Sindromi Cia, Mossad, massoni, gesuiti: per molti ci sono loro dietro tutti i misteri
di Giovanni Belardelli
Tranfaglia, Gustavo Selva, perfino «Le Monde». Non tramonta mai l’ossessione delle trame
Secondo un’opinione molto diffusa, la realtà non è mai come appare perché i veri protagonisti delle decisioni non rilasciano interviste, non vanno in televisione, ma restano sempre nell’ombra. E quel che noi crediamo di conoscere è, invece, soltanto ciò che «loro» vogliono farci conoscere. «Loro», secondo questa ossessione del complotto che in Italia ha una circolazione assai ampia, sono di volta in volta i poteri forti, i servizi segreti più o meno deviati, la Cia e gli americani, le mafie, il Mossad ovvero, per non mandare in pensione una delle versioni più antiche della teoria del complotto, puramente e semplicemente «gli ebrei». Per qualcuno la discesa in politica di Berlusconi nel 1994 sarebbe stata preventivamente concordata con la mafia, per qualcun altro (e non un osservatore qualunque, ma l’ex presidente della Repubblica Cossiga) negli eventi che di quella discesa furono causa indiretta — le inchieste di Mani pulite e la crisi del sistema dei partiti — c’era senz’altro lo zampino degli Stati Uniti e della Cia.
Nel novembre scorso, dopo le dimissioni del presidente del Consiglio Berlusconi, le interpretazioni complottiste si diffusero a macchia d’olio sul Web e non solo: perfino «Le Monde» vide all’origine del governo Monti una trama maturata negli ambienti di Goldman Sachs. Nel 2010 l’ex parlamentare di An Gustavo Selva dichiarò che la rottura tra Fini e Berlusconi nasceva dalla contiguità del presidente della Camera con lamassoneria (ma cinque anni prima La Russa, Gasparri e Matteoli avevano addirittura ipotizzato «un’iniziazione massonica di Fini da parte di Amato e Chirac», membri con lui della Convenzione europea).
Se negli anni Settanta si parlò delle «sedicenti» Brigate rosse, fu appunto per l’idea che dietro il terrorismo di Curcio e Franceschini vi fossero trame e soggetti di ben altro colore e con ben altri scopi rispetto a quelli dichiarati nelle risoluzioni strategiche delle Br. Per anni anche storici come Franco De Felice o Nicola Tranfaglia hanno dato credito alla teoria di un «doppio Stato» che legherebbe tutti, e tutti spiegherebbe, imisteri della nostra storia. Naturalmente, non è che le vicende italiane difettino di misteri, di episodi oscuri, di fatti mai chiariti in modo convincente. Ma ciò che distingue la sindrome del complotto è un salto di immaginazione: partendo da fatti che sono almeno in parte veri, si dà corpo all’idea di una «grande cospirazione» come veromotore degli eventi storici. È questo l’elemento distintivo di ciò che lo storico Richard Hofstadter chiamò lo «stile paranoico» in un famoso saggio di quasi cinquant’anni fa (Lo stile paranoico nella politica americana), finalmente tradotto in italiano sull’ultimo numero della «Rivista di politica» diretta da Alessandro Campi (Rubbettino), che dedica vari articoli proprio al tema del complotto.
Nel corso del XX secolo — ricorda Hofstadter — lo stile paranoico riportò un trionfo assoluto nella Germania di Hitler, che pretese di giustificare la propria politica antisemita come reazione a un complotto ebraico, ma fu ben presente anche nei processi staliniani, dominati da una costante ossessione della congiura. Un’ossessione che era presente anche in alcuni esponenti della destra americana, convinti che, a partire dal New Deal di Roosevelt, i vertici del governo fossero infiltrati dai comunisti. Nel 1951 il senatore McCarthy denunciò una «vasta cospirazione» che a suo dire aveva tra i propri capi il segretario di Stato George C. Marshall, le cui decisioni «servivano sempre e invariabilmente la politica mondiale del Cremlino».
