Disumane teorie bioetiche
di Gian Luigi Gigli
L’aborto è largamente accettato per ragioni che nulla hanno a che fare con la salute del feto. Al pari del feto, il neonato non ha lo status morale di una reale persona umana. Anche il fatto che feto e neonato indiscutibilmente siano da considerarsi potenzialmente persone umane, è irrilevante dal punto di vista etico. Non sempre l’adozione è nel miglior interesse di una persona. Pertanto l’aborto dopo la nascita (cioè l’infanticidio, ossia l’uccisione di un neonato) dovrebbe essere permesso in tutti i casi in cui è permesso l’aborto, inclusi i casi in cui il neonato non è portatore di disabilità.
Detto così brutalmente sembra il trailer di un film dell’orrore. Invece si tratta del riassunto fedele di un articolo apparso on line pochi giorni fa sul Journal of Medical Ethics, la prestigiosa rivista della stessa editrice del British Medical Journal.
Si va ben al di là dello stesso ignominioso Protocollo di Groningen, in base al quale dal 2002 in Olanda è permesso porre fine attivamente alla vita dei neonati con prognosi infausta che, a giudizio dei medici e dei genitori, si trovano in condizioni di «sofferenza insopportabile». Nell’articolo si afferma infatti la liceità morale anche dell’infanticidio per motivi economici, psicologici o sociali (auspicandone domani la liceità giuridica).
Non è casuale che esso sia stato pubblicato sulla rivista fondata da Tristam H. Engelhardt, il noto bioeticista che coniò la definizione di «straniero morale» per indicare tutti quegli esseri umani (non nati, gravi ritardati mentali, dementi, comatosi, stati vegetativi, etc.) che non avrebbero titolo a essere considerati persone umane perché privi della capacità di esprimere biasimo o lode e quindi, appunto, estranei alla comunità sociale.
Non è casuale neanche il fatto che uno dei due autori dello sconvolgente articolo sia affiliato alla Monash University di Melbourne, tempio della bioetica utilitarista, eretto da Peter Singer e da Helga Khuse (colei che definì l’interruzione di nutrizione e idratazione «il cavallo di Troia» per far passare l’eutanasia).
Sconvolge semmai che i due autori, Alberto Giubilini e Francesca Minerva, siano entrambi italiani. Anche Sergio Bartolommei, successore di Maurizio Mori alla cattedra di bioetica di Pisa, che gli autori ringraziano per i preziosi suggerimenti in fase di redazione, è italiano. Studiosi italiani, dunque, cittadini di un Paese in cui la giustificazione per motivi utilitaristici delle azioni umane non è considerata un’attenuante, né moralmente né giuridicamente, ma semmai un’aggravante.
Se è permesso l’aborto, perché non l’infanticidio?, si chiedono oggi i due autori. E se domani sarà permesso l’infanticidio, ci chiediamo noi, perché non permettere dopodomani anche l’eliminazione dei dementi e degli altri «stranieri morali»? Il vaso di Pandora, una volta aperto, fa uscire di tutto, giustificando le decisioni più barbare e inumane come il legittimo prevalere degli interessi di chi è persona rispetto a chi lo sarebbe solo in modo potenziale o non lo sarebbe più per le sue condizioni di malattia. Secondo questa logica: l’«interesse» della società prevale inevitabilmente su quello di ciascun essere umano.
Pochi giorni fa, parlando a Torino presso la Casa Valdese, lo stesso Engelhardt riconosceva che, prive di un fondamento divino, «tutte le morali sono socialmente e storicamente condizionate» e che, pertanto, in una cultura dopo-Dio riusciva difficilmente sostenibile l’affermazione secondo cui «tutti gli uomini sono stati creati uguali». Forse è il caso che qualcuno, anche tra chi non crede in Dio, incominci a dire basta alle invasioni barbariche, per non trovarci tutti a vivere nel crepuscolo disumano della civiltà occidentale.
Detto così brutalmente sembra il trailer di un film dell’orrore. Invece si tratta del riassunto fedele di un articolo apparso on line pochi giorni fa sul Journal of Medical Ethics, la prestigiosa rivista della stessa editrice del British Medical Journal.
Si va ben al di là dello stesso ignominioso Protocollo di Groningen, in base al quale dal 2002 in Olanda è permesso porre fine attivamente alla vita dei neonati con prognosi infausta che, a giudizio dei medici e dei genitori, si trovano in condizioni di «sofferenza insopportabile». Nell’articolo si afferma infatti la liceità morale anche dell’infanticidio per motivi economici, psicologici o sociali (auspicandone domani la liceità giuridica).
Non è casuale che esso sia stato pubblicato sulla rivista fondata da Tristam H. Engelhardt, il noto bioeticista che coniò la definizione di «straniero morale» per indicare tutti quegli esseri umani (non nati, gravi ritardati mentali, dementi, comatosi, stati vegetativi, etc.) che non avrebbero titolo a essere considerati persone umane perché privi della capacità di esprimere biasimo o lode e quindi, appunto, estranei alla comunità sociale.
Non è casuale neanche il fatto che uno dei due autori dello sconvolgente articolo sia affiliato alla Monash University di Melbourne, tempio della bioetica utilitarista, eretto da Peter Singer e da Helga Khuse (colei che definì l’interruzione di nutrizione e idratazione «il cavallo di Troia» per far passare l’eutanasia).
Sconvolge semmai che i due autori, Alberto Giubilini e Francesca Minerva, siano entrambi italiani. Anche Sergio Bartolommei, successore di Maurizio Mori alla cattedra di bioetica di Pisa, che gli autori ringraziano per i preziosi suggerimenti in fase di redazione, è italiano. Studiosi italiani, dunque, cittadini di un Paese in cui la giustificazione per motivi utilitaristici delle azioni umane non è considerata un’attenuante, né moralmente né giuridicamente, ma semmai un’aggravante.
Se è permesso l’aborto, perché non l’infanticidio?, si chiedono oggi i due autori. E se domani sarà permesso l’infanticidio, ci chiediamo noi, perché non permettere dopodomani anche l’eliminazione dei dementi e degli altri «stranieri morali»? Il vaso di Pandora, una volta aperto, fa uscire di tutto, giustificando le decisioni più barbare e inumane come il legittimo prevalere degli interessi di chi è persona rispetto a chi lo sarebbe solo in modo potenziale o non lo sarebbe più per le sue condizioni di malattia. Secondo questa logica: l’«interesse» della società prevale inevitabilmente su quello di ciascun essere umano.
Pochi giorni fa, parlando a Torino presso la Casa Valdese, lo stesso Engelhardt riconosceva che, prive di un fondamento divino, «tutte le morali sono socialmente e storicamente condizionate» e che, pertanto, in una cultura dopo-Dio riusciva difficilmente sostenibile l’affermazione secondo cui «tutti gli uomini sono stati creati uguali». Forse è il caso che qualcuno, anche tra chi non crede in Dio, incominci a dire basta alle invasioni barbariche, per non trovarci tutti a vivere nel crepuscolo disumano della civiltà occidentale.
«Avvenire» del 28 febbraio 2012
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