di Luca Doninelli
Doninelli: «L’Ulisse dantesco, riletto nei secoli successivi, ha significato l’homo faber, tant’è che forse minor comprensione ha avuto la conclusione di tutta la vicenda. Mentre preparavamo l’incontro, mi hai detto ad un certo punto di esserti stancato di questo modo di leggere questo testo...
Pontiggia: «Dopo avere accumulato per tutta la vita libri in una misura visionaria, dopo aver amato la cultura nel modo più intenso e anche più articolato (chi ha una biblioteca come la mia, più di 40mila volumi, ha problemi di statica: la casa che crolla, costruzione di una vita, distruzione di un reddito) evidentemente vedo nella cultura una ricchezza, una felicità, un piacere, una dilatazione dell’orizzonte, e così l’ho sempre vissuta. Non so se è un processo legato al passare dell’età o, come penso, a una maggiore lucidità.
Quello che ho scoperto negli ultimi anni è una forma di insofferenza e di impazienza anche nei confronti della cultura. Con questo non voglio assolutamente insegnare a qualcuno a limitare la propria fame e voracità di cultura, ma semplicemente mettere in luce un aspetto importante: una cosa è la cultura come patrimonio di percorsi, di viaggio, di esperienze, di piacere, però ad un certo punto, se devo riflettere sulla vita e la morte, sul tempo che mi rimane, su quello che è veramente importante, questi piaceri perdono di importanza.
Mi ha molto colpito per esempio leggere dei libri di Taubes, un rabbino molto attratto dal cattolicesimo e dalla teologia protestante, che ha tenuto un corso alla radio a Berlino poco prima di morire, (era malato terminale di cancro, e non sapevano se avrebbe terminato il suo ciclo di lezioni) e a un certo punto dice: “Ma lasciamo perdere Hegel, cosa mi interessa…: è importante san Paolo, è importante la Lettera ai Romani”. Su Hegel era uno degli studiosi più preparati, ma questo atteggiamento nei confronti di una cultura che in condizioni di normalità, di curiosità, di acquisizione pacata, è importante, se noi invece lo misuriamo con le questioni più ultime che ci riguardano, diventa improvvisamente sfocato.
Personalmente, e lo dico non per narcisismo e neanche per fare confessione, ma semplicemente come messa a fuoco di un punto importante, credo che la cultura non è il sapere che ci riguarda nel modo più stretto. Il sapere appartiene anche alla cultura, ma la cultura nel suo insieme è un patrimonio da cui noi possiamo attingere in condizioni particolari; è il sapere che ci riguarda e che è veramente importante ed essenziale per noi. Allora, quando Luca mi ha proposto di parlare di Ulisse mi è venuto in mente tutto il cumulo di studi che avevo fatto all’università e poi dopo l’università sulla figura di Ulisse e i suoi significati. In questo momento la figura di Ulisse non mi interessa, soprattutto quella costruzione secolare che è stata fatta su di lui. Allora voi dite: “Perché ha accettato di parlare?”, beh, perché penso che se ne può parlare nel modo che mi interessa.È sconcertante che Dante ponga nell’Inferno Ulisse e nello stesso tempo dia questo ritratto magnanimo, generoso, grandioso del suo coraggio. L’ambiguità.
Dante fa di Ulisse un personaggio ambiguo, un personaggio colpevole da un lato di frode, però anche capace di questi slanci; questo non è una sorpresa, in fondo uno dei procedimenti che adotta Dante è proprio quello dell’ambiguità. Secondo me è importante leggere Dante sottraendosi al ricatto, al peso, all’invadenza di tutte le interpretazioni che sono state date (uno per cultura può anche approfondirle, trarne giovamento, arricchimento); mi sembra importante leggere Dante nella semplicità della sua costruzione, nell’impiego e nella scelta delle parole, perché allora scopriamo non solo il substrato sapienziale in senso religioso e speculativo di Dante, ma anche la sua capacità di far fruttificare la parola in significati sorprendenti e sconcertanti».
Doninelli: «Una cosa che mi sono sempre chiesto (forse perché io mi sono sposato e ho avuto figli, quindi il mio destino è stato, dopo un po’ di avventure giovanili, quello del padre di famiglia) era come faceva Ulisse a sapere che non sarebbe diventato “del mondo esperto” restando a Itaca. Questo è interessante, perché lui vuol dire che essere padre, essere marito, essere figlio, non è un’esperienza».
