Politica e giustizia
di Piero Ostellino
Un magistrato scrive al Corriere che un mio articolo sulla condanna di Silvio e Paolo Berlusconi per la pubblicazione sul Giornale della telefonata di Fassino «contiene affermazioni non veritiere e offensive della reputazione dei magistrati che si sono occupati della vicenda». Più avanti aggiunge, in modo piuttosto prolisso, ma lo stesso chiaro: «Ostellino, scrivendo (...) che ci sia "segreto d'ufficio e segreto d'ufficio a seconda di chi ne trae profitto... non mi risulta che organi di stampa specializzati nel pubblicare segreti d'ufficio usciti chissà come da Palazzo di giustizia e dannosi per la reputazione di Silvio Berlusconi siano stati condannati come lo sono stati Silvio e Paolo Berlusconi; a me questa differenza tra segreti d'ufficio ricorda i processi staliniani degli anni Trenta", insinua che la Procura e in particolare il sottoscritto... si comportino diversamente a seconda di chi siano le persone danneggiate dal reato di rivelazione di segreto d'ufficio». Non ho fatto alcuna affermazione «offensiva» e, tanto meno, ho «insinuato» che certi magistrati si comportino diversamente a seconda dei casi. La mia non era, non è, neppure un'opinione, comunque legittima, in un Paese (ancora) libero, quanto un'opinione opposta. Ho semplicemente parlato di dati di fatto per accertare i quali basta scorrere le cronache giudiziarie degli ultimi anni. Aggiungo che trasformare i fatti in opinioni e in insinuazioni e definirle «offensive» del sistema di potere costituito è tipico dei regimi totalitari. «Piove» diventa «governo ladro» e il meteorologo finisce nei guai...
Vorrei, perciò, rassicurare sia il magistrato - che, nel comprensibile tentativo di difendere se stesso e la propria corporazione si è forse spinto un po' troppo oltre logica e senso comune - sia alcuni miei lettori, che mi accusano di avercela con la magistratura. Ci mancherebbe. Non ce l'ho affatto con la magistratura. Ce l'ho (solo) con la convinzione di certi magistrati (attenzione: certi magistrati, non tutti) che la Verità, quella con la V maiuscola, sia ciò che essi sostengono non solo nelle sentenze, ma nel corso di un qualsiasi discussione, che trasformano volentieri in un processo a chi non è della loro opinione. Non un riflesso condizionato del mestiere che fanno, ma una forma mentale autoritaria. Ce l'ho, dunque, con chi si ritiene il solo e autentico depositario della verità, con la v minuscola, perché è la sua e sulla base della presunzione, corporativa e sbagliata, che vincere un concorso pubblico conferisca una funzione etica di «raddrizzare il legno storto dell'umanità». Voglio persino aggiungere che, a mio avviso, l'enorme discrezionalità - attenzione: discrezionalità, non arbitrarietà - di cui i magistrati godono non è frutto della loro soggettività, ma è la conseguenza oggettiva di una legislazione pletorica, contraddittoria, costellata di eccezioni e di rinvii a norme precedenti, che induce il magistrato, per venirne a capo, a attribuire alle sue inchieste un carattere «casuistico» - l'analisi caso per caso e la diversità di giudizio su casi uguali - secondo la prassi già dei processi condotti dai gesuiti durante l'Inquisizione. Quando la magistratura - un organismo fatto di funzionari dello Stato pagati dall'erario - era uno strumento di prevenzione e repressione del dissenso c'era, paradossalmente, persino una maggiore certezza del diritto perché la sua azione era dettata dall'arbitrio del tiranno che si sapeva sempre dove andava a parare...
