Il fascino della conoscenza ai Colloqui fiorentini
di Alessandro D’Avenia
Cosa fanno duemila ragazzi delle superiori a Firenze in un centro convegni per tre giorni? Non è l’inizio di una freddura, anche se la risposta è da teatro dell’assurdo: partecipano a un convegno su Verga. La mattina fuggono dalla loro scuola e poi paradossalmente ci «tornano», a loro spese. Ho partecipato già l’anno scorso ai Colloqui fiorentini con una classe. Quest’anno dovrò parlare di Verga e dei suoi racconti più belli. Costretto, per fortuna, a rileggerli, do ragione ancora una volta all’adagio antico sui libri: non multa sed multum. Rimpinziamo i ragazzi di nozioni, sacrificando la profondità al dio muto della quantità. Ci nascondiamo spesso dietro analisi del testo fini a se stesse (vivisezioni che uccidono il testo-cavia): è come spiegare la formula di un profumo, prima di farlo annusare.
Spesso la letteratura italiana a scuola diventa noia. La bellezza non può annoiare: allora siamo noi noiosi. L’opera d’arte, scrive Rilke, ci dice: «Cambia la vita». Per questo a volte spieghiamo la formula, invece di annusare il testo, perché il testo non dice nulla a noi (e qualcosa bisogna pur dire: nozioni). Il programma ci insegue? E l’uomo forse no? Il reale è profondo, non è superficie, si manifesta sì in superficie, ma è profilo che, seguito fino in fondo, conduce alla pienezza, sfidando l’intelligenza a fare il suo mestiere: intus legere (leggere dentro). Se non fosse così non esisterebbe l’arte: anticamera della grazia. Lo sapevano gli antichi greci, che crearono statue di dei per parlare con gli dei, mica per abbellire il soggiorno. L’anticamera a scuola spesso è priva di porte, perché dell’infinito si ha paura. Il mistero? Roba da bambini... o da poeti. E lo sa anche Jeli, il pastore di Verga: per lui «ogni cosa aveva il suo aspetto e il suo significato, e c’era sempre che vedere e che ascoltare in tutte le ore del giorno».
Mi sono divertito l’anno scorso ad ascoltare la critica di un insegnante al mio intervento su Foscolo, durante il quale avevo osato dire che non serve molto sapere i tipi di narratore dell’Ortis se non si legge l’Ortis per intero. Definì la mia affermazione «pericolosa». Dopo una laurea e un dottorato in filologia classica, io trovo pericoloso che si sappia solo cosa è la focalizzazione multipla e non si abbia il tempo di leggere Omero, Dante, Shakespeare per intero.
L’insegnante inoltre si lamentava del fatto che si era parlato troppo di Dio. Non lo riteneva opportuno. Eppure l’Ortis ne parla ossessivamente, soprattutto nel finale. In «Vere presenze» (libro che tutti gli insegnanti devono leggere) G.Steiner, ebreo agnostico, sostiene che l’arte non parla d’altro che di Dio: o per presenza o per assenza. Se la parola Dio, come domanda sul mistero, diventa eccessiva, allora Dante, Shakespeare e Dostoevskij sono eccessivi. O noi pusillanimi?
Non si tratta di cristianizzare gli autori, né di cercare la citazione che tradisce una loro appartenenza: clericalismo letterario. Si tratta di dialogare rimanendo se stessi, e lasciando lo scrittore essere se stesso. Solo così c’è dialogo, il logos viaggia tra (dia-) lettore e autore, in cerca della verità, che trascende la relazione che è l’atto della lettura. Così ho letto ripetutamente Malpelo e Jeli, fino a farmeli amici, con quella che Charles Peguy chiama una lettura «ben fatta»: «Non è nientemeno che il vero e persino reale compimento dell’opera. Si tratta di una collaborazione letterale, intima, interiore e anche di una sconcertante responsabilità.
Vi è un destino meraviglioso, quasi spaventoso, nel fatto che tante grandi opere possano ancora ricevere un perfezionamento, un compimento dalla nostra lettura. Che spaventosa responsabilità per noi». Io la chiamo lettura «responsabile»: risponde al testo letto e riletto, in prima persona, con matita, anima e corpo. Quante cose ho scoperto ri-ririleggendo: di me, dei miei ragazzi, del mondo. La letteratura è un modo per origliare se stessi quando non sappiamo ascoltarci, vagliare se i pensieri che abbiamo sono veramente nostri e imparare a rimettere a fuoco la vita, per cambiarla. Ma ogni cambiamento origina nella vita interiore, anche se l’occasione viene da quella esteriore.
