30 giugno 2012

Gola: il cibo? È condivisione

Vizi capitali (2): la gola
di Andrea Lonardo
Gesù dichiara puri tutti gli alimenti ed i cristiani mangiano con gioia ogni tipo di carne e bevono ogni tipo di bevanda. Senza il cristianesimo e la cultura classica sarebbero impensabili i tortellini o il Brunello di Montalcino - anche qui appaiono evidenti le radici dell’Europa! Perché allora la gola è un vizio? Perché è addirittura un vizio capitale, cioè di quelli che conducono alla morte?
Per rispondere vale la pena innanzitutto tornare alla rivelazione di Dio ad Israele. In Genesi l’uomo appare fin dall’inizio come una creatura alla quale Dio comanda di mangiare. Ma Adamo è allo stesso tempo l’unico essere che ha la possibilità di prendere cibo rendendo grazie. Egli non solo è tratto dalla terra una volta per tutte - Genesi gioca con il termine adam, che si potrebbe tradurre con “terrestre”, “terroso”, “polveroso” perché tratto min adamah, cioè “dalla terra”, “dalla polvere” - ma deve ogni giorno prendere dei frutti della terra e mangiarne.
Egli non ha la vita una volta per tutte, bensì la riceve sempre di nuovo in dono dallo stesso Creatore che tutto ha fatto perché l’uomo potesse servirsene. La bellezza di ogni pasto è quella di ripresentare continuamente il “mistero” dell’uomo e della sua esistenza di creatura sempre ricreata. Il «pane quotidiano» non si può così assumere una volta per tutte, ma come la manna deve scendere nuovamente ogni giorno.
Il cibo è allora non “cosa”, ma “dono”. Non semplice oggetto di cui appropriarsi, bensì esperienza di vita ricevuta. Il vizio della gola ha la sua radice proprio nella dimenticanza del “miracolo” del cibo e della vita che ne deriva. Il filosofo danese Soeren Kierkegaard ha scritto nel suo Diario: «La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani». È una descrizione impietosa della condizione dell’uomo che non si dirige più da nessuna parte, che ha smarrito la propria origine e semplicemente sopravvive mangiando. In due modi complementari Genesi 1 e 2 ricordano la peculiarità dell’uomo. Nel I capitolo l’uomo è creato nel sesto giorno, alla fine di tutte le opere, nel II capitolo all’inizio di tutto, prima di ogni altra creatura. In questi due modi la Bibbia dice l’assoluta bellezza dell’uomo: in Genesi 1 egli giunge per ultimo come l’essere più “buono”, in Genesi 2 l’uomo è fatto per primo come colui in vista del quale tutto verrà all’esistenza - ben prima di Galilei la Bibbia ha sempre saputo che i sei giorni della creazione non debbono essere presi alla lettera! In maniera altrettanto complementare il I capitolo dice che solo l’uomo è creato «ad immagine e somiglianza di Dio», mentre il II ricorda che Dio «soffiò un alito di vita» solo nell’uomo.
Proprio nel modo di prendere cibo appaiono il primato dell’uomo e la sua natura insieme spirituale e materiale, poiché egli è indissolubilmente corpo e anima. Nessun animale prega prima di mangiare. Alle bestie non è dato né di bestemmiare, né di ringraziare. Esse semplicemente vivono, divorandosi a vicenda. L’uomo può riferire a Dio anche il cibo o rifiutarsi di farlo, riconoscendo il dono ed il “sacrificio” della creazione che gli viene offerta. La tradizione ebraica ha fatto della benedizione il cuore della sua relazione con Dio e della sua testimonianza nel mondo. Dice una magnifica benedizione che si recita al mattino: «Benedetto Tu o Signore Dio nostro Re del Mondo, che hai creato l’uomo con sapienza, e vi hai creato fori e canali. È chiaro e noto davanti al Tuo trono che se uno di questi si chiudesse o si aprisse nessuna creatura potrebbe resistere neppure per poco tempo. Benedetto Tu o Signore, medico di ogni creatura e meraviglioso artefice». Questa preghiera esprime la gratitudine per il buon funzionamento del corpo umano, riconoscendone insieme la precarietà che sempre necessita della forza divina.
