20 gennaio 2013

Gli sviluppi della storiografia durante la tarda repubblica

di Paolo Di Sacco e Mauro Serìo
Brano tratto dal volume Il mondo latino (Ediz. scolast. Bruno Mondadori 2000, vol. 2, pp. 40 – 44)
È nell’età cesariana che, dopo un lungo periodo d’incubazione, nasce la grande storiografia di Roma. Le opere di Cesare e di Sallustio, lungamente preparate dagli esordi dell’annalistica pontificale, dall’amorevole ricostruzione delle Origines catoniane, dal sorgere dell’autobiografia e dai paralleli sviluppi di un’annalistica «drammatica», più incline al racconto e al coinvolgimento patetico, dei lettori, portano infine a maturazione quella tendenza alla memoria nazionale e all’esaltazione delle virtù civiche che contrassegnava da sempre il DNA della cultura romana.

Fermenti di novità e passioni politiche
Sul finire del II e all’inizio del I secolo a.C. erano emerse importanti novità nel genere storiografico, fino ad allora dominato dal modello annalistico: si è già accennato al taglio decisamente contemporaneo dell’opera di Sempronio Asellione, dedicata quasi esclusivamente all’età dei Gracchi, e alla storiografia «drammatica» di Celio Antìpatro e soprattutto di Sisenna (quest’ultimo si restringeva pure agli ultimi decenni, trattando, in un pittoresco e acceso stile «asiano», della guerra sociale e del primo conflitto civile tra Mario e Silla); si sono registrati inoltre gli inizi dell’autobiografia, un genere connesso al prepotente sviluppo, in quest’epoca, dell’individualismo. All’autobiografia vanno ascritti i commentarii apologetici (in greco hypomnémata) scritti de vita sua da Marco Emilio Scauro, uomo eminente al tempo di Mario, dal versatile Lutazio Càtulo, che fu console e collega dello stesso Mario, da Rutilio Rufo e soprattutto da Silla. I ventidue libri dei Commentarii rerum gestarum sillani, purtroppo perduti, composti certamente per giustificare il proprio operato politico, erano cosparsi di prodigi, sogni premonitori, esagerazioni sui propri meriti: è un’autobiografia di forma «carismatica», che avrà un continuatore in Augusto, autore del resoconto ufficiale delle Res gestae, ma anche di un’autobiografia per così dire «privata», in cui menzionava i «miracoli» che ne avrebbero preceduto e accompagnato la fulminante carriera politica. Meno nuovi, a paragone di questi autori (specie di Sisenna), appaiono gli annalisti della successiva generazione, Quinto Claudio Quadrigario, Valerio Anziate e Licinio Macro: il loro impianto compositivo e il loro stile ricorda più da vicino il modello storiografico più tradizionale. Gli Annales di Quadrigario costituiscono una storia generale di Roma (il punto di partenza è il saccheggio gallico del 390 a.C.); manifestano buone qualità narrative e prediligono soffermarsi sugli episodi famosi e su personaggi eroici. Un diretto precursore di Tito Livio (che però non lo cita mai) fu Valerio Anziate, autore in stile arcaizzante (invenuste, dirà Frontone, cioè "senza eleganza") di una storia monumentale in 75 libri, in cui man mano preponderava l’epoca più vicina all’autore; ce ne è rimasto pochissimo. Su Quadrigario e Anziate non abbiamo alcuna notizia circa la loro collocazione sociale; forse erano semplici storici letterati. Un personaggio della nobilitas era invece Licinio Macro, padre dell’oratore e poeta Licinio Calvo che fu, come si è detto, un poëta novus e amico di Catullo. Gli Annales di Macro non erano tra i più vasti, ma godevano di buon credito anche per il ricorso a fonti inconsuete.
In generale, nella storiografia di Roma non si è mai affermato un metodo critico paragonabile a quello utilizzato dal greco Polibio; la ricerca dell’obbiettività è scarsa; sembra, anzi, in quest’epoca, di assistere ad un rigurgito di storiografia aristocratica. Gli autori, da un lato, sono permeati di ammirazione per le virtù del popolo romano (da qui la frequente esagerazione sul numero dei nemici vinti, oppure l’irrisione dei nemici sconfitti e la celebrazione delle virtù di disciplina e di eroismo silenzioso dei milites), secondo un tratto tipico dell’annalistica romana di ogni tempo, dall’altro, appaiono preoccupati di diminuire i propri avversari politici e d’innalzare il merito delle gentes vicine (Valerio, com’è logico, esalta i Valerii a detrimento dei Claudii; all’opposto si comporta Quadrigario, nemico dei Fabii; Licinio Macro innalza i Licinii). Del resto le passioni politiche divampavano con violenza in un’età di sommovimenti istituzionali e la storiografia accentua ulteriormente il proprio ruolo di diretto intervento nella vita politica della respublica.

