ieri come nelle prossime elezioni, deve essere quello di dare più potere agli elettori, perché giochino un ruolo di primo piano nell’organizzazione elettorale». Comprendere le nuove mappe delle relazioni, i rapporti tra i «nodi» delle reti di reti, serve a raggiungere in modo più efficiente questo traguardo.
Ricette che funzionano anche in Italia? Slaby pensa di sì. Lo scenario politico italiano lo conosce abbastanza da poterlo giudicare. L’anno scorso ha tenuto a Montecitorio una lezione di comunicazione ai politici di casa nostra. All’inizio di settembre era a Cernobbio, seduto al fianco di Gianroberto Casaleggio, a parlare a una platea dove lo ascoltava anche il premier Enrico Letta. «C’è molta innovazione interessante in Italia», spiega. «L’esistenza e il successo del Movimento 5 Stelle sono la prova che la gente è interessata e anche affamata di avere nuovi modi per essere coinvolta». Un discorso simile vale per il fenomeno Matteo Renzi, che Slaby ha incontrato e che considera un’altra novità positiva per il Paese. Se uno poi gli chiede se lavorerebbe come consulente per il sindaco di Firenze, o magari per Letta, l’ex stratega di Obama sorride divertito e non esclude nulla.
Ma i due giovani esperti americani mettono in guardia chiunque pensi che la politica nell’era digitale sia solo una faccenda di tecnologia, organizzazione, risorse. «L’interconnessione ci rende più appassionati che mai alle cose che stanno davvero a cuore», dice Slaby. E più abili nello smascherare chi si serve dei social solo per fare le classiche promesse da politico.
«La Stampa» del 24 settembre 2013
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