Che si tratti dei deliri anticomunisti del senatore McCarthy, della descrizione del complotto ebraico contenuta nei famigerati Protocolli dei Savi anziani di Sion (ancora oggi molto diffusi in alcuni Paesi arabi), del ricorso a un «doppio Stato» o a qualche «grande vecchio» per spiegare la «vera storia» dell’Italia repubblicana, l’immaginario complottista utilizza un modello che nella sua struttura è sempre lo stesso. È il modello — come sostiene Raoul Girardet in un testo anch’esso pubblicato sulla «Rivista di politica» — che venne utilizzato dall’abate Barruel nelle sue Memorie per servire alla storia del giacobinismo, del 1797. Di fronte alla necessità di spiegare quell’evento straordinario che era la Rivoluzione francese, Barruel la considerò appunto come il risultato di un complotto massonico volto alla distruzione della civiltà cristiana. Altri, negli anni seguenti, chiameranno in causa piuttosto gli ebrei o i gesuiti come veri capi del complotto destinato alla conquista del potere mondiale. Ma la struttura del paradigma complottista restava invariata: un’organizzazione potentissima e segreta; l’utilizzazione di ogni mezzo per il raggiungimento dei propri scopi; l’importanza attribuita al controllo dei mezzi di informazione e del sistema finanziario internazionale; la presenza di rituali e pratiche criminali.
Rispetto agli esempi ottocenteschi citati da Girardet, l’ossessione del complotto assume oggi altre forme ed evoca altri responsabili (anche se non sempre, perché gli ebrei e Israele rappresentano purtroppo un evergreen dell’ossessione complottista). Ma utilizza una struttura che è ancora fondamentalmente la stessa. A determinare il costante successo delle teorie del complotto, anche delle più inverosimili che costantemente circolano sul Web, sta infatti sempre una medesima esigenza: la necessità di trovare spiegazioni semplici per i fenomeni complessi, impersonali e opachi del mondo globalizzato nel quale viviamo. «Quando la società soffre — osservò Émile Durkheim — sente il bisogno di trovare qualcuno a cui attribuire il suomale, qualcuno su cui vendicarsi delle sue delusioni». Per tanti piccoli negozianti francesi che a fine Ottocento soffrivano le conseguenze della crisi economica, era di ben scarsa soddisfazione sapere che a ridurli sul lastrico era stata una entità impersonale e inafferrabile come «il mercato». Assai meglio prendersela con le trame ordite dai Rothschild e dai loro confratelli ebrei.
La forza di ogni teoria complottista, ciò che ne favorisce il successo, è dunque il fatto che essa fornisce una spiegazione semplice di ciò che è complicato e spesso mai interamente spiegabile (chi è affetto dalla sindrome del complotto non crede all’eterogenesi dei fini, cioè al fatto che gli avvenimenti non corrispondono mai del tutto alle intenzioni iniziali dei protagonisti). Ma per l’Italia possiamo ipotizzare che la facilità con cui molti credono a complotti e congiure, ai «grandi vecchi» o ai «pezzi di Stato» che tramano nell’ombra e tutto decidono, si alimenti anche di una cronica sfiducia nelle istituzioni. È probabile insomma che nel nostro Paese la sindrome del complotto, unendosi al dilagante sentimento antipolitico, di questo condivida la popolarità e il successo.
Nel novembre scorso, dopo le dimissioni del presidente del Consiglio Berlusconi, le interpretazioni complottiste si diffusero a macchia d’olio sul Web e non solo: perfino «Le Monde» vide all’origine del governo Monti una trama maturata negli ambienti di Goldman Sachs. Nel 2010 l’ex parlamentare di An Gustavo Selva dichiarò che la rottura tra Fini e Berlusconi nasceva dalla contiguità del presidente della Camera con lamassoneria (ma cinque anni prima La Russa, Gasparri e Matteoli avevano addirittura ipotizzato «un’iniziazione massonica di Fini da parte di Amato e Chirac», membri con lui della Convenzione europea).
Se negli anni Settanta si parlò delle «sedicenti» Brigate rosse, fu appunto per l’idea che dietro il terrorismo di Curcio e Franceschini vi fossero trame e soggetti di ben altro colore e con ben altri scopi rispetto a quelli dichiarati nelle risoluzioni strategiche delle Br. Per anni anche storici come Franco De Felice o Nicola Tranfaglia hanno dato credito alla teoria di un «doppio Stato» che legherebbe tutti, e tutti spiegherebbe, imisteri della nostra storia. Naturalmente, non è che le vicende italiane difettino di misteri, di episodi oscuri, di fatti mai chiariti in modo convincente. Ma ciò che distingue la sindrome del complotto è un salto di immaginazione: partendo da fatti che sono almeno in parte veri, si dà corpo all’idea di una «grande cospirazione» come veromotore degli eventi storici. È questo l’elemento distintivo di ciò che lo storico Richard Hofstadter chiamò lo «stile paranoico» in un famoso saggio di quasi cinquant’anni fa (Lo stile paranoico nella politica americana), finalmente tradotto in italiano sull’ultimo numero della «Rivista di politica» diretta da Alessandro Campi (Rubbettino), che dedica vari articoli proprio al tema del complotto.