Cesare e i confini dei commentarii
Sul finire del I secolo a.C., in piena età cesariana, un po’ tutti i generi storiografici sono in fermento anche se si avverte la generale mancanza di storici con polso e qualità di veri scrittori: una lacuna che sarà colmata solo da Sallustio e naturalmente da Cesare. Quest’ultimo portò a maturazione un genere che aveva già dato interessanti preannunci: il commentarius, il cui scopo era tradizionalmente quello di fornire materiali per gli storiografi delle età successive. Sappiamo che commentarii de vita sua offrì anche Varrone (su Pompeo e sulla propria attività di legato nell’esercito pompeiana); lo stesso Cicerone scrisse, in latino e forse anche in greco, commentarli sul proprio consolato, non riuscendo tuttavia a trovare uno storico disponibile a rielaborare quei materiali in opere più compiute per concezione generale e per definizione formale. Cicerone diede anche un’autodifesa della propria azione di console in un commentario (De consiliis suis) scottante per le accuse contro Cesare, sospettato di aver fatto parte della congiura di Catilina; incompiuto, il resoconto ciceroniano venne pubblicato solo dopo la sua morte. Ma nel genere del commentarius il capolavoro venne da Cesare, con le sue due opere sulla guerra gallica (in sette libri) e sulla guerra civile (in tre libri). Si tratta, in verità, di scritti assai più elevati, per disegno generale e per esiti artistici, del semplice commentarius. La precisione stilistica, la nettezza della ricostruzione, l’impressione generale di una nuda, limpida obiettività, fanno del Bellum Gallicum e del Bellum civile due raggiungimenti memorabili, il cui destino fu analogo a tante autentiche opere d’arte: quello di non essere capite dai contemporanei, venendo semmai riscoperte in tempi recenti. La teoria atticista fornisce a Cesare il modello di una lingua sobria, supremamente chiara, che utilizza il lessico urbano delle persone colte senza ostentazione né, d’altra parte, senza sciatterie o colloquialismi. Se non fosse per il monumento che, pagina dopo pagina, il comandante-scrittore eleva consapevolmente alla sua truppa (non allo stato, si badi bene) e in ultima analisi a se stesso, alle proprie qualità demiurgiche di «capo», e se non fosse per le rare ma significative accensioni stilistiche, come i discorsi diretti e le drammatizzazioni di talune scene (si veda l’ultimo libro di ciascuna opera), si potrebbe con ragione sostenere che Cesare abbia mantenuto in vita il vecchio impianto dei commentarii. Nel caso specifico, egli utilizza ricordi e appunti personali e i rapporti via via inviati al senato sul proprio operato; ma in realtà Cesare si è mantenuto fedele a questo impianto e insieme, con piena coscienza, lo ha superato. Il genere del commentarius raggiunge in tal modo i suoi confini e li infrange, confluendo nell’historia propriamente detta: un esito possibile solo ai grandi autori.

Origini greche della biografia
Un genere di moda in quest’epoca è la biografia, nata in Grecia ma priva di una tipologia stabile, oscillando tra la storia propriamente detta e l’elogio. L’ellenismo greco aveva dato biografie di diverso tipo: aneddotiche, incentrate sul ritratto di un qualche personaggio celebre, colto nella sua vita privata e pubblica; erudite, sul tipo di quelle confezionate dai filologi alessandrini e premesse alle loro edizioni di testi poetici; più rare di stampo politico-ideologico, in cui il biografato assurgeva a modello di virtù civili o militari. Vi erano anche biografie di filosofi, in cui il racconto della vita esemplare di un saggio era abbinato alla presentazione del suo pensiero: il tema era allora l’ascesa alla perfezione morale, attraverso i vari gradini previsti dalla dottrina. Su questa falsariga si svilupperanno le future vite dei santi cristiani. Di volta in volta potevano prevalere intenti narrativi e artistici oppure più didascalici, finalizzati cioè a un riassunto ordinato di notizie. Incroci con la storiografia vera e propria erano frequenti e, anzi, gli storiografi (specie quelli, come Teopompo, di scuola isocratea, i più attenti alla caratterizzazione antropologica) attingevano spesso a materiali biografici. Con il tempo, si era fissato in Grecia un modello di narrazione biografica condotta attraverso «rubriche», ovvero per schede, che disponevano i vari aspetti del personaggio secondo un ordine prefissato (famiglia, amici, luogo e circostanze della nascita, credenze religiose ecc.). Non erano mancati però esempi di una narrazione più continuativa, che esponeva in ordine i fatti dalla nascita alla morte. Non necessariamente la ricostruzione doveva essere integrale; ci si poteva soffermare su uno o più momenti significativi della vita del personaggio. L’accento era posto sui tratti privati del biografato, a differenza della storiografia, che si concentrava sul suo operato pubblico. Un impulso a contrapporre vizi e virtù venne dalla scuola filosofica degli aristotelici, attenta fin da Aristotele e Teofrasto alla caratteriologia etica; ne nacque il tipo classico della biografia antica, che deduceva il carattere (ethos) dell’uomo dalle sue azioni (práxeis): abitudini quotidiane e gesti comuni divenivano altrettanti segni di prerogative morali, che potevano anche essere negative.