In un recente incontro del Cortile dei gentili il filosofo francese Fabrice Hadjadj ricordava quanto fosse banale considerare l’uomo semplicemente come la più evoluta delle creature, perché la più adattabile: «Alcuni dicono che l’affermazione dell’uomo, nel corso dell’evoluzione, sarebbe dovuta alla sua maggiore capacità di adattarsi al mondo. Eppure l’uomo sembra, al tempo stesso, un grande disadattato: invece di vivere pacificamente secondo l’istinto, cerca un senso, decifra il mondo come se fosse una foresta di simboli, desidera un al di là, un al di là non necessariamente come un altro mondo, ma come un modo di penetrare nel segreto di questo mondo, di intenderlo nel suo mistero, di bere alla sua fonte». E continuava, affermando: «Noi possiamo riprendere qui un verbo inventato da Dante, e dire che l’uomo è fatto per “trasumanarsi”».
All’uomo non basta il cibo del mondo intero: egli deve comprendere perché vale la pena mangiare e cosa fare della vita che si riceve ad ogni pasto. Nell’incontro con la samaritana, Gesù le apre il cuore proprio a partire dalla sua sete invincibile: la donna non è mai “sazia” dell’acqua del pozzo e nemmeno dei suoi molti mariti (neanche l’amore basta mai!) e nemmeno delle sue domande religiose, finché non incontrerà il Messia, l’unico che disseta ogni attesa. Ora Egli è là. Ed è Lui - ricorda Sant’Agostino ad avere sete della fede della donna.
Proprio le moderne ricerche psicologiche ci hanno resi più consapevoli che il difficile rapporto con il cibo nasconde in realtà una ferita dell’anima. La bulimia e l’anoressia non sono semplicemente delle malattie, quanto dei sintomi di una sofferenza dello spirito quando non ha ancora trovato un terreno solido che garantisca che vale la pena vivere sempre e comunque.
Il Nemico vorrebbe invece tutto ridurre a fame terrena, perché Dio e l’amore siano dimenticati. Vorrebbe che il cibo fosse solo “cosa”, e non “segno”. Nelle tentazioni, Gesù risponde al diavolo: «Non di solo pane vivrà l’uomo». Certo l’uomo vivrà anche di pane, ma non sarà esso a bastargli. Gesù insegna così a privarsi del cibo, proprio per lasciar emergere quella “fame” che abita nel profondo del cuore: «Mio cibo è compiere la volontà del Padre».
Appare subito evidente che il rischio di ridurre tutto a gola non appare solo nella vita individuale: quanto le grandi ideologie del XX secolo hanno illuso generazioni intere che bastasse saziare le pance per avere “uomini nuovi”!
Recentemente è stato Benedetto XVI a ricordare, invece, che anche chi è povero avverte l’insopprimibile fame di Dio: «l’anima africana e anche l’anima asiatica restano sconcertate di fronte alla freddezza della nostra razionalità [occidentale]. È importante dimostrare che da noi non c’è solo questo. Non è giusto pensare che la cultura puramente razionale, grazie alla sua tolleranza, abbia un approccio più facile alle altre religioni. Ad essa manca in gran parte “l’organo religioso” e con ciò il punto di aggancio a partire dal quale e con il quale gli altri vogliono entrare in relazione. Perciò dobbiamo, possiamo mostrare che proprio per la nuova interculturalità, nella quale viviamo, la pura razionalità sganciata da Dio non è sufficiente».
Dante, sommo poeta, ha saputo con i suoi versi incomparabili mostrare la bassezza dell’uomo che riduce la sua vita all’ingurgitare. Già Cerbero, che scortica e trangugia brandelli del corpo dei dannati del terzo cerchio, è un essere a cui basta gettare del cibo perché si calmi - si racqueta poi che l’pasto morde (Inferno VI 29).
