Una ricerca mette in luce la difficoltà di programmare le scelte economiche e perfino le preferenze alimentari
di Massimo Piattelli Palmarini
Ammettiamo di essere cambiati in passato, pensiamo di rimanere uguali in futuro Ma non è così: bisogna imparare a prospettarsi tutte le diverse misure dell’essere
Immaginiamo di riempire con sincerità, anonimamente, un questionario che contenga domande sulla nostra stabilità emotiva, introversione o estroversione, apertura a nuove esperienze, credenze, giudizi morali e così via. Adesso che lo abbiamo riempito, ci viene chiesto di rifare tutto da capo con le risposte che avremmo dato dieci anni orsono. Fatto? Ebbene, ora dobbiamo rifarlo di nuovo prevedendo come risponderemo tra dieci anni. Pensiamo proprio di poterlo fare, ma così non è. Infatti, l’ultimo numero di «Science» riporta una notevolemole di dati su questi confronti soggettivi tra presente passato e futuro, ottenuti via Internet su ben 19 mila volontari di ambo i sessi, in età variabile tra i 18 e i 68 anni. Daniel Gilbert, psicologo a Harvard e capo dell’equipe che ha condotto questo esperimento, così riassume: «Crediamo di sapere che tipo di persona saremo tra dieci anni, ma in realtà non lo sappiamo».
Pensiamo di essere cambiati più negli ultimi dieci anni di quanto cambieremo nei prossimi dieci. Diamo pure per scontata questa illusione di sapere nei giovanissimi, ma sussiste anche nelle persone mature e negli anziani. La lezione che potremmo trarre dal nostro passato non serve. Per esempio, i sessantottenni ammettono qualche modesto cambiamento in loro nei dieci anni precedenti, ma i cinquattottenni non ne prevedono alcuno per i dieci anni futuri, a dispetto del fatto che ammettono considerevoli cambiamenti da quando avevano 48 anni. Facendo slittare indietro, in soggetti più giovani, questa finestra decennale, il fenomeno si amplifica, ma meno di quanto si poteva supporre. L’errore sta tutto nel prevedere il futuro, non nel ricordare il passato.
Eppure, come aveva saggiamente sentenziato oltre tre secoli fa François de la Rochefoucauld, ci viene spontaneo lamentare difetti di memoria, mentre resistiamo fieramente ad ammettere errori di giudizio e di personale previsione. Ci illudiamo che preferenze, inclinazioni, gusti e perfino giudizi morali resteranno ciò che sono. Così non è, ma non lo ammettiamo. Il presente, ci dicono questi psicologi, ci sembra un po’ la fine dei tempi interni, il capolinea della nostra personalità. Non sapendo come saremo, nemmeno sappiamo bene quello che vorremo. I dati sulle aspettative economiche sono assai chiari. Ne basti uno.
Gilbert e colleghi (Jordi Quoidbach e Timothy Wilson, psicologi dell’Università della Virginia a Charlottesville) hanno chiesto ai partecipanti quanto pagherebbero oggi per assicurarsi una poltrona al concerto da loro favorito tra dieci anni. E quanto pagherebbero oggi per godersi (oggi) il concerto che era il loro favorito dieci anni addietro. In media, si è disposti a spendere oltre il 60 per cento in più per l’evento futuro con i favoriti odierni di quanto sia disposto a spendere chi ha dieci anni più di noi per godersi oggi i loro favoriti di dieci anni addietro. Gilbert e colleghi così riassumono: «Si sarebbe supposto che, raggiunta la maturità, ci si renda conto che i nostri beniamini attuali non saranno più tali tra dieci anni. Invece siamo disposti a spendere in eccesso per l’opportunità futura di indulgere in una preferenza attuale».
Questa miopia nelle previsioni su noi stessi non persiste in genere nelle previsioni sui cambiamenti altrui, né sui mutamenti del mondo circostante. Infatti, suggerisce Gilbert, per meglio calibrare le anticipazioni su noi stessi conviene immaginare come cambierà chi ci sta vicino, coloro che meglio conosciamo, e come cambierà il mondo, per rapportarci a tutto ciò.
Questo studio, del resto, è in sintonia con svariati dati precedenti. Per esempio, Itamar Simonson, di Stanford, aveva verificato che poco sappiamo prevedere perfino sulle nostre preferenze alimentari per il mese futuro. Avendo osservato giorno dopo giorno, nella mensa universitaria, che il commensale tipico variava la scelta tra sole due o tre pietanze di uguale costo, offrì uno sconto a chi avesse liberamente programmato in anticipo, a costo uguale, tutti i pasti per i successivi 30 giorni. La programmazione anticipata rivelò un’enorme varietà di scelte, incongrua con la passata, reale, limitatissima scelta. È quindi arduo perfino anticipare le proprie preferenze alimentari, sia pure per un prossimo futuro.
Shane Frederick, della Yale University, ha recentemente dimostrato che diversi modi di presentare il tempo futuro hanno effetti sistematici e piuttosto sbalorditivi. Sia per scelte economiche che per altri tipi di previsioni, le preferenze sono diverse se ci viene proposta una data, una durata, oppure una misura interna del tempo. Ovvero, una cosa è prospettare, poniamo, una decisione che riguarda il 2020, altra cosa se diciamo «tra sette anni», altra ancora se diciamo «quando sarò sette anni più vecchio». Non dovrebbe fare differenza, ma è così.