La biografia a Roma
A Roma la biografia aveva avuto le sue prime manifestazioni nelle iscrizioni funebri e nei tituli (le iscrizioni sotto le statue), oltre che nei più ampi e celebrativi elogia o laudationes funebres, i discorsi ufficiali sulle virtù del defunto, che contenevano gli elementi biografici essenziali e che venivano conservati nell’archivio della gens. Alla base di queste manifestazioni vi era infatti l’orgoglio gentilizio, il senso di appartenenza a una delle gentes aristocratiche.
Un tipo di biografia più vicino agli esempi greci si sviluppò nell’ultima parte del II secolo a.C., sul tronco di quel genere "minore" costituito dall’autobiografia e dai commentarii. Sappiamo del completamento in direzione biografica dei Commentari di Silla approntato da un suo liberto, Cornelio Epicado: è il primo biografo latino di cui conosciamo il nome. Un liberto di Pompeo, Voltacilio Pitolao, compose in più libri le biografie di Pompeo Magno, il rivale di Cesare, e di suo padre, Gneo Pompeo Strabone.
A sé stavano i ritratti su personaggi romani e greci famosi nel campo della politica e della cultura, composti da Varrone nelle Imagines: al vero e proprio ritratto iconografico (fu questo il primo libro romano di cui abbiamo notizia) si accompagnavano brevi biografie, modellate sulla tradizione scolastica degli eruditi greci. Il medesimo modello agì sull’altra opera biografica di Varrone, il De poëtis.

Cornelio Nepote e i suoi «uomini illustri»
Nulla però ci resta di questa produzione di vari autori, mentre è giunta fino a noi una parte (piccola, rispetto all’insieme originario) dell’opera di Cornelio Nepote, che fu l’autentico fondatore della biografia letteraria romana. Contemporaneo di Catullo e dei poëtae novi, Cornelio come loro proveniva dalla Gallia Cisalpina.
Oltre ai tre libri dei Chronica, una vasta compilazione di storia universale, scrisse il De viris illustribus, in almeno sedici libri (pubblicati forse nel 34 a.C.), in cui raccontava la vita di molti uomini famosi, distinguendoli per categorie (re, generali, poeti, storici e altri) e raggruppandoli alternativamente in romani e stranieri, cioè greci, secondo il modello delle Imagines varroniane; mettendo a confronto le glorie nazionali con i migliori esemplari della civiltà greca, egli contribuì effettivamente a sprovincializzare la cultura di Roma: abitudini di vita diverse non erano meno degne di rispetto di quelle raccomandate dal mos maiorum.
Sul piano storico Cornelio ha scarso valore, per l’insufficiente controllo delle fonti citate e la propensione a dare rilievo agli aspetti moralistici del racconto biografico; non mirando a un pubblico in cerca di un’informazione approfondita, il suo scopo rimane divulgativo e aneddotico. Buon piglio narrativo e uno stile disinvolto, anche se talora un po’ trascurato, con espressioni quotidiane e arcaismi, caratterizzano la sezione giuntaci dell’opera (De excellentibus ducibus exterarum gentium, che comprende 22 biografie di comandanti stranieri, 19 dei quali greci), accanto a due vite del De historicis Latinis, quelle di Catone il Censore e di Attico.