Pontiggia: «Questo è un punto importante ma purtroppo molta critica non si pone il problema. È interessante quello che tu dici, non è un problema estraneo al testo, perché anche in Omero (che Dante non conosceva direttamente) c’è Ulisse che riparte la mattina e affronta il viaggio e poi pone il remo nella sabbia dell’approdo: ci sono immagini stupende che Dante non conosceva ma che sono significative; voglio dire, già l’Ulisse omerico era un uomo che ripartiva. Penso che effettivamente si possa acquisire una coscienza, una conoscenza dei vizi umani e del valore anche stando a casa, altrimenti cadiamo nell’assurdità di Lawrence, che accusava Cristo di non avere una sufficiente conoscenza dell’umanità perché non era passato attraverso il matrimonio; ma figuriamoci se la conoscenza, dal punto di vista umano, passa attraverso l’esperienza diretta. Una esperienza messa a frutto e portata avanti poi con grande lucidità nella propria vita privata può essere l’orizzonte del mondo.
Condivido l’idea che Ulisse poteva diventare esperto degli uomini e del valore anche vivendo con Penelope, col vecchio padre, col figlio; del resto Kierkegaard faceva dell’uomo sposato che viveva con totale adesione la vita coniugale l’emblema della vita etica realizzata; lui non si è mai sposato, nonostante fosse stato tentato più volte da questa piena realizzazione, però ci dà un’immagine straordinariamente forte. Qui Dante probabilmente propone un ideale eroico di continuo superamento che si manifesta anche nell’abbandono della patria: lasciare Itaca vuol dire avventurarsi, e infatti lui parla di “aspro mare aperto”, probabilmente è un senso epico dell’avventura. Hanno anche detto che il viaggio di Ulisse nella Commedia è una microepopea all’interno dell’epopea della Commedia, con questo bisogno di diventare esule, che era forse la strada per Ulisse. Ma non penso che Dante ne voglia fare un ideale etico da seguire necessariamente, anche perché poi si conclude con un fallimento: la nave viene affondata. Ecco, da un punto di vista narrativo mi colpisce come lavora Dante: comincia il racconto di Ulisse con una subordinata. “Quando”. Non dice “Io ero...”, dice “Quando”, e allora subito c’è un interesse, entriamo subito in medias res con una subordinata: “Quando mi dipartii da Circe”.
Da notare che questo viaggio non verrà mai descritto in termini visivi, se non nell’ultima parte: prima è un viaggio quasi geografico, geografico-storico, topografico. Questo è uno dei segni del genio di Dante, soprattutto perché lavora sulle parole in modo strepitoso, cioè tutti i nomi propri in Dante acquistano un risalto: “ma riconoscerai che io son Piccarda”. Piccarda è un nome fantastico. Ricordo quando ai corsi di scrittura mi dicevano: “Ma se si chiama Teresa”, è un bel nome, ma voglio dire, Piccarda è un nome potente. “Ricordati di me che son la Pia”, sono tutti nomi straordinari quelli usati da Dante, tutti nomi che hanno una forza evocativa, carichi, e anche Morrocco, l’isola dei Sardi, la Spagna, Seuta… tutte parole cariche di ricchezza evocativa, e in questo è erede dei Greci, che avevano un senso musicale del nome proprio che ci incanta ancora oggi: Alcinoo, Euridice, Orfeo, Filottete, sono nomi stupefacenti. E anche quelli dei luoghi: Naupatto, Eubea, Fteotide, se pensiamo ai nomi lombardi Carate, Albiate, Carugate…
Il mondo celtico va bene però questo suffisso in ate non è che apra degli orizzonti. Se leggiamo la topografia di Omero è stupefacente, ma basta prendere una carta topografica della Grecia antica: Acaia, Laconia, Argolide, non c’è un nome sbagliato, sono nomi strepitosamente belli; quindi Dante è grande maestro in questo e lo è anche perché, se avete notato, quando un reduce racconta un percorso in territori, magari reduce dalla Russia, comincia con un repertorio di nomi russi che nessuno sa dove collocare; i reduci ricordano soprattutto i nomi, perché la memoria è fissata su nomi che hanno avuto potere di incatenare l’attenzione e l’emozione, e Dante in questo modo non solo ci dà un’immagine geografica molto più suggestiva e più efficace che se avesse descritto i luoghi, ma ci dà anche l’autenticità del racconto di chi ha vissuto questo viaggio, di chi ha vissuto l’avventura: un racconto molto credibile, molto piano, molto convincente».
«Avvenire» del 23 giugno 2013
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