Una discussione tedesca, i destini di tutti
di Maurizio Ferrara
L’integrazione politica ci salverà?
Non ci vuole molta perspicacia per capire che il futuro dell’Europa dipende oggi dalla Germania. Il governo di Berlino è stato sinora alquanto riluttante a rivelare i propri piani strategici. In vista delle elezioni di settembre, Angela Merkel e gli altri leader politici si sono infatti sforzati di «de-politicizzare» il tema europeo, per non spaventare gli elettori ed evitare rigurgiti di nazionalismo e populismo. Al di fuori dell’arena elettorale, il dibattito tedesco è tuttaviamolto vivace. Negli ultimimesi si è accesa ad esempio una vera e propria controversia fra due intellettuali di grande calibro: il sociologo Wolfgang Streeck e il filosofo Jürgen Habermas. Oggetto del contendere è, appunto, il futuro dell’Unione Europea. Secondo Streeck, l’integrazione economica sta uccidendo la democrazia per difendere il capitalismo: meglio ripristinare al più presto i ripari dello Stato nazionale. Per Habermas invece l’approfondimento politico della Ue è l’unica via per salvare la democrazia e riconciliarla con il mercato. Pur toccando temi «alti» di teoria sociale, lo Streeck-Habermas Debatte ha avuto grandissima eco nei mezzi di informazione ed è un vero peccato che le barriere linguistiche ne abbiano sinora ostacolato una maggiore diffusione internazionale.
Streeck è uno dei più noti sociologi europei e ha diretto a lungo il prestigioso Istituto Max Planck per la ricerca sociale di Colonia. Negli anni Settanta è stato allievo di Adorno: ha dunque assimilato il pensiero neomarxista della celebre Scuola di Francoforte. Pochi mesi fa, Streeck ha pubblicato un libro dal titolo: Gekaufte Zeit, ossia «tempo comprato» (o «guadagnato», secondo l’edizione italiana). Con questa espressione sibillina l’autore vuole caratterizzare la strategia seguita dal «tardo capitalismo» (un concetto di marca tipicamente francofortese) per venire a patti con la democrazia, addomesticare i conflitti e scongiurare la propria crisi strutturale. Negli anni Sessanta, il sistema capitalistico comprò tempo con il welfare state keynesiano. Dopo la crisi petrolifera si servì del debito pubblico come grande ammortizzatore delle tensioni sociali e politiche. Poi è scoppiata la Grande Crisi. Ecco così l’ultima mossa: la trasformazione della Ue in una macchina al servizio del capitale (finanziario), al fine di soffocare le istanze della società tramite politiche di austerità e ricreare condizioni favorevoli al profitto tramite liberalizzazioni e concorrenza.
La prosa di Streeck è colorita, le sue accuse velenose. Durante la crisi il capitale finanziario ha collocato i suoi gendarmi (come Monti, Draghi, Papademos) direttamente nelle stanze dei bottoni, ha ordito intrighi machiavellici per tenere in sella leader impresentabili come Berlusconi. La Ue ha iniziato a ricattare apertamente i governi nazionali, costringendoli a conformare le loro decisioni agli interessi della finanza globale. L’obiettivo finale di questo tardo «tardo-capitalismo» è quello di liberarsi definitivamente della democrazia, consolidando un governo sovranazionale libero da condizionamenti, ispirato da un software «hayekiano» di sostegno al libero mercato.
Se il quadro è questo, l’unica soluzione (per la sinistra, ovviamente) secondo Streeck è quella di far saltare tutto, soprattutto l’euro, mettendo a nudo la favola del capitalismo «socialmente responsabile» e tornando al conflitto di classe socialdemocratico entro le mura dello Stato nazionale.
In una lunga recensione apparsa lo scorso maggio, Habermas ha rivolto critiche molte incisive alle tesi di Streeck. Come è noto, anche Habermas viene dalla Scuola di Francoforte, e infatti condivide l’idea che capitalismo e democrazia siano in costante tensione fra loro. Nel corso del tempo, tuttavia, il grande filosofo ha preso le distanze dal neomarxismo, avvicinandosi alla prospettiva weberiana e alla tradizione del liberalismo pragmatico ed egalitario. Streeck ha ragione, sostiene Habermas, a criticare l’eccesso di influenza del capitale finanziario e ad attaccare il «federalismo esecutivo» della Ue di oggi, quasi del tutto scollegato dai tradizionali circuiti della rappresentanza. Ma il sociologo del «Max Planck» sbaglia due volte: primo, nel formulare una implausibile teoria della cospirazione; secondo, nel raccomandare l’«opzione nostalgica» di un ritorno al passato. Secondo Habermas, la democrazia può salvarsi solo grazie all’Europa, più precisamente grazie alla realizzazione di una genuina Unione Politica. Ciò che il filosofo ha in mente è una «Comunità di Stati», i quali continuerebbero a giocare un ruolo di primo piano nell’attuazione delle politiche pubbliche e nella salvaguardia delle libertà civili. Una comunità, tuttavia, capace di fornire ai cittadini europei una Wir-Perspektive (una prospettiva del «noi»), uno stimolo a tenere in conto gli interessi di tutti e non solo quelli dei propri connazionali.