Il programma di Cicerone: la storiografia come opus oratorium maxime
Autobiografie, biografie, commentarii non rispondevano però ancora a quella domanda di storiografia letteraria in senso "alto", modellata sui grandi storici greci (Erodoto, Tucidide, Senofonte, prima ancora di Polibio) dell’età classica, che veniva avanzata per esempio da Cicerone. Scrivendo nel giugno del 56 a.C. a un certo Lucceio, uomo politico e storico che stava allora approntando un’opera storica sui decenni precedenti, Cicerone gli chiese di illustrare approfonditamente le glorie del proprio consolato; non venne accontentato da Lucceio, ma la lettera ciceroniana (Ad familiares V, 12) è ugualmente importante sul piano programmatico, come fondazione di una storiografia oratoria, artisticamente elaborata: una storiografia dunque narrativa (o "mimetica") e non pragmatica sul modello polibiano; una storiografia capace d’impressionare e coinvolgere il lettore-ascoltatore anzitutto per la cura dello stile e l’avvincente concatenazione dei fatti narrati. Lo storico, aggiunge Cicerone nella stessa lettera, può mirare a suscitare nei lettori sentimenti di compassione: il contemplare vicende dolorose, che appartengono ad altri e al loro passato, habet delectationem, produce per compenso una sensazione di piacere. Questa purificazione delle passioni o kátharsis era lo scopo anche della tragedia; qui Cicerone guarda ai peripatetici e all’impostazione "prosopografica" (da prósopon, "personaggio") che essi conferivano alla storiografia, incentrandola sul personaggio-eroe. Non dimentica peraltro la componente diciamo "polibiana" della riflessione politica; si augura infatti che Lucceio individui le cause dei recenti moti civili e rivoluzionari e suggerisca le soluzioni ai problemi. Su tale programma Cicerone tornò in un passo del trattato retorico De oratore, in cui sono però maggiormente sottolineate quelle esigenze di obiettività e di scrupolo storico che nella lettera a Lucceio apparivano messe quasi tra parentesi. L’imparzialità e il rigore sono, afferma Cicerone, i fundamenta, gli ovvi presupposti della storiografia; la loro traduzione concreta (exaedificatio) spetta poi ai contenuti (res), che devono essere i più precisi possibile, e allo stile (verba), cui si chiede il pregio della bella forma. Cicerone guarda a una storiografia consapevole degli artifici retorici che sono alla base dell’eloquenza, anche se poi l’effetto finale sarà diverso: allo storico si addice infatti "uno stile diffuso e pacato, che fluisce con dolcezza e privo di asperità, senza gli sbalzi e le punte polemiche tipiche dell’eloquenza dei tribunali" (De oratore II, 64). Il modello è qui offerto dalle opere di Erodoto e, più ravvicinatamente, dallo stile isocrateo, che ricorreva solo moderatamente ai colores della retorica e che risultava piacevolmente scorrevole e sintetico, Grazie a tale cura stilistica, l’opera storica potrà davvero divenire opus oratorium maxime ("opera essenzialmente di scrittori"), come Cicerone riassume nel De legibus (I, 1, 5). Si può ricordare anche un altro passo dello stesso De oratore: «la storia è testimone dei tempi, luce di verità, vita della memoria, maestra di vita (magistra vitae), messaggera dell’antichità», che è, come commenta Domenico Musti, «il condensato della poetica storiografica di stampo isocrateo, come ha trovato accoglienza e fertile terreno in Roma».

La crisi della respublica nelle due monografie storiche di Sallustio
Agli auspici di Cicerone non rispose il suo amico Lucceio, ma Sallustio. Tuttavia, benché abbia effettivamente interpretato il genere storico come opus oratorium maxime, il primo grande storico romano non si scelse come modello Erodoto, bensì Tucidide; si adatta benissimo a definire lo stile sallustiano un ritratto dello stile tucidideo offerto, nel De Thucydide, dal retore greco Dionigi di Alicarnasso, che visse a Roma pochi anni dopo Sallustio: «Quelli che scrivono opere storiche, a cui si richiede magnificenza, solennità e un discorso che produca stupore, devono anzitutto mirare a uno stile ricco di termini insoliti, antichi e metaforici, lontani, perché strani e inusuali, dai costrutti comuni». Effettivamente ciò che colpisce immediatamente il lettore di Sallustio è proprio l’uso di uno stile «tucidideo», con gli arcaismi in funzione poetica, le trasposizioni nell’ordine del discorso, il troncamento di frasi e di periodi. Anche il modello di storia «drammatica» della scuola peripatetica, incentrato sull’ethos del personaggio, agiva però su Sallustio: in effetti le sue due monografie storiche, il De Catilinae coniuratione (sulla congiura di Catilina del 63 a.C.) e il Bellum Jugurthinum (sulla guerra in Numidia contro Giugurta del 111 - 105 a.C.), s’incentrano su un personaggio (Catilina nella prima, Mario nella seconda) cui è attribuito grande rilievo anche dal punto di vista dell’analisi psicologica e attorno al quale ruotano altri protagonisti di contorno (Cesare, Catone l’Uticense, Fulvia nella prima opera; Giugurta, Silla, Bacco nella seconda). A tale concentrarsi dell’attenzione attorno a una vicenda centrale, con le sue principali diramazioni, contribuisce la scelta, originalissima, del sottogenere monografico: l’unico precedente di un qualche rilievo era lo sguardo monografico dedicato, in senso però più ampio, da Celio Antìpatro alla seconda guerra punica. L’impostazione monografica consente a Sallustio di focalizzarsi su un singolo problema storico, pur entro una visione più ampia della storia romana, e di confrontarsi così con le «malattie» di cui soffriva la respublica. Di tale crisi sono diagnosticate la genesi e le manifestazioni più acute e viene indicata una possibile terapia: la storiografia sallustiana è, secondo la migliore tradizione dell’historia a Roma, strettamente legata alla prassi politica. All’origine di tutto vi sono il deterioramento del mos maiorum (il moralismo è una componente decisiva in Sallustio e tale rimarrà in tutta la grande sto­ riografia romana, da Livio a Tacito) e la corruzione della nobilitas, incapace di porsi come guida autorevole dello stato. In Catilina lo storico emblematicamente incarna il rischio dell’avventura sovversiva e senza ritorno, connesso allo scadimento della lotta politica tra le factiones. Quanto ai rimedi, infine, la speranza dell’autore è riposta in Cesare, colui che potrebbe risolvere la crisi della respublica e ristabilire l’ordine su basi politiche nuove. Dopo l’uccisione di Cesare, tutte le speranze di Sallustio paiono però venire meno: un cupo clima di pessimismo domina le Historiae, l’opera sua di maggiore respiro, rimasta incompiuta per la morte (avvenuta nel 35 o 36 a.C.) e della quale ci sono giunti pochi frammenti.


