21 luglio 2013

Omofobia, basta la parola ​

La proprietà performativa di alcuni termini: finiscono con il generare ciò che dicono
di Paola Ricci Sindoni *
Era del filologo tedesco di origine ebraiche, Victor von Kemplerer la convinzione che «la lingua crea e pensa per te», al posto tuo siamo, cioè, condizionati dall’ambiente linguistico entro il quale siamo immersi e che determina i nostri comportamenti. Il linguaggio, d’altronde, subisce di continuo una ricreazione ideologica e culturale che affianca, accanto al suo carattere descrittivo, anche una proprietà performativa.
Certe parole, insomma, hanno il potere di generare ciò che dicono, enfatizzando in modo persistente un termine, creduto infine come reale. Vogliamo provare a chiarire semanticamente la parola 'omofobia'? Essa consiste, come si sa, di due suffissi: omo , che sta per omosessualità, e fobia. La fobia è desunta dalla terminologia psichiatrica; denota l’ avversione patologica per cose o situazioni e il paziente, affetto da tale sindrome, percepisce con sofferenza il restringimento ossessivo del suo mondo vitale.
È anche vero che il termine 'fobia' è stato nel tempo 'performato' all’interno del linguaggio comune e in quello politico per indicare una ostilità irragionevole e preconcetta verso persone o gruppi di persone: verso popoli diversi (da qui la 'xenofobia'), in nome della superiorità della razza, come drammaticamente hanno dimostrato i totalitarismi di Novecento.
L’insulto razzista, ancora presente in alcune subculture, genera giustamente lo sdegno morale e la riprovazione giuridica: ne è esempio il caso recente legato all’offesa verso il nostro ministro Cécile Kyenge. E l’omofobia? La persistenza di pregiudizi culturali sull’omosessualità continua purtroppo a mostrare qualche segno di vitalità, ma non certo ha raggiunto nel nostro Paese forme aggressive e livelli di guardia così alti, da esigere un contrasto legislativo.
La cronaca di questi ultimi anni ci consegna episodi di discriminazione, più che di ostilità violenta, tali da provocare impossibilità, da parte dei gay, di organizzare la propria vita personale e lavorativa. Il fenomeno, ce lo dicono gli psicologi, è spesso legato ad ambienti segnati da pseudoculture maschiliste e a fasi della vita adolescenziale e giovanile, quando ancora si lotta per la formazione della propria identità sessuale. Si sono di recente sentiti casi di violenza fisica o di omicidio da iscriversi a fobia/avversione patologica verso i gay? Oppure episodi significativi di persone omosessuali, discriminate nei concorsi pubblici, nell’ambito della ricerca scientifica o nell’impegno politico, proprio in ragione della loro differente predisposizione sessuale?
Pare, al contrario, che, grazie anche al carattere performativo/culturale del linguaggio, specie quello cinematografico e televisivo, si stanno veicolando figure di omosessuali (sempre e solo denominate «gay») come persone sensibili e generose, con un carattere rassicurante e tenero, sempre pronti a soccorrere le coppie etero, perennemente in crisi. Non esiste, dunque, l’omofobia, come concreta avversione odiosa nei confronti di differenti orientamenti sessuali? Certo che sì, spesso alimentata da uomini maschilisti, per così dire, che insieme a agli omosessuali, odiano le donne (e persino le ammazzano), credendosi padroni della loro vite.
Non c’è dubbio che occorre lavorare culturalmente perché ogni essere umano sia salvaguardato nella sua dignità e protetto da ogni forma di discriminazione: donne fragili sottomesse a uomini violenti, giovani in ricerca della propria identità, maschi e femmine con una differente predisposizione sessuale, persone dal colore diverso della pelle. Affidiamoci piuttosto alle regole del buon senso e al linguaggio discorsivo della gente comune. Quella gente che oggi assiste con rassegnazione frustrante al 'lavoro' della politica, oppressa da ben altre impellenti priorità, e stanca di questioni ideologiche che richiedono più formazione culturale e meno inutili vincoli giuridici.
* Presidente di Scienza&Vita
«Avvenire» del 20 luglio 2013

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