Per procedere verso questa meta, Habermas ritiene assolutamente necessario superare lo status quo su due fronti cruciali. Il primo è istituzionale: «detronizzare» il Consiglio Europeo e rivitalizzare il metodo comunitario. Il secondo è sostanziale: accettare un più elevato livello di redistribuzione fra Stati tramite il bilancio dell’Unione. Mutualizzazione del debito, eurobond, unione bancaria e così via: solo con questi strumenti è possibile uscire dalla crisi salvaguardando democrazia e solidarietà.
È chiaro che il principale ostacolo alla realizzazione di questo progetto è, al momento, proprio la Germania. Ed è su questo punto che Habermas svolge il ragionamento forse più interessante. Come già altre volte nell’ultimo secolo e mezzo, la Germania si trova oggi in mezzo al guado: troppo piccola per dominare il continente, troppo forte per giocare da sola. L’interesse politico di Berlino dovrebbe essere il rafforzamento della Ue proprio per compensare la propria incompleta egemonia ed evitare che questa generi pericolose tensioni. Inoltre — qui Habermas cita un altro grande sociologo tedesco, Claus Offe — la Germania è stata il maggiore beneficiario della moneta unica: esiste dunque anche un obbligomorale a imboccare la strada della solidarietà. I partiti tedeschi debbono rassegnarsi a «politicizzare» la questione europea, parlando chiaro agli elettori. Per questo Habermas arriva al paradosso di auspicare il successo del nuovo partito Alternative für Deutschland, esplicitamente antieuropeo: servirebbe per spingere allo scoperto tutti gli altri, a far emergere i reali scenari alternativi, con i loro costi e benefici.
Non so se questo auspicio sia condivisibile: lo sciovinismo tedesco non ha mai aiutato l’Europa ed è stato sempre disastroso anche per la Germania. Ma le tesi di fondo di Habermas (e, dunque, le sue critiche a Streeck) mi sembrano corrette. Se non sale verso l’Europa, la democrazia rischia di farsi soffocare dagli imperativi del mercato. Se non si libera delmetodo intergovernativo, la Ue non può dar vita ad una Wir-Perspektive capace di sorreggere più solidarietà e coesione. La disponibilità della Germania è indispensabile per creare una genuina Unione Politica. E il metodo e la filosofia Merkel sono oggi un ostacolo a tale disponibilità.
A questo punto, aspettiamo le elezioni di settembre. Poi, però, alziamo la voce e incalziamo Berlino. Nella primavera del prossimo anno si rinnova il Parlamento di Strasburgo. La Germania ha il dovere politico e morale di spiegare a tutti gli elettori europei come intende usare la propria ingombrante semi-egemonia.
Streeck è uno dei più noti sociologi europei e ha diretto a lungo il prestigioso Istituto Max Planck per la ricerca sociale di Colonia. Negli anni Settanta è stato allievo di Adorno: ha dunque assimilato il pensiero neomarxista della celebre Scuola di Francoforte. Pochi mesi fa, Streeck ha pubblicato un libro dal titolo: Gekaufte Zeit, ossia «tempo comprato» (o «guadagnato», secondo l’edizione italiana). Con questa espressione sibillina l’autore vuole caratterizzare la strategia seguita dal «tardo capitalismo» (un concetto di marca tipicamente francofortese) per venire a patti con la democrazia, addomesticare i conflitti e scongiurare la propria crisi strutturale. Negli anni Sessanta, il sistema capitalistico comprò tempo con il welfare state keynesiano. Dopo la crisi petrolifera si servì del debito pubblico come grande ammortizzatore delle tensioni sociali e politiche. Poi è scoppiata la Grande Crisi. Ecco così l’ultima mossa: la trasformazione della Ue in una macchina al servizio del capitale (finanziario), al fine di soffocare le istanze della società tramite politiche di austerità e ricreare condizioni favorevoli al profitto tramite liberalizzazioni e concorrenza.
La prosa di Streeck è colorita, le sue accuse velenose. Durante la crisi il capitale finanziario ha collocato i suoi gendarmi (come Monti, Draghi, Papademos) direttamente nelle stanze dei bottoni, ha ordito intrighi machiavellici per tenere in sella leader impresentabili come Berlusconi. La Ue ha iniziato a ricattare apertamente i governi nazionali, costringendoli a conformare le loro decisioni agli interessi della finanza globale. L’obiettivo finale di questo tardo «tardo-capitalismo» è quello di liberarsi definitivamente della democrazia, consolidando un governo sovranazionale libero da condizionamenti, ispirato da un software «hayekiano» di sostegno al libero mercato.