Mi rendo anche conto che sostenere i diritti di libertà soggettivi, e persino lo Stato di diritto, in un Paese non ancora culturalmente e politicamente uscito in modo definitivo da un ventennale regime autoritario (caduto 68 anni fa!) e lacerato, ora, dalla contrapposizione fra berlusconiani e antiberlusconiani, che ne è la continuazione sotto altra veste, sia impresa pressoché disperata. Ma, malgrado tutto, non dispero e tengo duro. Si è fatti come si è, diceva Sciascia, e non si cambia alla mia età e con la mia formazione culturale. Si veda, ad esempio, la sentenza della Cassazione che condanna chi dia dell'Italia un giudizio, diciamo così... fognario. D'accordo che l'assimilazione del Paese al contenuto delle fogne è volgarotta e, certamente, non veritiera; ma è pur sempre un'opinione, ancorché sbagliata. Resta, però, il fatto che, forse, neppure durante il Ventennio si era giunti a una tale difesa di legge dell'onore della Nazione. «Sole che sorgi libero e giocondo...tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma...» a me pareva una grossolana esagerazione allora, figuriamoci adesso.
Nella mia rubrica "Il dubbio" di sabato scorso avevo parlato - citando quanti avevano sostenuto che Silvio Berlusconi meritava, comunque, di essere condannato per il caso Unipol «perché è un mascalzone» - del problematico rapporto degli italiani col Diritto. Avevo scritto che anche il peggiore dei criminali, in uno Stato di diritto, deve essere giudicato, con tutte le garanzie dell'Habeas corpus, per ciò che ha fatto, non per quello che la parte dell'opinione pubblica ad esso politicamente avversa pensa che sia. Mi scrive un lettore: «Cambi registro, ormai sappiamo che Berlusconi è un martire e che i giudici sono i suoi aguzzini. Anche se lo fosse si sa difendere da solo e... non ha bisogno di Ostellino a meno che non faccia parte del coro». E un altro: «Guarda che non frega niente a nessuno dei processi a Berlusconi, a parte te e Ferrara, occupati di cose serie se ti riesce». A me non pareva di aver difeso Berlusconi, ma di essermi occupato di cose serie, scrivendo di Stato di diritto e di diritti del cittadino. Ma tant'è... certi italiani non vogliono neppure sentirne parlare.
Che dire, allora? È ancora lecito pensare - sia chiaro, solo pensare - che un bel numero di italiani sono cittadini non del Paese della (volgare) definizione fognaria, ma di un Paese che, malgrado si dichiari enfaticamente «laico, democratico, antifascista», è rimasto, in gran parte, culturalmente e psicologicamente fascista? Personalmente, lo penso e non mi tiro indietro dallo scriverlo; non con la presunzione di fare proseliti al liberalismo, ma solo con la convinzione sia giusto. Ma mi chiedo anche: perché a chi voglia semplicemente vivere in uno Stato di diritto, e in una democrazia liberale, diciamo pure in un Paese civile, non resta che constatare l'«inutilità» delle proprie parole e vergognarsi di essere italiano?
Vorrei, perciò, rassicurare sia il magistrato - che, nel comprensibile tentativo di difendere se stesso e la propria corporazione si è forse spinto un po' troppo oltre logica e senso comune - sia alcuni miei lettori, che mi accusano di avercela con la magistratura. Ci mancherebbe. Non ce l'ho affatto con la magistratura. Ce l'ho (solo) con la convinzione di certi magistrati (attenzione: certi magistrati, non tutti) che la Verità, quella con la V maiuscola, sia ciò che essi sostengono non solo nelle sentenze, ma nel corso di un qualsiasi discussione, che trasformano volentieri in un processo a chi non è della loro opinione. Non un riflesso condizionato del mestiere che fanno, ma una forma mentale autoritaria. Ce l'ho, dunque, con chi si ritiene il solo e autentico depositario della verità, con la v minuscola, perché è la sua e sulla base della presunzione, corporativa e sbagliata, che vincere un concorso pubblico conferisca una funzione etica di «raddrizzare il legno storto dell'umanità». Voglio persino aggiungere che, a mio avviso, l'enorme discrezionalità - attenzione: discrezionalità, non arbitrarietà - di cui i magistrati godono non è frutto della loro soggettività, ma è la conseguenza oggettiva di una legislazione pletorica, contraddittoria, costellata di eccezioni e di rinvii a norme precedenti, che induce il magistrato, per venirne a capo, a attribuire alle sue inchieste un carattere «casuistico» - l'analisi caso per caso e la diversità di giudizio su casi uguali - secondo la prassi già dei processi condotti dai gesuiti durante l'Inquisizione. Quando la magistratura - un organismo fatto di funzionari dello Stato pagati dall'erario - era uno strumento di prevenzione e repressione del dissenso c'era, paradossalmente, persino una maggiore certezza del diritto perché la sua azione era dettata dall'arbitrio del tiranno che si sapeva sempre dove andava a parare...