Nel corso del XX secolo — ricorda Hofstadter — lo stile paranoico riportò un trionfo assoluto nella Germania di Hitler, che pretese di giustificare la propria politica antisemita come reazione a un complotto ebraico, ma fu ben presente anche nei processi staliniani, dominati da una costante ossessione della congiura. Un’ossessione che era presente anche in alcuni esponenti della destra americana, convinti che, a partire dal New Deal di Roosevelt, i vertici del governo fossero infiltrati dai comunisti. Nel 1951 il senatore McCarthy denunciò una «vasta cospirazione» che a suo dire aveva tra i propri capi il segretario di Stato George C. Marshall, le cui decisioni «servivano sempre e invariabilmente la politica mondiale del Cremlino».
Che si tratti dei deliri anticomunisti del senatore McCarthy, della descrizione del complotto ebraico contenuta nei famigerati Protocolli dei Savi anziani di Sion (ancora oggi molto diffusi in alcuni Paesi arabi), del ricorso a un «doppio Stato» o a qualche «grande vecchio» per spiegare la «vera storia» dell’Italia repubblicana, l’immaginario complottista utilizza un modello che nella sua struttura è sempre lo stesso. È il modello — come sostiene Raoul Girardet in un testo anch’esso pubblicato sulla «Rivista di politica» — che venne utilizzato dall’abate Barruel nelle sue Memorie per servire alla storia del giacobinismo, del 1797. Di fronte alla necessità di spiegare quell’evento straordinario che era la Rivoluzione francese, Barruel la considerò appunto come il risultato di un complotto massonico volto alla distruzione della civiltà cristiana. Altri, negli anni seguenti, chiameranno in causa piuttosto gli ebrei o i gesuiti come veri capi del complotto destinato alla conquista del potere mondiale. Ma la struttura del paradigma complottista restava invariata: un’organizzazione potentissima e segreta; l’utilizzazione di ogni mezzo per il raggiungimento dei propri scopi; l’importanza attribuita al controllo dei mezzi di informazione e del sistema finanziario internazionale; la presenza di rituali e pratiche criminali.
Rispetto agli esempi ottocenteschi citati da Girardet, l’ossessione del complotto assume oggi altre forme ed evoca altri responsabili (anche se non sempre, perché gli ebrei e Israele rappresentano purtroppo un evergreen dell’ossessione complottista). Ma utilizza una struttura che è ancora fondamentalmente la stessa. A determinare il costante successo delle teorie del complotto, anche delle più inverosimili che costantemente circolano sul Web, sta infatti sempre una medesima esigenza: la necessità di trovare spiegazioni semplici per i fenomeni complessi, impersonali e opachi del mondo globalizzato nel quale viviamo. «Quando la società soffre — osservò Émile Durkheim — sente il bisogno di trovare qualcuno a cui attribuire il suomale, qualcuno su cui vendicarsi delle sue delusioni». Per tanti piccoli negozianti francesi che a fine Ottocento soffrivano le conseguenze della crisi economica, era di ben scarsa soddisfazione sapere che a ridurli sul lastrico era stata una entità impersonale e inafferrabile come «il mercato». Assai meglio prendersela con le trame ordite dai Rothschild e dai loro confratelli ebrei.
La forza di ogni teoria complottista, ciò che ne favorisce il successo, è dunque il fatto che essa fornisce una spiegazione semplice di ciò che è complicato e spesso mai interamente spiegabile (chi è affetto dalla sindrome del complotto non crede all’eterogenesi dei fini, cioè al fatto che gli avvenimenti non corrispondono mai del tutto alle intenzioni iniziali dei protagonisti). Ma per l’Italia possiamo ipotizzare che la facilità con cui molti credono a complotti e congiure, ai «grandi vecchi» o ai «pezzi di Stato» che tramano nell’ombra e tutto decidono, si alimenti anche di una cronica sfiducia nelle istituzioni. È probabile insomma che nel nostro Paese la sindrome del complotto, unendosi al dilagante sentimento antipolitico, di questo condivida la popolarità e il successo.
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» del 31 marzo 2012
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