Se il quadro è questo, l’unica soluzione (per la sinistra, ovviamente) secondo Streeck è quella di far saltare tutto, soprattutto l’euro, mettendo a nudo la favola del capitalismo «socialmente responsabile» e tornando al conflitto di classe socialdemocratico entro le mura dello Stato nazionale.
In una lunga recensione apparsa lo scorso maggio, Habermas ha rivolto critiche molte incisive alle tesi di Streeck. Come è noto, anche Habermas viene dalla Scuola di Francoforte, e infatti condivide l’idea che capitalismo e democrazia siano in costante tensione fra loro. Nel corso del tempo, tuttavia, il grande filosofo ha preso le distanze dal neomarxismo, avvicinandosi alla prospettiva weberiana e alla tradizione del liberalismo pragmatico ed egalitario. Streeck ha ragione, sostiene Habermas, a criticare l’eccesso di influenza del capitale finanziario e ad attaccare il «federalismo esecutivo» della Ue di oggi, quasi del tutto scollegato dai tradizionali circuiti della rappresentanza. Ma il sociologo del «Max Planck» sbaglia due volte: primo, nel formulare una implausibile teoria della cospirazione; secondo, nel raccomandare l’«opzione nostalgica» di un ritorno al passato. Secondo Habermas, la democrazia può salvarsi solo grazie all’Europa, più precisamente grazie alla realizzazione di una genuina Unione Politica. Ciò che il filosofo ha in mente è una «Comunità di Stati», i quali continuerebbero a giocare un ruolo di primo piano nell’attuazione delle politiche pubbliche e nella salvaguardia delle libertà civili. Una comunità, tuttavia, capace di fornire ai cittadini europei una Wir-Perspektive (una prospettiva del «noi»), uno stimolo a tenere in conto gli interessi di tutti e non solo quelli dei propri connazionali.
Per procedere verso questa meta, Habermas ritiene assolutamente necessario superare lo status quo su due fronti cruciali. Il primo è istituzionale: «detronizzare» il Consiglio Europeo e rivitalizzare il metodo comunitario. Il secondo è sostanziale: accettare un più elevato livello di redistribuzione fra Stati tramite il bilancio dell’Unione. Mutualizzazione del debito, eurobond, unione bancaria e così via: solo con questi strumenti è possibile uscire dalla crisi salvaguardando democrazia e solidarietà.
È chiaro che il principale ostacolo alla realizzazione di questo progetto è, al momento, proprio la Germania. Ed è su questo punto che Habermas svolge il ragionamento forse più interessante. Come già altre volte nell’ultimo secolo e mezzo, la Germania si trova oggi in mezzo al guado: troppo piccola per dominare il continente, troppo forte per giocare da sola. L’interesse politico di Berlino dovrebbe essere il rafforzamento della Ue proprio per compensare la propria incompleta egemonia ed evitare che questa generi pericolose tensioni. Inoltre — qui Habermas cita un altro grande sociologo tedesco, Claus Offe — la Germania è stata il maggiore beneficiario della moneta unica: esiste dunque anche un obbligomorale a imboccare la strada della solidarietà. I partiti tedeschi debbono rassegnarsi a «politicizzare» la questione europea, parlando chiaro agli elettori. Per questo Habermas arriva al paradosso di auspicare il successo del nuovo partito Alternative für Deutschland, esplicitamente antieuropeo: servirebbe per spingere allo scoperto tutti gli altri, a far emergere i reali scenari alternativi, con i loro costi e benefici.
Non so se questo auspicio sia condivisibile: lo sciovinismo tedesco non ha mai aiutato l’Europa ed è stato sempre disastroso anche per la Germania. Ma le tesi di fondo di Habermas (e, dunque, le sue critiche a Streeck) mi sembrano corrette. Se non sale verso l’Europa, la democrazia rischia di farsi soffocare dagli imperativi del mercato. Se non si libera delmetodo intergovernativo, la Ue non può dar vita ad una Wir-Perspektive capace di sorreggere più solidarietà e coesione. La disponibilità della Germania è indispensabile per creare una genuina Unione Politica. E il metodo e la filosofia Merkel sono oggi un ostacolo a tale disponibilità.
A questo punto, aspettiamo le elezioni di settembre. Poi, però, alziamo la voce e incalziamo Berlino. Nella primavera del prossimo anno si rinnova il Parlamento di Strasburgo. La Germania ha il dovere politico e morale di spiegare a tutti gli elettori europei come intende usare la propria ingombrante semi-egemonia.
«Corriere della sera - suppl. La lettura» del luglio 2013
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