04 febbraio 2013

Borromini, la divina sapienza del costruire

di Dominique Ponnau
Francesco Castelli, detto il Borromini: fin dalla mia vagabonda gioventù, perseguo quest’uomo e quest’uomo mi persegue. Non ricordo un solo passaggio a Roma o un solo soggiorno in questa città in cui non gli abbia fatto visita, e spesso parecchie volte, soffermandomi a lungo nei luoghi dove, grazie alla sua arte, la presenza, apparentemente lontana oggi, si fa infinitamente vicina, avvincente e, nel contempo, liberatrice, palpabile nelle vestigia stesse.
Amo accarezzare una colonna di San Carlino alle Quattro Fontane,
rimanere abbagliato dal candore del chiostro e dai vocalizzi delle balaustre, perdermi nella vertiginosa esigenza della navata dove le più estreme complessità, le più inesorabili lotte delle forme contrarie si risolvono in una miracolosa unità, in una semplicissima armonia, come giunta da un altro mondo. Più di una volta, mi sono visto scandire delicatamente le ali e i sorrisi degli angeli nelle navate laterali di San Giovanni in Laterano.
Ho salutato spesso i cherubini del Campanile di Sant’Andrea delle Fratte, dai volti racchiusi sul mistero, dalle ali raccolte dove si sgranano sotto la loro egida, i suoni che invitano gli orecchi del corpo ad altre armonie che echeggiano amabilmente nel cielo eterno. Spesso, più spesso ancora, ho meditato, scordandomi di me, davanti alla cupola di Sant’Ivo alla Sapienza, arrotolando lo sguardo dalle onde del basso allo slancio della lanterna che da vita alla spirale inaudita nel rigoglio fino allo sboccio del fiore ultimo, l’estasi della suggestione della struttura del Cosmo, fino al simbolo che solo le da senso: la croce. Forme all’assalto dell’azzurro; materia che aspira umilmente, ma con l’umiltà di un nobile principe, a rendere gloria all’Eterno.
L’architettura del Borromini mi è sempre parsa, oltre la vertiginosa complessità – complessità risolta in miracolosa, paradossale semplicità –, un’architettura vigile. Un’architettura per la coscienza desta, a costo di perdersi, di perderci talvolta, nella sottigliezza dell’indicibile fascino, frutto di una precisione matematica, di una musicalità a null’altra paragonabile, un’architettura in cui la coscienza incessantemente sollecitata, senza mai rinunciare a tali sollecitazioni, consente allo spirito di perdersi più si trova, di trovarsi più si perde. Un’architettura dall’infinita dolcezza, dalla serenità infinita, ma mai in riposo. Un’architettura mistica insomma, nella quale echeggiano le parole agostiniane e di Pascal: «Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato».
Ora mi rendo conto, è tutto un percorso sempre incompiuto finché vivrò la mia vita terrena, questo è per me il percorso delle opere romane del Borromini. È un pellegrinaggio sempre ricominciato, sempre da ricominciare, da cominciare? Non so. Ma so che questo percorso è per me come un libro fonte di pensiero spirituale; di luminosa meditazione sempre incompiuta. Un libro iniziato allorché André Chastel, la guida della mia gioventù di cui fui un deludente discepolo, mi incitò a imboccare il cammino del Borromini.
Un libro che non fece certo di me uno studioso dell’arte nel senso classico della parola, ma fu e rimane uno di quelli, essenziali, che segnarono e segnano la mia esistenza. Un libro tanto importante da non sembrarmi estraneo a quelli di san Giovanni della Croce. È questo libro che voglio sfogliare per condividere, non tanto delle nozioni, quanto una musicalità, la musicalità che mi fa vivere l’opera del Borromini. Tra i molti capolavori, ci invita una chiesa, dove l’anima del Borromini canta il più bel canto forse del silenzio: Sant’Ivo alla Sapienza. Dunque, Sant’Ivo della Saggezza. Ma di quale saggezza? Solo della sagezza presente, lo si spera, nelle leggi giuste, nelle leggi favorevoli ai piccoli, ai poveri di questo mondo nei quali si manifesta la Legge suprema, quella dell’Amore di Cristo, quella dei sette doni dello Spirito Santo.