Mi rendo anche conto che sostenere i diritti di libertà soggettivi, e persino lo Stato di diritto, in un Paese non ancora culturalmente e politicamente uscito in modo definitivo da un ventennale regime autoritario (caduto 68 anni fa!) e lacerato, ora, dalla contrapposizione fra berlusconiani e antiberlusconiani, che ne è la continuazione sotto altra veste, sia impresa pressoché disperata. Ma, malgrado tutto, non dispero e tengo duro. Si è fatti come si è, diceva Sciascia, e non si cambia alla mia età e con la mia formazione culturale. Si veda, ad esempio, la sentenza della Cassazione che condanna chi dia dell'Italia un giudizio, diciamo così... fognario. D'accordo che l'assimilazione del Paese al contenuto delle fogne è volgarotta e, certamente, non veritiera; ma è pur sempre un'opinione, ancorché sbagliata. Resta, però, il fatto che, forse, neppure durante il Ventennio si era giunti a una tale difesa di legge dell'onore della Nazione. «Sole che sorgi libero e giocondo...tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma...» a me pareva una grossolana esagerazione allora, figuriamoci adesso.
Nella mia rubrica "Il dubbio" di sabato scorso avevo parlato - citando quanti avevano sostenuto che Silvio Berlusconi meritava, comunque, di essere condannato per il caso Unipol «perché è un mascalzone» - del problematico rapporto degli italiani col Diritto. Avevo scritto che anche il peggiore dei criminali, in uno Stato di diritto, deve essere giudicato, con tutte le garanzie dell'Habeas corpus, per ciò che ha fatto, non per quello che la parte dell'opinione pubblica ad esso politicamente avversa pensa che sia. Mi scrive un lettore: «Cambi registro, ormai sappiamo che Berlusconi è un martire e che i giudici sono i suoi aguzzini. Anche se lo fosse si sa difendere da solo e... non ha bisogno di Ostellino a meno che non faccia parte del coro». E un altro: «Guarda che non frega niente a nessuno dei processi a Berlusconi, a parte te e Ferrara, occupati di cose serie se ti riesce». A me non pareva di aver difeso Berlusconi, ma di essermi occupato di cose serie, scrivendo di Stato di diritto e di diritti del cittadino. Ma tant'è... certi italiani non vogliono neppure sentirne parlare.
Che dire, allora? È ancora lecito pensare - sia chiaro, solo pensare - che un bel numero di italiani sono cittadini non del Paese della (volgare) definizione fognaria, ma di un Paese che, malgrado si dichiari enfaticamente «laico, democratico, antifascista», è rimasto, in gran parte, culturalmente e psicologicamente fascista? Personalmente, lo penso e non mi tiro indietro dallo scriverlo; non con la presunzione di fare proseliti al liberalismo, ma solo con la convinzione sia giusto. Ma mi chiedo anche: perché a chi voglia semplicemente vivere in uno Stato di diritto, e in una democrazia liberale, diciamo pure in un Paese civile, non resta che constatare l'«inutilità» delle proprie parole e vergognarsi di essere italiano?
«Corriere della Sera» del 9 luglio 2013
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