Erodoto
Storico greco ( 484-424 a.C), nato ad Alicarnasso, in Asia Minore, da famiglia illustre. Poco sappiamo della sua vita; ancora giovane, andò esule a Samo, essendo la sua famiglia coinvolta nel fallito. tentativo di rovesciamento del tiranno Ligdami. Viaggiò molto, anche in Oriente e in Egitto. In Atene fu attivo nell’entourage di Pericle; leggeva pubblicamente, a pagamento, sezioni delle sue Storie. L’opera, suddivisa in nove libri, è dedicata ai rapporti greco-persiani (dal VII secolo a.C. fino alle guerre persiane del V secolo a.C.); non segue un ordine preciso, cronologico o geografico, ma ospita continue digressioni: perciò si è pensato che fosse nata da una serie di monografie autonome. Conobbe in ogni caso molti rimaneggiamenti nel corso dell’intera vita dell’autore, cosa che evidenzia il suo legame con l’arcaica cultura orale, anche dal punto di vista culturale (presenza di eventi favolosi; apertura enciclopedica a interessi etnografici, geografici ecc.; ambizione di dilettare il lettore, preservando la memoria delle imprese). Perciò, a paragone della storiografia più «scientifica» di Tucidide, le Storie furono ritenute opera «primitiva»; le recenti rivalutazioni hanno invece messo in luce lo straordinario talento narrativo di Erodoto e la sua sostanziale attendibilità.

Tucidide
Storico ateniese (460 ca - 404 a. C.), nato da famiglia agiata, forse imparentata con Milziade e Cimone; fu stratego in Tracia nel 424-423 a.C., ma non riuscì a impedire che il persiano Brasida conquistasse Anfipoli. Fu perciò esiliato da Atene; nei venti anni successivi (dall’inizio del 431 all’estate del 411 a. C) si dedicò alla sua opera storica, La guerra del Peloponneso, in otto libri dedicata al conflitto tra Sparta e Atene. Tucidide poté ritornare in patria e vedere la fine della guerra (403 a .C). Rimasta incompiuta, la Guerra del Peloponneso si apre con l’Archeologia, una serie di capitoli dedicati alla storia greca arcaica, e poi analizza minuziosamente le cause prossime del conflitto. Il racconto dei fatti bellici comincia dal secondo libro e procede scandito per estati e inverni, con grande rigore documentario e limitandosi unicamente alla sfera politica e militare. Grande rilievo «drammatico» assumono nella sua opera i discorsi, messi in bocca a diversi personaggi «così come mi sembrava - scrive lo storico - che potessero parlare». Tucidide, che adotta un linguaggio complesso, ricco di ipotassi, si pone lo scopo di un’analisi spassionata della natura umana, cosi da poter prevedere i futuri comportamenti degli uomini. La sua storiografia «scientifica» e politica ebbe molti imitatori, tra cui Polibio e Sallustio.
Postato il 20 gennaio 2013

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