Legge suprema posta qui sotto il patrocinio del bretone Sant’Ivo di Tréguier, nel quale irradiò, ai suoi tempi, il XIII secolo, la giustizia d’amore del Paracleto. Al di là di sant’Ivo, è al Santo Spirito, invisibile, incomprensibile, insondabile mistero di luminosità, che è consacrata questa chiesa. Chiesa dedicata alla scienza il cui più alto grado è la «dotta ignoranza», nella quale si fondono, si completano, e completandosi si aboliscono tutti i concetti. Che cosa vediamo, ancor prima di varcare la soglia della chiesa? Vediamo una sorprendente cupola, una cupola unica al mondo, che contrasta assolutamente lo spirito di una cupola.
Che altro vediamo? Un immenso timpano. Un timpano in apparenza sproporzionato rispetto alle architetture che lo sovrastano e su di lui si appoggiano. Un timpano fatto di onde, ma di onde verticali, guarnite da delicati pilastri, dove la luce traspare attraverso alte finestre, culminate anch’esse dal simbolo, o dall’allegoria, del Santo Spirito, a forma di colomba, come lo si vide, nel battesimo di Cristo, planare sul suo capo, quando echeggiò la voce del Padre: «Questi è il mio Figlio, il Prediletto: Ascoltatelo!». Colomba del Santo Spirito che gioca, peraltro, con altri simboli: ghirlande, visi d’angeli, corone, palme, impressioni d’api, come le api dei Barberini, fiaccole, stelle, al di sopra dei monti come i tre monti e la stella dei Chigi; Agnello dei tempi ultimi, del Libro sigillato da sette sigilli che Lui solo può svellere per svelare il mistero. Agnello mistico qui incastonato in queste onde di pietra. Ecco, dunque, un timpano assai alto. Sproporzionato, dicevo: ma mi sbagliavo di molto! Nella sua sproporzione, è l’esattezza precisa, la proporzione stessa. Sostiene, e regge sopra di lui l’impossibile.
Quale impossibile? La calotta della cupola. Infinitamente leggera la calotta poiché consacrata all’invisibile, all’evanescente e, proprio per questo, inimmaginabilmente pesante e greve agli occhi corporali. Questo timpano dunque, sproporzionato agli occhi del corpo e, proprio per ciò, misteriosamente proporzionato all’attesa dello sguardo spirituale, è un timpano animato da onde. Viva è l’ondulazione di quelle onde, certamente, ma è poi così dolce come pare? Lo si crederebbe.
E spesso al primo sguardo, veramente al primo sguardo, lo si crede. Ma presto ci si disillude di questa pace delle apparenze, eppure senza cessare di lasciarsene ammaliare. Potenti, violenti, imperiosi sotto l’aspetto di un meraviglioso sorriso, ecco i contrafforti, dal timpano alla lanterna, forza tanto armoniosa quanto terribile, impietose concavità che vengono a contraddire i dolci movimenti delle onde e ci sollecitano a leggere e ad accogliere l’anima delle onde in verità. Se questi possenti contrafforti concavi fossero assenti, nulla impedirebbe le umili ondulazioni della cupola di dilatarsi nel cielo, di riempire il cielo, come in tutte le altre cupole, con l’ampia e colma rotondità di un microcosmo che riproduca, come in San Pietro, come in Sant’Andrea della Valle, come nella chiesa degli Invalidi a Parigi, come dovunque, il macrocosmo di cui è il segno e l’immagine: il cielo nella sua immensità. Nient’altro, se non i contrafforti, violenti e soavi, costringe, ma con una grazia infinita come la loro crudeltà, le umili onde a dilatarsi nel cielo come materiale allegoria del cielo. Nient’altro.