Leggere moltiplica le occasioni. Quei racconti hanno risvegliato in me la misericordia per l’uomo, anche quello malvagio, per l’uomo che fa il male solo perché non è amato, la capacità di sentire l’altro uguale a me, nonostante le sue debolezze e la sua estraneità, fino a perdonarne l’antipatia e avversità, trasformando quell’odio prima in pietas, poi in empatia. Sapessimo noi leggere di più e meglio, capiremmo cosa cercano quei duemila ragazzi a un convegno su Verga, dopo mesi di lavoro, ciascuno con un elaborato personale. Cercano la vita e la grazia. Miracoli? No. La normalità e la nostalgia di come potrebbe essere, di come sarebbe potuta andare. La scuola.
Spesso la letteratura italiana a scuola diventa noia. La bellezza non può annoiare: allora siamo noi noiosi. L’opera d’arte, scrive Rilke, ci dice: «Cambia la vita». Per questo a volte spieghiamo la formula, invece di annusare il testo, perché il testo non dice nulla a noi (e qualcosa bisogna pur dire: nozioni). Il programma ci insegue? E l’uomo forse no? Il reale è profondo, non è superficie, si manifesta sì in superficie, ma è profilo che, seguito fino in fondo, conduce alla pienezza, sfidando l’intelligenza a fare il suo mestiere: intus legere (leggere dentro). Se non fosse così non esisterebbe l’arte: anticamera della grazia. Lo sapevano gli antichi greci, che crearono statue di dei per parlare con gli dei, mica per abbellire il soggiorno. L’anticamera a scuola spesso è priva di porte, perché dell’infinito si ha paura. Il mistero? Roba da bambini... o da poeti. E lo sa anche Jeli, il pastore di Verga: per lui «ogni cosa aveva il suo aspetto e il suo significato, e c’era sempre che vedere e che ascoltare in tutte le ore del giorno».
Mi sono divertito l’anno scorso ad ascoltare la critica di un insegnante al mio intervento su Foscolo, durante il quale avevo osato dire che non serve molto sapere i tipi di narratore dell’Ortis se non si legge l’Ortis per intero. Definì la mia affermazione «pericolosa». Dopo una laurea e un dottorato in filologia classica, io trovo pericoloso che si sappia solo cosa è la focalizzazione multipla e non si abbia il tempo di leggere Omero, Dante, Shakespeare per intero.
L’insegnante inoltre si lamentava del fatto che si era parlato troppo di Dio. Non lo riteneva opportuno. Eppure l’Ortis ne parla ossessivamente, soprattutto nel finale. In «Vere presenze» (libro che tutti gli insegnanti devono leggere) G.Steiner, ebreo agnostico, sostiene che l’arte non parla d’altro che di Dio: o per presenza o per assenza. Se la parola Dio, come domanda sul mistero, diventa eccessiva, allora Dante, Shakespeare e Dostoevskij sono eccessivi. O noi pusillanimi?
Non si tratta di cristianizzare gli autori, né di cercare la citazione che tradisce una loro appartenenza: clericalismo letterario. Si tratta di dialogare rimanendo se stessi, e lasciando lo scrittore essere se stesso. Solo così c’è dialogo, il logos viaggia tra (dia-) lettore e autore, in cerca della verità, che trascende la relazione che è l’atto della lettura. Così ho letto ripetutamente Malpelo e Jeli, fino a farmeli amici, con quella che Charles Peguy chiama una lettura «ben fatta»: «Non è nientemeno che il vero e persino reale compimento dell’opera. Si tratta di una collaborazione letterale, intima, interiore e anche di una sconcertante responsabilità.
Vi è un destino meraviglioso, quasi spaventoso, nel fatto che tante grandi opere possano ancora ricevere un perfezionamento, un compimento dalla nostra lettura. Che spaventosa responsabilità per noi». Io la chiamo lettura «responsabile»: risponde al testo letto e riletto, in prima persona, con matita, anima e corpo. Quante cose ho scoperto ri-ririleggendo: di me, dei miei ragazzi, del mondo. La letteratura è un modo per origliare se stessi quando non sappiamo ascoltarci, vagliare se i pensieri che abbiamo sono veramente nostri e imparare a rimettere a fuoco la vita, per cambiarla. Ma ogni cambiamento origina nella vita interiore, anche se l’occasione viene da quella esteriore.
Leggere moltiplica le occasioni. Quei racconti hanno risvegliato in me la misericordia per l’uomo, anche quello malvagio, per l’uomo che fa il male solo perché non è amato, la capacità di sentire l’altro uguale a me, nonostante le sue debolezze e la sua estraneità, fino a perdonarne l’antipatia e avversità, trasformando quell’odio prima in pietas, poi in empatia. Sapessimo noi leggere di più e meglio, capiremmo cosa cercano quei duemila ragazzi a un convegno su Verga, dopo mesi di lavoro, ciascuno con un elaborato personale. Cercano la vita e la grazia. Miracoli? No. La normalità e la nostalgia di come potrebbe essere, di come sarebbe potuta andare. La scuola.
«Avvenire» del 28 febbraio 2013
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