Gruppo 63 (prima puntata)
di Alessandro Zaccuri
Sarà che tutto è cominciato in Sicilia, ma anche quella volta per fare la rivoluzione ci volle un barone. «Ma no – corregge subito Nanni Balestrini –, nel ’63 non eravamo rivoluzionari. Riformisti, semmai. E ci occupavamo di letteratura. Mica volevamo far cadere il governo». Per quello, in effetti, ci sarebbe stato tempo. Intellettuale sopraffino e poeta «novissimo», negli anni Settanta Balestrini militò in Autonomia Operaia, fu coinvolto nell’inchiesta del 7 aprile, scontò un lungo periodo di clandestinità in Francia. Stagione drammatica e ancora controversa, della quale il Balestrini di oggi non rinnega nulla. Ha appena compiuto 78 anni, negli Oscar Mondadori è da poco uscita un’Antologica dei suoi versi e, a proposito del Gruppo 63, ci tiene a precisare che non solo non era rivoluzionario, ma in fondo non era neppure un gruppo.
Però almeno il barone c’era?
«Sì, e si chiamava Francesco Agnello. Era uno dei finanziatori della Settimana internazionale di Musica nuova che si svolgeva appunto a Palermo. C’ero andato nel ’62, per ascoltare i Cori di Didone che Luigi Nono aveva tratto da Ungaretti. Fu proprio Nono, che era stato di recente in Germania, a parlarmi del Gruppo 47. Mi parlava con entusiasmo di questi scrittori che si ritrovavano per leggere e commentare i propri testi in assoluta libertà. Bisognerebbe farlo anche in Italia, diceva. Il barone Agnello, che partecipava alla conversazione, si entusiasmò a sua volta. E così, un anno dopo, a Palermo c’eravamo anche noi».
In gruppo?
«I gruppi, nel caso, si erano già formati in precedenza, attorno a riviste come “Il Verri” o con antologie come quella dei Novissimi. Gli incontri erano piuttosto un dispositivo, un modo per dare voce alla nostra generazione, composta da persone che non appartenevano più al mondo del dopoguerra ed erano interessate alle trasformazioni in atto. Non eravamo noi a volerci distinguere, era l’Italia che stava cambiando».
Il 1963, in effetti, segna l’apice del miracolo economico.
«Che non riguardava soltanto l’industrializzazione del Paese. Stava nascendo una nuova società, non più contadina ma urbana. Il movimento migratorio dal Sud al Nord, poi, cambiava il volto delle città, in una dimensione che oggi diremmo “multiculturale”. I dialetti perdevano forza e la lingua italiana si imponeva come una realtà viva, condivisa, al di là di ogni convenzione elitaria. Era la lingua della televisione, la lingua della scuola dell’obbligo. Di tutto questo pareva che gli scrittori non volessero rendersi conto. Autori come Bassani o Cassola, con i quali non tardammo a polemizzare, scrivevano romanzi sulla cui qualità non volevamo discutere, ma che ci parevano caratterizzati da una logica estranea alla contemporaneità. In quei libri, come in altri dell’epoca, prevalevano le logiche provinciali di un’Italia che ormai non esisteva più. I personaggi si esprimevano in un italiano astratto, che non corrispondeva affatto alla lingua diffusa intorno a noi».
Di nuovo la questione della lingua, insomma.
«Certo, la questione della lingua, che nella letteratura italiana ha sempre svolto un ruolo determinante. Basti pensare alle posizioni di Dante e Leopardi, che non per niente furono poeti d’avanguardia. In più noi avevamo gli strumenti teorici per intervenire: la linguistica di De Saussure, lo strutturalismo... La nostra visione, in ogni caso, era internazionale, e non era solo letteraria. Leggevamo Eliot, Pound e Céline, ascoltavamo molta musica contemporanea, eravamo interessati a quanto stava avvenendo nelle arti figurative».
Ed è per questa strada che lei è arrivato al computer?
Calcolatore elettronico, allora lo chiamavano così. Era uno strumento che rendeva più veloce un certo tipo di composizione combinatoria. Intendiamoci, avrei potuto riorganizzare tra loro i poemi di Come si agisce o le sezioni narrative di Tristano anche per conto mio, manualmente. Ma il calcolatore operava con maggior rapidità, garantendo per di più un risultato del tutto inatteso. Mi ritrovavo a leggere qualcosa a cui, come autore, non avevo neppure pensato».
Da qui l’accusa di oscurità?
«A me personalmente, così come ad altri poeti in quel momento, premeva esplorare le possibilità del linguaggio, forzare il confine tra significante e significato, di volta in volta storpiando o anestetizzando le singole parole. Sapevamo che questo procedimento non poteva essere portato alle estreme conseguenze, altrimenti ci saremmo trovati alle prese con meri suoni. Un qualche significato la parola lo conserva sempre».
Ma non è un’operazione più concettuale che creativa?
«Conosco l’obiezione. Ci si accusa di aver prodotto saggi critici e non opere. Ora, a parte il fatto che di critica c’era, e c’è, un estremo bisogno, mi limiterei a elencare i nomi di Manganelli, Balestrini, Sanguineti, Arbasino, Malerba. Non mi sembra che i loro libri siano irrilevanti. Più che altro, nell’ultimo mezzo secolo non vedo un grande affollamento di autori memorabili, a parte questi appena elencati».