Ma è l’intera descrizione che atterrisce. Per una sorta di similitudine con la loro vita terrena, nel girone dei golosi tutto è squallore, tutto è poltiglia informe in cui si sguazza. Esistono pene maggiori, ma nessuna è così triste: hai sì fatta pena, che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente (Inferno VI, 47-48). Lì il Poeta incontra Ciacco i cui gesti finali dicono tutto di chi è caduto nel vizio della gola. Egli ha il capo che guarda a terra, come un cieco, incapace di vedere la vita: e poi chinò la testa: cadde con essa a par de li altri ciechi (Inferno VI, 47-48). E proprio quel Ciacco inizierà a predire a Dante le lotte intestine di Firenze e l’esilio che lo raggiunse nel 1301 mentre era ambasciatore a Roma. Le fazioni della città dopo lunga tencione verranno al sangue (Inferno VI, 64-65). Il cibo si muta da benedizione in maledizione, poiché per il possesso della città tutti combatteranno.
Dante rinnova così il messaggio biblico: il cibo è fatto non solo per essere consumato, bensì per essere condiviso. Proprio l’arte della cucina è una delle espressioni alte della cultura umana. Essa coniuga la raffinatezza della preparazione e l’esaltazione del gusto degli ingredienti con la fraternità che il cibo è capace di creare, quando diviene espressioni di amore.
Enzo Bianchi, priore di Bose, ha scritto con acume: «Davvero la cucina e la tavola sono l’epifania dei rapporti e della comunione. Del resto, il cibo è come la sessualità: o è parlato oppure è aggressività, consumismo; o è contemplato e ordinato oppure è animalesco; o è esercizio in cui si tiene conto degli altri oppure è cosificato e svilito; o è trasfigurato in modo estatico oppure è condannato alla monotonia e alla banalità. Il cibo cucinato e condiviso - il pasto - è allora luogo di comunione, di incontro e di amicizia: se infatti mangiare significa conservare e incrementare la vita, preparare da mangiare per un altro significa testimoniargli il nostro desiderio che egli viva e condividere la mensa testimonia la volontà di unire la propria vita a quella del commensale».
Il cristianesimo è la religione che più insegna la bontà di ogni cibo, non vietandone nessuno, poiché tutto è opera di Dio e, quindi, buono. Cristo - dice il Vangelo di Marco (Mc 7, 19-20) - «rendeva puri tutti gli alimenti. E diceva: “Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo” ». Ed al Signore ha fatto eco San Paolo, mettendo in guardia Timoteo da coloro che imporranno «di astenersi da alcuni cibi, che Dio ha creato perché i fedeli, e quanti conoscono la verità, li mangino rendendo grazie. Infatti ogni creazione di Dio è buona e nulla va rifiutato, se lo si prende con animo grato, perché esso viene reso santo dalla parola di Dio e dalla preghiera» (1 Tm 4, 3-5), invitandolo anche «a non bere soltanto acqua, ma bevi un po’ di vino, a causa dello stomaco e dei tuoi frequenti disturbi» (1 Tm 5, 23).
In fondo il cibo ripresenta la logica del piacere che Dio ha posto nel creato. Il piacere, proprio perché non basta a se stesso, domanda un senso che lo abbracci. Il piacere è come un indicatore di trascendenza. Nel suo rapido scomparire reca implicita la domanda cosa sopravviva al suo straordinario, ma fuggevole passaggio. Se dopo un gesto sessuale, resta accresciuta la tenerezza, la fedeltà, il desiderio di accogliere i figli che verranno, ecco che quel piacere non si tramuterà in maledizione, bensì maturerà in bellezza e significato. Così se la bontà del cibo è abbracciata dall’amicizia delle persone con cui lo si è condiviso e dal ringraziamento a Dio che lo ha donato, ecco che quel piacere non verrà eliminato, bensì raggiungerà la sua perfezione.
Il vizio della gola dimentica, invece, proprio quelle relazioni vitali che danno significato al cibo. E la pratica del digiuno ha valore di esercizio perché ritrovino spazio la fede e la carità, le sole capaci di “sfamare” l’uomo.
«Avvenire» del 30 giugno 2012

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