Occorreva che le dolci onde umiliate e felici di esserlo, trovassero uno sbocco all’estrema violenza alla quale sono sottomesse. Lo sbocco, eccolo: un’immensa lanterna, altissima, imponente eppur leggera, certamente ispirata dalle vestigia di Roma e delle ville antiche come quella di Adriano, ma più che ispirata, libera e tutta nuova, la lanterna che accoglie, disciplina l’inaudita potenza costretta nell’umile ondeggiare della cupola, e la lascia sfociare nel vigore di une forza assolutamente irresistibile, tutta ornata di nuovi simboli, corone, fiamme, palme, gigli, uccelli, angeli, gemme di pietre erette di fronte alla violenza abolita in sfere di frutti, in corna di tori fasciate, dicono, ma più in alto, dischiuse nuovamente, e questo senza fine, fino alla corona di fuoco vivo, dispiegata, forza esplosiva ardentemente lanciata all’assalto dell’azzurro, trionfante dell’azzurro sotto la potente armatura di ferro che offre all’invisibile infinito la crudele e tenera ferita di un’allegoria del Cosmo, ellisse che evoca, proprio qui, a Roma, l’ombelico del mondo, ancora più in alto, fino all’assenza di qualsiasi forma davanti all’abbozzo dell’ultimo simbolo che tutto regge «opus aere perennius»: la croce; un abbozzo della Croce, nell’azzurro.
Ma anche quando, entrando nella chiesa, non contempliamo cogli occhi del corpo la divina Saggezza attraverso le alte finestre che ricevono la luce del giorno, intuiamo, in questa luce, il primo raggio di un’altra luce alla quale, senza vederla, aspirano i nostri occhi. Sappiamo che è lì, ci aspetta, ci chiama. E percepiamo, sentiamo che la luce diurna generosamente offerta dalle alte finestre, non è soltanto la luce del giorno terreno, ma quella del Giorno celeste, del Giorno senza ombra nè fine, del Giorno eterno. Del Giorno che regna già al vertice della volta, nel cerchio perfetto, perfetta allegoria del tutto, in cui tutte le differenze, tutte le dissonanze, si aboliscono, pur senza annullarsi, perchè in lui che nulla contiene, tutto è contenuto.
Si discute qui, come sempre a proposito di questo architetto tecnico, matematico, artigiano, musico, metafisico, se egli si accordi più a Cartesio o a Platone, se questo architetto teologo non sarebbe per caso un teologo negativo, apofatico. E si ha ben ragione di discutere. Ma allora non si deve anche ricordare, come suggerisce Platone, che l’Altro è nello stesso e che lo stesso è nell’Altro? Penso di sì, in questo si ha ragione. E ancora più ragione se si accetta di riposarsi con questo architetto, nella sua dimora, nella veglia senza riposo degli interrogativi del nostro spirito. Incantiamoci ancora un istante di un altro splendore, del genere di splendore che amò l’austero Borromini.
Tutto questo paradiso è fatto non di marmo, non di oro, ma di piccoli mattoni, semplicissimi, poverissimi, a parte il fatto che nulla è più esigente, nulla più perfetto del loro assemblaggio. Il Borromini è un principe senza uguali nel regno di Dama Povertà. Dama Povertà che mai fu così fastosamente ricca. Permettetemi di evocare tra tanti tesori, il tesoro che fu ammassato e i cui gioielli furono creati, durante l’intera vita dal Borromini: San Carlino alle Quattro Fontane, così strana, così diversa, così contradditoria nelle varie parti. Ammiriamo la straordinaria facciata, anche se non fu terminata dal Borromini e che fu un poco trasformata (alcuni dicono, esagerando credo, rovinata dal nipote Bernardo). Ammiriamo la violenza potente, forte, così fortemente e potentemente viva delle onde che rinchiudono la facciata e cercano invano di scatenarsi, scavandosi invece più profondamente di quanto non vorrebbero, il campanile e il meraviglioso timpano, visibili o invisibili secondi i luoghi dai quali, non senza pericolo, si alzano gli occhi per vederli.
Entriamo. Restiamo un attimo storditi. Che senso ha lo spazio ovoidale, non circondato ma cullato da colonne come le avrebbe amate Valéry nel cantico che a esse dedicò? Ma alziamo lo sguardo verso il cielo della cupola. A un tratto sentiamo l’inintelligibile. Percepiamo, non tutto, ma qualcosa di quella ragione che supera infinitamente la ragione, svolgendosi e concentrandosi in straordinari vocalizzi intorno ad un’arnia dove cantano non le api ma gli angeli invisibili, nelle alveole di croci, di ottupli e di sestupli. E riposiamoci di questo divino apiario contemplando colui nel quale ogni perfezione trova la fonte e dal quale essa si espande: sotto forma di colomba, il Santo Spirito.
«Avvenire» del 4 febbraio 2013

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