Qual è il rimedio? Come adottare una maggiore razionalità nelle scelte che riguardano il futuro? Prospettare nella nostra mente tutte le diverse misure del tempo, formalmente equivalenti, ma psicologicamente distinte. Inquadrare noi e la realtà circostante secondo questi schemi, per renderci conto di come queste diverse misure impattano sulle nostre aspettative. Come sarà il cugino Piero e come il piccolo Andrea tra dieci anni, ovvero tremilaseicentocinquanta giorni, ovvero 87.600 ore? Poi veniamo a noi e traiamo le conseguenze.
Pensiamo di essere cambiati più negli ultimi dieci anni di quanto cambieremo nei prossimi dieci. Diamo pure per scontata questa illusione di sapere nei giovanissimi, ma sussiste anche nelle persone mature e negli anziani. La lezione che potremmo trarre dal nostro passato non serve. Per esempio, i sessantottenni ammettono qualche modesto cambiamento in loro nei dieci anni precedenti, ma i cinquattottenni non ne prevedono alcuno per i dieci anni futuri, a dispetto del fatto che ammettono considerevoli cambiamenti da quando avevano 48 anni. Facendo slittare indietro, in soggetti più giovani, questa finestra decennale, il fenomeno si amplifica, ma meno di quanto si poteva supporre. L’errore sta tutto nel prevedere il futuro, non nel ricordare il passato.
Eppure, come aveva saggiamente sentenziato oltre tre secoli fa François de la Rochefoucauld, ci viene spontaneo lamentare difetti di memoria, mentre resistiamo fieramente ad ammettere errori di giudizio e di personale previsione. Ci illudiamo che preferenze, inclinazioni, gusti e perfino giudizi morali resteranno ciò che sono. Così non è, ma non lo ammettiamo. Il presente, ci dicono questi psicologi, ci sembra un po’ la fine dei tempi interni, il capolinea della nostra personalità. Non sapendo come saremo, nemmeno sappiamo bene quello che vorremo. I dati sulle aspettative economiche sono assai chiari. Ne basti uno.
Gilbert e colleghi (Jordi Quoidbach e Timothy Wilson, psicologi dell’Università della Virginia a Charlottesville) hanno chiesto ai partecipanti quanto pagherebbero oggi per assicurarsi una poltrona al concerto da loro favorito tra dieci anni. E quanto pagherebbero oggi per godersi (oggi) il concerto che era il loro favorito dieci anni addietro. In media, si è disposti a spendere oltre il 60 per cento in più per l’evento futuro con i favoriti odierni di quanto sia disposto a spendere chi ha dieci anni più di noi per godersi oggi i loro favoriti di dieci anni addietro. Gilbert e colleghi così riassumono: «Si sarebbe supposto che, raggiunta la maturità, ci si renda conto che i nostri beniamini attuali non saranno più tali tra dieci anni. Invece siamo disposti a spendere in eccesso per l’opportunità futura di indulgere in una preferenza attuale».
Questa miopia nelle previsioni su noi stessi non persiste in genere nelle previsioni sui cambiamenti altrui, né sui mutamenti del mondo circostante. Infatti, suggerisce Gilbert, per meglio calibrare le anticipazioni su noi stessi conviene immaginare come cambierà chi ci sta vicino, coloro che meglio conosciamo, e come cambierà il mondo, per rapportarci a tutto ciò.
Questo studio, del resto, è in sintonia con svariati dati precedenti. Per esempio, Itamar Simonson, di Stanford, aveva verificato che poco sappiamo prevedere perfino sulle nostre preferenze alimentari per il mese futuro. Avendo osservato giorno dopo giorno, nella mensa universitaria, che il commensale tipico variava la scelta tra sole due o tre pietanze di uguale costo, offrì uno sconto a chi avesse liberamente programmato in anticipo, a costo uguale, tutti i pasti per i successivi 30 giorni. La programmazione anticipata rivelò un’enorme varietà di scelte, incongrua con la passata, reale, limitatissima scelta. È quindi arduo perfino anticipare le proprie preferenze alimentari, sia pure per un prossimo futuro.
Shane Frederick, della Yale University, ha recentemente dimostrato che diversi modi di presentare il tempo futuro hanno effetti sistematici e piuttosto sbalorditivi. Sia per scelte economiche che per altri tipi di previsioni, le preferenze sono diverse se ci viene proposta una data, una durata, oppure una misura interna del tempo. Ovvero, una cosa è prospettare, poniamo, una decisione che riguarda il 2020, altra cosa se diciamo «tra sette anni», altra ancora se diciamo «quando sarò sette anni più vecchio». Non dovrebbe fare differenza, ma è così.
Qual è il rimedio? Come adottare una maggiore razionalità nelle scelte che riguardano il futuro? Prospettare nella nostra mente tutte le diverse misure del tempo, formalmente equivalenti, ma psicologicamente distinte. Inquadrare noi e la realtà circostante secondo questi schemi, per renderci conto di come queste diverse misure impattano sulle nostre aspettative. Come sarà il cugino Piero e come il piccolo Andrea tra dieci anni, ovvero tremilaseicentocinquanta giorni, ovvero 87.600 ore? Poi veniamo a noi e traiamo le conseguenze.
«Corriere della Sera - suppl. La lettura» del 20 gennaio 2013
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