Qualche errore l’avrete fatto anche voi, no?
«Errori no. Forse non siamo riusciti a prevedere in tutta la sua vastità l’evoluzione della società del consumo, che pure avevamo individuato come avversario polemico. Ma sono convinto che quello che è accaduto fosse in larga parte imprevedibile».
Però almeno il barone c’era?
«Sì, e si chiamava Francesco Agnello. Era uno dei finanziatori della Settimana internazionale di Musica nuova che si svolgeva appunto a Palermo. C’ero andato nel ’62, per ascoltare i Cori di Didone che Luigi Nono aveva tratto da Ungaretti. Fu proprio Nono, che era stato di recente in Germania, a parlarmi del Gruppo 47. Mi parlava con entusiasmo di questi scrittori che si ritrovavano per leggere e commentare i propri testi in assoluta libertà. Bisognerebbe farlo anche in Italia, diceva. Il barone Agnello, che partecipava alla conversazione, si entusiasmò a sua volta. E così, un anno dopo, a Palermo c’eravamo anche noi».
In gruppo?
«I gruppi, nel caso, si erano già formati in precedenza, attorno a riviste come “Il Verri” o con antologie come quella dei Novissimi. Gli incontri erano piuttosto un dispositivo, un modo per dare voce alla nostra generazione, composta da persone che non appartenevano più al mondo del dopoguerra ed erano interessate alle trasformazioni in atto. Non eravamo noi a volerci distinguere, era l’Italia che stava cambiando».
Il 1963, in effetti, segna l’apice del miracolo economico.
«Che non riguardava soltanto l’industrializzazione del Paese. Stava nascendo una nuova società, non più contadina ma urbana. Il movimento migratorio dal Sud al Nord, poi, cambiava il volto delle città, in una dimensione che oggi diremmo “multiculturale”. I dialetti perdevano forza e la lingua italiana si imponeva come una realtà viva, condivisa, al di là di ogni convenzione elitaria. Era la lingua della televisione, la lingua della scuola dell’obbligo. Di tutto questo pareva che gli scrittori non volessero rendersi conto. Autori come Bassani o Cassola, con i quali non tardammo a polemizzare, scrivevano romanzi sulla cui qualità non volevamo discutere, ma che ci parevano caratterizzati da una logica estranea alla contemporaneità. In quei libri, come in altri dell’epoca, prevalevano le logiche provinciali di un’Italia che ormai non esisteva più. I personaggi si esprimevano in un italiano astratto, che non corrispondeva affatto alla lingua diffusa intorno a noi».
Di nuovo la questione della lingua, insomma.
«Certo, la questione della lingua, che nella letteratura italiana ha sempre svolto un ruolo determinante. Basti pensare alle posizioni di Dante e Leopardi, che non per niente furono poeti d’avanguardia. In più noi avevamo gli strumenti teorici per intervenire: la linguistica di De Saussure, lo strutturalismo... La nostra visione, in ogni caso, era internazionale, e non era solo letteraria. Leggevamo Eliot, Pound e Céline, ascoltavamo molta musica contemporanea, eravamo interessati a quanto stava avvenendo nelle arti figurative».
Ed è per questa strada che lei è arrivato al computer?
Calcolatore elettronico, allora lo chiamavano così. Era uno strumento che rendeva più veloce un certo tipo di composizione combinatoria. Intendiamoci, avrei potuto riorganizzare tra loro i poemi di Come si agisce o le sezioni narrative di Tristano anche per conto mio, manualmente. Ma il calcolatore operava con maggior rapidità, garantendo per di più un risultato del tutto inatteso. Mi ritrovavo a leggere qualcosa a cui, come autore, non avevo neppure pensato».
Da qui l’accusa di oscurità?
«A me personalmente, così come ad altri poeti in quel momento, premeva esplorare le possibilità del linguaggio, forzare il confine tra significante e significato, di volta in volta storpiando o anestetizzando le singole parole. Sapevamo che questo procedimento non poteva essere portato alle estreme conseguenze, altrimenti ci saremmo trovati alle prese con meri suoni. Un qualche significato la parola lo conserva sempre».
Ma non è un’operazione più concettuale che creativa?
«Conosco l’obiezione. Ci si accusa di aver prodotto saggi critici e non opere. Ora, a parte il fatto che di critica c’era, e c’è, un estremo bisogno, mi limiterei a elencare i nomi di Manganelli, Balestrini, Sanguineti, Arbasino, Malerba. Non mi sembra che i loro libri siano irrilevanti. Più che altro, nell’ultimo mezzo secolo non vedo un grande affollamento di autori memorabili, a parte questi appena elencati».
Qualche errore l’avrete fatto anche voi, no?
«Errori no. Forse non siamo riusciti a prevedere in tutta la sua vastità l’evoluzione della società del consumo, che pure avevamo individuato come avversario polemico. Ma sono convinto che quello che è accaduto fosse in larga parte imprevedibile».
«Avvenire» del 3 agosto 2013
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